Un vento impetuoso contro il mal francese. Critica della filosofia postmoderna e dei suoi effetti sul pensiero critico e sulla pratica rivoluzionaria

Il regresso teorico provocato dalla scomparsa del vecchio movimento operaio ha consentito l’egemonia d’una filosofia sorprendente, la prima che non si basi sull’amore della verità, oggetto primordiale della conoscenza. Il pensiero debole – o pensiero della post modernità – relativizza tale filosofia, che fa derivare da un insieme di convenzioni, di pratiche e costumi mutevoli nel tempo qualcosa di “costruito” e, di conseguenza, artificiale, privo di fondamento. Lo stesso vale per qualsiasi idea razionale di realtà, natura, etica, linguaggio, cultura, memoria, ecc. Anzi, certe autorità del piccolo mondo post-moderno non hanno mancato di etichettare alcuni di questi concetti come “fascisti”. Alla fine, parafrasando Nietzsche, non esiste più la verità, ma solo interpretazioni della medesima. In effetti una tale sistematica demolizione d’un pensiero che nasce coi Lumi e reclama la costituzione della libertà, da cui sorgerà più tardi, con l’apparire della lotta di classe, la critica sociale (e per quelli, specialmente professori e studenti, che preferiscono sguazzare nel fango dell’impostura delle ideologie rivoluzionarie piuttosto che bagnarsi nell’acqua pura dell’autenticità), ha tutta la parvenza d’una demistificazione radicale, condotta a buon fine da pensatori incendiari, il cui obiettivo finale non sarebbe altro che il caos liberatorio dell’individualità esasperata, la moltiplicazione delle identità e l’eliminazione di qualsiasi norma di comportamento comune. Al termine d’una tale orgia decostruttivista, nessun valore o concetto universale avranno ragione d’esistere: essere, ragione, giustizia, eguaglianza, solidarietà, comunità, umanità, rivoluzione, emancipazione… saranno tutti tacciati come “essenzialisti”, cioè come abomini “pro-natura”. Tuttavia, l’estremismo negatore dei post-filosofi manifesta, su un piano spirituale, coincidenze sospette con l’attuale capitalismo. Un radicalismo di una tale intensità confligge non soltanto con la vita e le scelte politiche dei suoi autori, molto accademici per gli uni e convenzionali per gli altri, ma coincide perfettamente con l’attuale fase della globalizzazione capitalista, caratterizzata dalla colonizzazione tecnologica, da un perpetuo presente, dall’anomia e dallo spettacolo. È un supplemento per il quale tutto è facilitato.
Nessuno li disturberà nelle loro cattedre universitarie. Grazie alla priorità conferita dalla mentalità dominante alla conoscenza strumentale e alla conseguente svalutazione degli studi umanistici, sono potute sorgere, senza ostacoli, sia delle bolle filosofiche pseudo-trasgressive sia ogni sorta di ciarlatanerie speculative totalmente estranee alla realtà circostante, ma in grado di produrre una contraffazione vorticosa del pensiero critico moderno, che ama essere accompagnata da un vasto clamore mediatico.

Le lodi postmoderne alla trasgressione normative corrispondono, in una certa misura, alla scomparsa della socialità negli agglomerati urbani. Coerentemente con la nuova debolezza in materia filosofica, niente è originale, tutto è costruito e dunque, tutto dimora sulla sabbia: l’economia politica, le classi, la storia, il tessuto sociale, le opinioni… In tal caso, se non esiste alcuna relazione sociale che valga, nessuna reale liberazione collettiva, nessuna dialettica o criterio definitivo da prendere come modello a questo riguardo, quale è il significato di norme, di criteri e di fini? Si parte dal niente per non approdare in nessun luogo. Nichilismo in armonia coi mercati, per cui tutto quanto non abbia valore economico conta poco.

