Dalla Francia un’importante mobilitazione contro l’industria elettronica

Acqua o chip: bisogna scegliere!
Contro lo sfruttamento delle risorse da parte delle industrie dell’elettronica e la “vita connessa”

5-6-7 Aprile 2024 Grenoble: Manifestazione, conferenze e azioni
Collettivo STopMicro

Volantino tradotto in italiano

Programma dell’incontro e della mobilitazione a Grenoble del 5-6-7 Aprile:

Demistificare la ragion tecnica – Riflessioni attorno a “Propaganda” di Jacques Ellul – Dario Stefanoni

“Una rivoluzione scientifica: gli americani lanciano la prima bomba atomica sul Giappone”. Così titolò la prima pagina di Le Monde l’8 agosto 1945, subito dopo il bombardamento di Hiroshima e alla vigilia del secondo lancio su Nagasaki. Una macabra e rivelatrice ironia vorrà che Barack Obama, una settantina d’anni dopo in visita presidenziale sui luoghi dei bombardamenti, ne avrebbe ripreso l’identica espressione, dando appena l’impressione di correggerla: “Hiroshima ci insegna che la rivoluzione scientifica va accompagnata a una rivoluzione morale.”
In quasi un secolo la retorica utile a mascherare in nome del progresso la distruttività della tecnica e della scienza moderna non è cambiata, se perfino il lessico propagandistico si ripete uguale a se stesso: per mass media e governanti di ieri e di oggi, l’ecatombe umana e la più completa devastazione sono solo effetti collaterali e secondari rispetto alla necessità e alla primazia di presunte “rivoluzioni scientifiche”. Basterà implementare queste ultime di un compensativo corollario “morale”, o sarebbe meglio dire pubblicistico, con tanto di prevedibili e assodati refrain – più sicurezza, trasparenza, controllo, innovazione: criteri nuovamente tecnici, spacciati per etici – ed ecco, subito, per l’opinione pubblica quelle stesse “rivoluzioni scientifiche” torneranno di nuovo presentabili, accettabili, replicabili.
Se ora la portata di quest’inganno si va facendo sempre più visibile e violenta, nella Francia dei primi anni ‘50 non era da tutti denunciare come, all’esatto contrario di quanto veniva propagandato dagli apologeti del “buon uso della scienza” e dai sostenitori della presunta neutralità delle tecnologie, gli scrupoli morali fossero invece del tutto incompatibili, e alla radice, con il sistema tecnico e scientifico moderno. A rompere quel silenzio e quel tabù imposto era la voce dissonante di Jacques Ellul, lucidissimo pensatore, insegnante e ricercatore dai vasti interessi (filosofia, diritto, teologia, storia medievale, sociologia, ecologia…) che proprio con le sue pionieristiche riflessioni critiche sulla moderna tecnica come inarginabile fonte di distruzione e schiavitù, condotte spesso al fianco dell’amico Bernard Charbonneau, diverrà il maestro ispiratore di fondamentali pensatori libertari quali Ivan Illich, Guy Debord e Ted Kaczsynki (nonché, più di recente, il dichiarato punto di riferimento di Serge Latouche o José Bové, che ne hanno raccolto solo in parte la radicalità critica).
Ellul ne scrive dal 1954, con il seminale La tecnica rischio del secolo (in Italia tradotto nel 1969, per Giuffré), dove già constatava come la tecnica avesse sopraffatto la scienza e ne fosse divenuta la totalizzante applicazione in ogni campo della vita, fino ad ergersi ad habitat capace di conglobare il vivente e d’innescare un profondo cambiamento antropologico, modificando le forme di vita e creando nuovi comportamenti.
Prima di tornare sull’argomento con un’ultima monografia nel 1988, Le bluff technologique (ancora inedito in Italia), Ellul aggiornò e approfondì meglio il discorso, a una ventina d’anni da quel primo testo, nel 1977, con l’ancora più decisivo Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee (trad. it. Jaca Book, 2009), dove – preconizzando l’attuale, vertiginosa convergenza delle tecnoscienze come l’odierno concetto di “singolarità tecnologica” – osservava come l’arrivo dell’informatica avesse reso ancora più autonomo, potente e pervasivo il dominio tecnico, elevato appunto a “sistema” capace di autogenerarsi e di imporsi sull’intera società umana: fenomeno sempre più centrale e determinante, poteva plasmare economia e politica, annientare culture, distruggere democrazie e prosciugare risorse, facendosi passo a passo sempre più incontrollabile e irreversibile.
A questi e ad altri suoi testi di spiazzante lungimiranza, si aggiunge ora anche la prima traduzione italiana di un altro dei libri fondamentali di Ellul, datato 1962, e senz’altro tra i più impressionanti e sistematici di tutta la sua bibliografia: si tratta di Propaganda. Come si formano i comportamenti degli uomini, tradotto dalla pastora valdese Elisabetta Ribet e appena edito per Piano B. Manuale poderoso e di attualità sconcertante, traccia un’impeccabile diagnosi della propaganda nella sua essenza complessa e multiforme, considerata quale necessario complemento psichico e culturale della tecnica stessa. Per comprendere meglio entrambe, vale la pena precisare meglio la concezione elluliana di quest’ultima, da intendersi insieme come un modo di procedere e un sistema di potere autosufficiente, in cui l’efficienza e l’efficacia hanno soppiantato ogni preliminare questione etica o veritativa. Un’espropriazione del senso e del senno che possiamo osservare anche in tempi di decostruzionismo coatto e di sedicente “post-verità”, al punto che si è sempre meno incoraggiati a riflettere su cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa vero e cosa falso: a contare sono gli effetti e la loro misurabilità, la macchinale riduzione di tutto al risultato, alla performatività, all’operatività.
Sulla scia delle riflessioni di Ellul – secondo il quale la prima rivoluzione industriale aveva sostituito i muscoli dell’uomo, la seconda il cervello, la terza la società stessa con un sistema capace di svilupparsi da sé e per sé – si comprende la progressione con cui la quarta rivoluzione industriale minaccia ora di violare corpi e spiriti per insediarvi anche all’interno quello stesso ambiente tecnico così compiutamente formato, per la piena e definitiva automazione dell’umano. Totalitaria e metastatica, come un cancro, la tecnica non conosce limite e nella sua progressione inarrestabile richiede unanimità d’adesione, riflessi pavloviani, resilienza metallurgica, obbedienza cieca e accettazione incondizionata.
Sono queste le stesse condizioni della propaganda, ed Ellul – in risposta a chi già al suo tempo la sminuiva con noncuranza a pseudoscienza, sottovalutandone efficacia e reale pericolosità (come oggi le influenti teorie e pratiche transumaniste sono derubricate dai più ad improbabili fantasie cyberpunk) – si preoccupa subito di chiarire come questa sia una disciplina scientifica a tutti gli effetti e anzi sappia rinforzare i postulati psicologici e sociologici fondamentali: essa poggia su basi di psicologia sociale, psicologia del profondo, behaviourismo, sociologia dei gruppi e dell’opinione pubblica… non è un’aberrazione collaterale della scienza moderna, ma un suo prodotto logicamente conseguente e perfettamente integrato. Del resto, basterebbe una scorsa agli scritti del padre della propaganda moderna, il pubblicitario Edward Bernays (nipote di Freud, ispiratore della propaganda nazista di Goebbels), per notare l’insistenza su quanto questa nuova propaganda dovesse alla tecnica e alla scienza, prima che alla politica (da cui Bernays riuscì anzi a emanciparla): checché ne possano dire scientisti e umanisti convinti che basti opporsi a un “cattivo uso della scienza” per evitarne le connaturate e intrinseche degenerazioni, nella sua costituzione come nel suo funzionamento di base la propaganda è scientifica o non è. Come dice Ellul, uno scienziato sa di vivere in un mondo in cui le sue scoperte saranno utilizzate, anche nella manipolazione delle coscienze.