Non bisogna del resto stupirsi che l’elogio della disumanizzazione e il caos tipico dei decostruttori vadano di pari passo con l’apologia della tecnica. Il pensiero debole, fra l’altro, celebra l’ibridazione dell’uomo con la macchina. La natura meccanica, libera da costrizioni, non sarebbe forse più libera di una natura umana schiava delle leggi naturali?

Il nichilismo legato alla logica meccanica riflette e risponde all’abolizione della storia, alla soppressione dell’autenticità, alla liquidazione delle classi e alla consacrazione dell’individualità narcisista: è dunque un prodotto della cultura del tardo capitalismo, se di cultura a tal proposito si può ancora parlare, e la sua funzione non sarebbe altro che l’adattamento ideologico al mondo della merce tale come oggi lo conosciamo. La filosofia post-moderna consiste in una legittimazione dell’esistente.

Ciò che era nato come una reazione alla rivolta del Maggio ‘68 “nei bassifondi dello Spirito del Tempo” (Debord) è stato recepito dalle università americane come un paradigma della profondità critica e, a partire da quel momento, la “French Theory” si è diffusa in tutti i laboratori pensanti della società capitalista, facendo irruzione nei ghetti giovanili sotto forma di moda intellettuale trasgressiva. Tenendo conto del loro carattere ambiguo e malleabile, i sillogismi liquidi della postmodernità si sono rivelati buoni per ogni sorta di ideologi del vuoto, dai cittadinisti più camaleontici agli anarchici più alla moda. Anche un anarchismo di tipo nuovo, nato dal fallimento dei valori borghesi storici e incentrato sull’affermazione soggettivista, un attivismo senza progetti né scopo, unito alla perdita di memoria sostituisce, nella maggioranza degli spazi, l’antico, figlio della ragione, nato dalla lotta di classe e costruttore di un’etica universale, il cui impegno rivoluzionario era fortemente ancorato alla storia. Nella “French Theory”, o piuttosto nel “morbus gallicus” di cui il post-anarchismo è figlio illegittimo, le referenze non contano: esse denotano anzi nostalgia del passato, cosa esecrabile agli occhi d’un decostruzionista. La questione sociale si dissolve in una miriade di questioni identitarie: genere, sesso, età, religione, razza, cultura, nazione, specie, sanità, alimentazione ecc. sono al centro del dibattito e danno vita a un politicamente corretto assai singolare, che si caratterizza per un’ortografia massacrata e un discorso zeppo di contorsioni e confusioni grammaticali. Una pletora d’identità fluttuanti sostituisce il soggetto storico, il popolo, il collettivo sociale o la classe. La sua affermazione assolutista ignora la critica dello sfruttamento e dell’alienazione e, di conseguenza, un gioco “intersezionale” di minoranze oppresse soppianta la resistenza collettiva al potere costituito. Secondo quest’ottica, la liberazione arriverà da una trasgressione ludica delle regole che ostacolerebbero queste identità e minoranze e non da una “alternativa” globale o da un progetto rivoluzionario di cambiamento sociale; indubbiamente percepito come totalitario poiché, una volta “insediatosi”, detterebbe a sua volta nuove regole, maggior potere e, dunque, maggior oppressione. Il comunismo libertario, da questo punto di vista, altro non sarebbe che l’incarnazione d’una dittatura. L’analisi critica e lo stesso anticapitalismo, grazie all’annullamento di ogni riferimento storico, lasciano spazio alla messa in discussione della normatività, alla contorsione del linguaggio e all’ossessione della differenza, del multiculturalismo e della singolarità. Non si può discuterne la coerenza poiché la categoria della contraddizione è stata relegata nell’oblio assieme a quelle di alienazione, superamento e totalità. Costruire o decostruire, ecco la questione.