Altro snodo per lui cruciale è il primato dei mezzi sui fini tipico della società moderna: l’ampiezza di disponibilità dei primi difatti cambia i fini, perché la tecnica (compresa la tecnica della propaganda) richiede di utilizzare tutti i mezzi a disposizione – e lo vediamo bene anche oggi, dove la possibilità di nuove tecnologie diventa imperativo sociale, causa di esclusione, obbligo sistemico e universale.
Se un tempo le tecnologie preindustriali erano davvero un mezzo per raggiungere uno scopo, e non cambiavano molto di generazione in generazione restando stabili e perfino ereditabili, la vorticosa instabilità e mutevolezza delle tecnologie odierne – si veda l’obsolescenza programmata e poi del tutto forsennata di dispositivi meccanici, elettronici e informatici – rivelano ancora una volta che da tempo non sono più gli esseri umani a dominare i mezzi, ma ne sono semmai dominati (con Thoreau, gli uomini sono sempre più “strumenti dei loro strumenti”). Sono i mezzi a dettare i propri tempi, e a sovrastare i fini anche in politica, dove Ellul già segnalava come la dimensione tecnocratica prevalesse su quella etica, e a gestire, preparare e circondare i politici fossero sempre più tecnici e burocrati. Questa sorta di aristocrazia di tecnici postasi già al tempo di Ellul al di sopra delle istituzioni, capaci di modificare le strutture dello Stato e di rinsaldare la separazione tra governo e masse (secondo quanto rilevato più nel dettaglio decenni dopo da un altro sociologo profetico e geniale quale Christopher Lasch, specie nel postumo La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia), certifica così anche l’inverarsi della previsione svolta da Hannah Arendt nel classico Le origini del totalitarismo: dopo i precedenti del nazismo e stalinismo, un nuovo totalitarismo “raffinato” – e oggi pienamente affermatosi – sarà guidato da tecnici e burocrati (nonché, per Ellul, contraddistinto dalla tecnicizzazione forzata di chiunque, con la mansione generalizzata di assicurare efficienza all’organismo: se anche l’operaio diventa un tecnico, sarà più conformista e potrà accogliere meglio la propaganda).
Da questo presupposto muove ad esempio uno degli studi più compiuti e sintetici sulla tirannia in corso, il recente La psicologia del totalitarismo dell’accademico belga Mattias Desmet (La Linea, 2022), che ha il pregio di riconoscere nel presente e di dimostrare su un piano psicologico quanto già in Propaganda di Ellul ravvisava tanto della tecnica quanto della propaganda: la loro mancanza del senso del limite e la loro conseguente incontrollabilità.
Se per la tecnica preindustriale potevano esservi, come osserva Ellul, idee religiose e credenze popolari che ancora ne limitavano o ne regolamentavano l’uso (la ruota era già conosciuta dagli Egizi ma non veniva usata perché ricordando la sacra circolarità dello zodiaco non poteva essere piegata a motivi materiali, come poi si sarebbe vietato l’utilizzo di aratri di ferro per non ferire la Madre Terra), venuti a cadere questi limiti – anche oppressivi e irragionevoli – a seguito dell’ “uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole”, ovvero – nelle parole di Kant – dell’Illuminismo e della scienza moderna, proprio nel nome di quest’ultima si sottometterà l’uomo a un nuovo giogo: quello della tecnica, appunto, che a differenza della religione, riconoscerà sempre meno il concetto di limite, smantellando progressivamente anche gli argini etici.
Col passare dei secoli, i sacerdoti di questa nuova fede – nota Ellul – ancor meno degli officianti precedenti sopporteranno di essere giudicati su quello che fanno. Con la loro influenza illimitata, essi riflettono semmai la dismisura della stessa società tecnica, divenuta in sé eliminazione dei limiti, priva dell’intenzione come della possibilità di fermare i processi stessi che vi avvengono. Ne deriva un’incontrollabilità sistemica: più cresce il progresso, più ne aumentano gli effetti indomabili. Ellul snuda così alla radice la follia – in nuce già allora – di pretendere di risolvere i problemi con gli stessi mezzi e con la stessa ideologia che li hanno procurati, i quali rischiano semmai di avviare quella stessa spirale distruttiva e autoalimentantesi che oggi vediamo riprodursi in ogni campo tecnoscientifico, dalle nanotecnologie all’ingegneria genetica (proprio nell’ingovernabile autosostentamento e autopotenziamento delle tecniche possiamo riconoscere un principio metodologico e costitutivo di base, dalle reazioni a catena nucleari alle gain of function virologiche), il tutto “in un mondo che ancora prima di capire l’atomo l’ha fatto esplodere, e ancor prima di capire il Dna ne ha tagliato dei pezzetti usandoli per bombardare altri frammenti di Dna” (J-L. Porquet, Jacques Ellul: l’uomo che aveva previsto (quasi) tutto, Jaca Book 2008).
Ellul descrive così anche la stessa propaganda nel segno di un’endemica incontrollabilità e inarrestabilità (“si è a quel punto costretti a procedere nel senso indicato dalla propaganda: azione chiama azione”), come di un diffuso rischio di auto-intossicazione che vale perfino per gli stessi propagandisti (sviluppata nello studio di Desmet come auto-ipnosi): “La propaganda è come il radio, e si sa cosa succede ai radiologi.” C’è, insomma, un livello oltre il quale anche la propaganda non dipende più dalla volontà umana e dalla sua decisione, diventa un fenomeno sempre più ingestibile, determinato e condotto dallo stesso apparato tecnologico che la produce, l’amplifica e ci sovrasta.
Infine, altro passaggio rivelatore è quello in cui Ellul accenna alla militarizzazione costante operata dalla propaganda moderna, tema sviluppato anche nel breve profilo storico del fenomeno che seguirà nel 1967, Storia della propaganda (trad. it. Edizioni Scientifiche Italiane, 1983): a partire dalla Rivoluzione Bolscevica, con la necessità di promuovere la guerra tra classi interna alla società, la propaganda non sarà più occasionale (per campagne singole e accidentali), ma permanente. Del resto, anche poi, con la privatizzazione e la tecnicizzazione “scientifica” promossa da Bernays,
l’adozione sistematica nelle dittature nazifasciste e nel dopoguerra con il regime pubblicitario-consumistico delle democrazie liberali, la propaganda, nella continuità della sua pratica, non smetterà mai di sostanziare uno dei principali bracci armati e invisibili del totalitarismo tecnico, ossia la guerra psicologica.
Di nuovo Ellul: “La propaganda è di per sé uno stato di guerra. (…) Esige l’unanimità della nazione realizzata in modo artificiale e l’esclusione di opposizioni e minoranze”. Come vedremo meglio poi, secondo Ellul la propaganda può avere effetto solo quando è di lunga durata e per quanto possibile ininterrotta. Anche oggi, il precipitato di eventi del 2020/21 che hanno accelerato e reso visibile un più vasto e in precedenza meno percettibile processo di manipolazione e riprogrammazione dell’umano, dalle carcerazioni di massa dei lockdown all’obbligo generalizzato di prestarsi a esperimenti di ingegneria genetica, fino alle successive e tuttora persistenti retoriche belliciste in piena regola, con minacce di razionamento e di regimi emergenziali, non fa che rivelare meglio e in via definitiva l’ininterrotta militarizzazione della nostra vita quotidiana.
Anche e soprattutto attraverso lo stesso apparato tecnologico a cui ricorriamo abitualmente, di cui dovremmo tenere a mente le origini storiche e le funzionalità eminentemente militari, a partire da Internet: armi di distrazione di massa, non semplicemente tecnoscandagli per sorvegliare, violare privacy od estrarre dati, ma strumenti utili a contenere, paralizzare, alienare, reclutare e riplasmare coscienze e corpi, nel contesto di un totalitarismo antropotecnico che sempre più mira a gestire integralmente la vita umana, letteralmente dalla nascita alla morte, con la progressiva e parallela promozione di eugenetica e eutanasia (pratiche che dietro nomi alati – εὐ in greco, sta per “bene”, “buono” – esemplificano l’assalto definitivo a cui tende il necrocapitalismo transumanista, quando qualcuno – o qualcosa – potrà decidere chi vive e chi muore).