Indubbiamente, il proletariato non ha “realizzato” la filosofia come Marx, Korsch o l’Internazionale situazionista auspicavano; non ha cioè esaudito le sue aspirazioni alla libertà e oggi tutti noi ne paghiamo le conseguenze. È vero che, nello sviluppo della lotta di classe, si è manifestato un pensiero critico che poneva la classe operaia al centro della realtà storica, e che è stato considerato marxista, anarchico o semplicemente socialista. In effetti, si trattava di immortalare la realtà il più fedelmente possibile, come totalità che si sviluppa nella storia, allo scopo d’elaborare teorie in grado di sconfiggere il nemico della classe. La vittoria finale doveva inscriversi essa stessa nella storia. Tuttavia gli attacchi proletari contro la società delle classi non hanno avuto successo. E mentre il capitalismo superava le sue crisi, le contraddizioni cominciavano ad erodere i postulati del pensiero rivoluzionario, mostrando l’esigenza di nuove formulazioni teoriche. I contributi furono molteplici e non è il caso di rievocarli. Ciò che li caratterizzò fu una maggior chiarezza nel senso della lotta di liberazione, ma immersa in un contesto di regressione e poi, progressivamente, avulso dalla pratica. Nondimeno, la sua fruizione rafforzò il convincimento che una società libera era possibile, che la lotta era utile a qualcosa e non bisognava mai arrendersi, che la solidarietà fra resistenze ci avrebbe resi migliori e la formazione ci avrebbe resi lucidi… Pertanto la lotta delle minoranze, lungi dallo smantellare la critica sociale, l’avrebbe arricchita. E, lungi dall’essere secondarie, le questioni dell’identità divennero sempre più importanti a mano a mano che il capitalismo avanzava, distruggendo le strutture tradizionali. Tali questioni denunciavano degli aspetti dello sfruttamento fino ad allora poco considerate.

In un primo momento, universalità e identità convergevano; non si potevano concepire soluzioni alla segregazione razziale, alla discriminazione sessuale, al patriarcato ecc. prescindendo da una trasformazione rivoluzionaria globale. Nessuno poteva immaginare auspicabile un razzismo nero, una società d’amazzoni, un capitalismo gay o uno stato d’emergenza vegetariano.

La rivoluzione sociale rimaneva l’unico ambito dove tutte le questioni potevano veramente esser sollevate e risolte. Fuori di essa non restava che il particolarismo elitario, il settarismo del “centro”, il narcisismo attivista e lo stereotipo militante. Si apriva così la strada al postmoderno.

Il pensiero debole approfittò anch’esso della crisi ideologica, recuperandone gli autori e le idee ma con effetti e conclusioni opposte. Una volta neutralizzato nella pratica, il soggetto rivoluzionario doveva essere eliminato anche dalla teoria, in modo che le sue lotte rimanessero isolate, marginali e incomprensibili, intrappolate in una verbosità sciocca e autoreferenziale, buona solo per gli iniziati. Fu questo il compito della French Theory, che scalò le vette del pensiero ingenerando quella confusione sofisticata e criptica che consacrava, come santoni privilegiati, la casta intellettuale e, come popolo eletto, o discepoli, soprattutto universitari. Il “mal francese” è stata la prima filosofia irrazionalista legata allo stile di vita degli apparati, piuttosto ben retribuita e a giusto titolo: la sua revisione della critica sociale del potere e la contestazione dell’idea rivoluzionaria hanno reso uno splendido servizio alla “causa” della dominazione. La nozione di potere come un etere onnipresente che si estende ovunque relega qualsiasi pratica collettiva alla ricerca d’un ideale insito nel potere stesso, una sorta di cane che si morde la coda. Il potere apparentemente non è più incarnato dallo Stato, dal Capitale o dai Mercati, come ai tempi in cui il proletariato era la classe potenzialmente rivoluzionaria. Il potere, adesso, siamo tutti; è il tutto. La rivoluzione sarebbe così ridefinita come il richiamo del potere allo scopo di riaffermarsi, nei casi estremi, a partire dai nuovi valori e norme arbitrarie almeno quanto quelle che le hanno precedute. Il discredito della rivoluzione sociale è più utile per il potere reale in tempo di crisi, poiché una opposizione sovversiva organizzata che cerca di costituirsi (un soggetto sociale che cerca di nascere) sarebbe immediatamente denunciata come potere di esclusione. In breve, un pessimo “racconto della modernità” (per usare una terminologia lyotardiana), come quello della lotta di classe. Il rifiuto della nozione di classe lascia apparire pure, involontariamente, un odio di classe, eredità della dominazione passata attiva nell’immaginario post-razionale. Insomma, si abbandona qualsiasi velleità comunista rivoluzionaria per la trasmigrazione dei generi, il poliamore, la trasversalità e il regime vegano. Risolti in questo modo i problemi individuali, il cammino è aperto per una opposizione collaborativa e partecipativa, pronta ad entrare nel gioco e naturalmente a votare, a occupare spazi di potere e a controllare dall’interno l’ordine attuale con un discorso radicalmente identitario dunque politicamente molto corretto, e di riflesso un discorso iper-cittadinista ormai irritante non solo per la nuova sinistra ma anche per la sinistra integrata di sempre.