Come proposto da un illuminante intervento di Bianca Bonavita, tenutosi alla Piralide a Bergamo il 10 ottobre 2021, assistiamo da questo punto di vista e sempre più a un momento di svolta, a un’agnizione scioccante (che dal 2022 può rispecchiarsi anche nella guerra russo- ucraina in corso), con l’avvento combinato e forzoso di 5G, Internet dei corpi, Metaverso, pseudovaccini a mRna a scoperchiare la vera natura di tecniche e tecnologie che in fondo non hanno mai smesso di essere militari: la Rete stringe e affila le sue maglie, “e i pesciolini siamo noi”.
Insieme ai caratteri così delineati della propaganda – scientificità, amoralità, incontrollabilità, nocività, militarizzazione – che la riconducono al concetto stesso di tecnica, per Ellul radice di ogni schiavitù moderna, nel suo Propaganda vi sono alcuni altri spunti di rara originalità e straordinaria finezza critica, che ancor oggi, a 61 anni dalla pubblicazione, bruciano di malsepolta verità.

Tossicità “a lenta infiltrazione”
(la propaganda secondo un sociologo eterodosso)

Già dall’Avvertimento essenziale posto in apertura del suo poderoso studio, Ellul chiarisce la peculiarità del suo approccio sociologico alla questione tortuosa e trasversale della propaganda, una prospettiva già al tempo della pubblicazione rara e minoritaria – e a sessant’anni di distanza ancora non conforme, rivelatrice e profondamente attuale. Questo suo manuale su caratteri, condizioni ed effetti della propaganda – premette quasi brutalmente Ellul – non segue le tendenze di studio più diffuse in materia: non riduce la propaganda a fenomeno psicologico, non si fa campionario pronto all’uso dei tricks propagandistici (ossia di singole tecniche di manipolazione da riconoscere e disinnescare), non si allontana nel passato a cercarne le radici remote per tracciarne un excursus storico, né si limita all’analisi dei suoi più visibili rapporti con l’opinione pubblica.
Ora, basterà un rapida scorsa alle riflessioni sull’argomento più diffuse nel nostro tempo per riconoscere che questi stessi approcci parziali e frammentari corrispondono ancor oggi ai territori più battuti dalla grande maggioranza degli studiosi. Il rifiuto di Ellul di astrarre e ridurre la prospettiva di analisi, di disincarnarla e disarmarla tra sofismi, culturalismi o tecnicismi, appare come un ulteriore segno di coraggio intellettuale in uno storico delle istituzioni e professore universitario di Diritto che avrebbe ben potuto parlarne in termini statistici, al comodo riparo del suo status accademico e della sua specifica formazione storico-giuridica. No, Ellul preferisce affrontare l’argomento come il fenomeno onnicomprensivo, concreto e tentacolare che è – nella sua epoca come nella nostra -, tracciando una contestualizzazione ad ampio raggio che la rivela come il necessario, logico complemento della deriva tecnocratica e burocratica già in nuce nei totalitarismi emersi nel primo XX secolo e dall’epoca di Ellul a oggi sempre più trionfante, tassello ineludibile di un più ampio movimento scientifico ufficiale che già allora stava minando alla radice il senso dell’umano e del vivente. Lo sguardo critico del filosofo bordolese riconosce la propaganda come centrale in ogni aspetto della società, incessante e onnipervasiva: come già detto per la Tecnica, anche la propaganda si è fatta mondo, sistema autonomo, subordinato solo alla legge dell’efficacia e all’ossessione della calcolabilità.
Un ulteriore elemento di originalità di Ellul, che tanta influenza avrà sulla concezione di Guy Debord della “società dello spettacolo”, è lo studio e la designazione di più tipi di propaganda, come rivela già il titolo originale dell’opera (Propagandes, al plurale). Così come, qualche anno dopo, l’ispiratore dell’Internazionale Situazionista distinguerà tra spettacolare concentrato (tipico delle dittature fasciste e comuniste) e spettacolare diffuso (proprio delle società liberali e consumiste), trovando nello spettacolare integrato – sintesi e mondializzazione delle precedenti – la chiave di volta per comprendere il dominio e l’alienazione del nostro tempo, Ellul riconosce la diverse e complementari modalità di propaganda in azione, con particolare attenzione a quella che definisce pre-propaganda o sub-propaganda. È questa una propaganda d’atmosfera, “a lenta infiltrazione” e in fondo ancor più autoritaria, che promuove progressivamente un dato orientamento per creare dei pre-atteggiamenti favorevoli, è l’ “aratura” – scrive Ellul – a cui seguirà la “semina” della propaganda d’azione. A differenza di quest’ultima propaganda perlopiù bianca, ovvero visibile – finalizzata nella sua evidenza a rassicurare, esaltare, aizzare – la sub-propaganda è nera, ovvero perlopiù inconscia e carsica, impercettibile e segreta come la censura.
Questa preparazione sociologica e culturale del terreno, individuata da Ellul decenni prima che il sociologo americano Overton la teorizzasse come l’omonima “finestra” di ingegneria sociale utile a creare accettazione popolare con progressione graduale ma implacabile, è “prodotta in un lasso di tempo lungo e suppone un’impregnazione lenta e costante.”
Come lo Spettacolo, sorta di placenta artificiale collettiva imposta dall’industria culturale, la propaganda di Ellul è dunque e anzitutto la creazione di un ambiente che tutto fagocita e da cui non vi è possibilità d’uscita, bolla totalitaria da dove non sono più visibili riferimenti esterni o altre verità: facendo leva non sul “singolo stimulus che scompare subito”, ma su “impulsi e shock in successione”, il sistema della propaganda ingoia progressivamente l’intera realtà intossicandola di uno stato di agitazione continua.
Basta oggi vedere l’inefficacia propagandistica di singole tornate elettorali nel breve termine di fronte alla forza con cui si è inesorabilmente imposta l’accettazione dei peggiori abusi tecnoscientisti insieme a un clima di apocalisse permanente, accelerata a suon di emergenze provocate: la vera propaganda, come osservato da Ellul, procede solo apparentemente con singoli colpi, ma si rivela meglio nei loro presupposti, nella continuità sottaciuta, nella pluralità dei mezzi a disposizione, nel sapiente accumularsi nel tempo. Così come ridurla al dettaglio immediato e all’attualità delle singole campagne è a suo avviso un errore di metodo che non ne permette l’obiettiva visione d’insieme, lo stesso può dirsi per la diffusa tendenza a psicologizzare questo profondo lavorìo sulle menti e sulle società umane.
Come lucidamente trattato nel recente La strategia dell’emozione di Anne-Cécile Robert (Eleuthera, 2019), pamphlet sull’estinzione dello spirito critico ad opera di un controllo sociale fondato anche sullo sfruttamento di emozioni e sentimenti, per certi versi limitarsi a psicologizzare l’analisi equivale già a manipolare e promuovere la sottomissione: anche per Ellul guardare alla propaganda solo attraverso la lente della manipolazione di simboli o dell’imposizione d’idee equivale a depotenziarla e intellettualizzarla.Certo, per il suo buon funzionamento è necessario provocare pseudo-bisogni e condizionare le reazioni a partire da miti collettivi oggi condivisi pressoché da tutti (il progresso, la tecnica, la convinzione che tutto sia materia) ma la propaganda, avendo il fondamentale scopo di dirigere concretamente gli uomini verso l’accettazione di precise riforme, richiede poi di organizzarsi razionalmente e capillarmente anche nella realtà fisica, necessita della partecipazione attiva del propagandato e comporta sensibili trasformazioni economiche e politiche. Non implica solo sommovimenti emotivi o cambiamenti dell’opinione pubblica secondo una narrazione che ci riduce a spettatori ipnotizzati, ma mira di fatto a condizionarci e mobilitarci nella vita quotidiana, a farci partecipare attivamente al dominio e ottenere da noi atti concreti – che siano acquistare dispositivi tecnologici sempre più invasivi o sottoporsi a iniezioni di sieri genici sperimentali. Così che a muoverci siano sempre riflessi e mai riflessioni.