La situazione critica, in preda al mal francese, è sconsolante almeno quanto la vita nel mondo occidentale e urbano devastato dal capitalismo. È la fine della ragione, la chiusura spirituale d’un mondo superato nel quale la resistenza al potere era possibile, lo svaporamento della coscienza di classe storica, l’apoteosi del relativismo, il trionfo completo dell’inganno, il regno realizzato dello spettacolo… Si potrà chiamare questo fenomeno come si vuole, ma è soprattutto l’effetto intellettuale della disfatta storica del proletariato tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento e, di conseguenza, della scomparsa di due o tre generazioni di combattenti sociali e dell’incapacità di questi ultimi di trasmettere le loro esperienze e conoscenze alle nuove generazioni le quali restano, così, in balia della psicosi postmoderna e del suo gergo inintelligibile. Esiste una linea di rottura generazionale molto chiara che coincide più o meno con l’apparizione del “milieu” o ghetto della gioventù, alla fine degli Ottanta, e una relazione di quest’ultimo col processo d’imborghesimento dei centri urbani. In conclusione, si può stabilire con evidenza una relazione tra la diffusione della malattia post-moderna e
lo sviluppo delle nuove classi medie.
Il crollo del movimento sociale rivoluzionario e la catastrofe teorica sono due aspetti del medesimo disastro, e dunque del duplice trionfo, pratico e ideologico, della dominazione capitalista, patriarcale e statale.
Malgrado tutto, la disfatta non è mai definitiva, perché gli antagonismi proliferano ben più delle identità, e la volontà di liberarsi insieme è più forte del desiderio narcisistico di distinguersi. Dieci minuti di patetica celebrità virtuale sono gocce d’acqua nell’oceano tempestoso della “conflittività” permanente.

La lotta di classe ricompare nella critica al mondo della tecnologia e nella difesa del territorio, nei progetti comunitari di uscita dal capitalismo e nelle lotte che oppongono le classi contadine all’agricoltura industriale e alla mercificazione della vita. Probabilmente, nei paesi turbo-capitalisti, questi conflitti non riusciranno a sfuggire all’approccio “intersezionale”, alle questioni “di genere” e ad altri riduzionismi identitari, perfettamente compatibili con una casistica riformista tratta dall’”economia sociale”; ma in ogni luogo in cui si costituirà un autentico fronte di lotta le bagattelle si disperderanno, consumate dal fuoco dell’universalità.

Miquel Amorós

Discussione su «Anarchismo e postmodernità» del 14 novembre 2017 al Centro Sociale Ruptura, Guadalajara (Jalisco), e del 25 novembre 2017 alla Biblioteca social Reconstruir, Ciudad de México.

Tratto da: www.piecesetmaindoeuvre.com

Pubblicato su: L’Urlo della Terra, num.6, luglio 2016