A questo proposito, Ellul è ancora più netto sulla posizione del destinatario: a suo avviso, egli è sempre complice della propaganda a cui si sottomette. “Invoca egli stesso l’azione psicologica, e non solo le si presta, ma trova in essa la propria soddisfazione. Certo, è ben influenzato, manipolato, ma è perfettamente complice, involontario, incosciente, di questa propaganda. (…) Non esiste un propagandista cattivo, che crea mezzi per possedere il cittadino innocente, esiste un cittadino che invoca propaganda dal profondo del suo essere e un propagandista che risponde al suo appello” Per Ellul, si sceglie sempre e comunque di essere propagandato: la propaganda non è più da vedersi come creazione esclusivamente eterodiretta e volontaristica, ma come la conseguenza della necessità di sentirsi parte di un gruppo, di farsi un’opinione e di prendere posizione.
Una svolta di paradigma, questa, che spoglia di vittimismo e passività il ruolo del destinatario, configurandolo più come un consumatore di propaganda (o contropropaganda), per incoraggiarlo invece a farsi carico in prima persona della propria libertà, a divenirne responsabile. Ma questa presa di responsabilità – ossia di libertà – può solo darsi individualmente, o al più – secondo Ellul – in piccoli gruppi ai margini del sistema che possano collaborare tra loro.
Sappiamo che il totalitarismo, di cui la propaganda è inaggirabile braccio, dopo aver smembrato e atomizzato il tessuto sociale ha bisogno di masse e di grandi gruppi per vivere: sin dagli studi sulla psicologia delle folle di Gustave Le Bon è ormai un assunto sociologico fondamentale il fatto che se colto nella massa l’uomo sia più influenzabile e plasmabile (pur credendosene potenziato, come dice Ellul: “L’uomo della massa è effettivamente un sottouomo, ma si crede un superuomo.”).
Se scopo della propaganda è la conformazione dell’individuo, allora sarà il caso di dedurne un’ovvietà forse un poco dimenticata e impopolare oggi, se strategie o retoriche gruppali quando non direttamente proto-partitiche hanno la meglio anche in chi contesta l’esistente: è ancora la libera individualità critica, l’irriducibile singolarità umana, la prima vittima e il primo nemico di qualsiasi dominio di massa.
È l’unicità, l’inclassificabilità, finanche l’imprevedibilità del singolo individuo a fornire in sé e per sé – oggi come ieri – la maggiore resistenza possibile al totalitarismo e alle sue sirene propagandistiche. Insieme, s’intende, alle amicizie e alle relazioni umane che sappia costruire spontaneamente al di fuori dei recinti della tecnica e delle propagande incrociate. Perché ciò che meno di tutto la propaganda tollera è l’indipendenza, di pensiero come d’azione, non potendosi che riconoscere impotente contro gli individui realmente singoli e isolati: chi si pone in disparte dalla vita collettiva e dal dominio della tecnica sfugge al processo di ricompattamento del corpo sociale operato dalle propagande, non ne subisce gli effetti. Trattasi di ricompattamento, appunto, perché il capitalismo tecnoscientifico aveva già preventivamente e progressivamente sradicato l’individuo dalle comunità a cui già apparteneva, famiglia, terra natale e religione in primis (partecipando a più gruppi che sfuggono al totalitarismo della società tecnica, secondo Ellul, e quando questi non si traducano a loro volta in forme oppressive e normative, si rischia pur sempre di trovare se stessi, nonché appoggi esterni per resistere), spogliandolo sempre più della sua integrità e sovranità (in un processo che ha portato a disidentificarlo, oggi, anche dal suo stesso corpo, dal suo stesso sesso biologico).
Il “dividuo” residuo e gregario, così spaccato e dissociato, può agevolmente ricollegarsi agli altri – virtualmente e illusoriamente – solo per mezzo della Tecnica, o dello Spettacolo a dir si voglia (eretto a solo collante sociale, nelle parole di Debord: “Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che collega gli spettatori non è che il rapporto irreversibile col centro stesso che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato.”). Perciò la propaganda – o la pubblicità, suo sostanziale equivalente – ha tutto l’interesse di cogliere l’individuo nel gruppo e solo in ciò che ha in comune con gli altri, là dov’è meno vigile pur a fronte dell’apparente personalizzazione del messaggio, diretto in realtà all’intera massa o a sue frazioni (si tratta dell’effetto Forer, concetto-base del marketing moderno, in cui si dà l’impressione che un messaggio generale sia modellato su misura della singola persona a cui si rivolge). È in questo contesto che il propagandato “desidera essere influenzato, fa la sua scelta addirittura in base alla propaganda che vuole ricevere”. L’individuo può così annullarsi all’insegna dell’inerzia, di una passività cinica e indifferente (così da lasciare liberi i manovratori), oppure – e sorprendentemente – della militanza politica, pro o contro una determinata, specifica questione.
Anche in quest’ultimo caso si può diventare insofferenti della propria stessa indipendenza, ci si riduce ad essere impegnati o ingabbiati in una posizione ugualmente predeterminata (Ellul ammicca all’etimo cage, “gabbia”, da cui deriva il termine francese engagé, “impegnato”), si è interiormente impossessati da un potere sociale, colonizzati dall’informazione e della propaganda stessa (o da un suo contraltare fasullo).
“La propria indipendenza – scrive Ellul – diventa il luogo di aggressione di tutte le propagande.” Propagande, nuovamente al plurale, che in questi anni hanno ritrovato nuovi territori d’elezione negli stessi dispositivi tecnologici, rifiorendo tra siti di controinformazione più o meno equivoca, canali youtube di dissidenza customizzata, social e app di messaggistica alternativa variamente controllate. Come nel proliferare di gruppi Telegram nati nell’estate 2021 con pretese emancipative e autogestionali, improvvisati think tank online di avvocati medici insegnanti, gruppi effimeri e del tutto impotenti in cerca di opinion leader a cui aggrapparsi – surrogati tecnici, canali spesso tenuti in piedi solo grazie alla disponibilità dei mezzi e all’ansia del momento, inutili sedativi tecnologici rispetto all’evoluzione implacabile degli eventi, da dismettere non appena gli obblighi e le imposizioni più visibili sarebbero venuti meno. Rinforzato da divisioni funzionali e contrapposizioni presunte (nonché da comode sospensioni del giudizio pel sacro timor di polarizzare), il sistema è stato più veloce ed efficiente di tutti noi, ha smantellato entro un anno quella narrazione ricattatoria, ne ha minacciate altre, preparandone altre ancora. Utili a offuscare la visione d’insieme, il riconoscimento delle costanti ideali e reali – transumaniste, disumane, antiumane – che continuano a divellere tutto ciò che vive, natura, società, economia, politica e cultura, rinsaldando la schiavitù di massa in altre forme.
D’emergenza in emergenza, sedimentazioni pluridecennali di propagande e falsificazioni vengono allo scoperto, ma al contempo – nel bisogno di connettersi, nella paura di essere esclusi – il guinzaglio tecnico si va accorciando, e le propagande che ne derivano non smettono di inquinarci.

Obbedienza e indifferenza degli intellettuali
(come la propaganda conquista colti e semicolti)

Nelle ultime pagine di Propaganda, tra gli Annessi posti in appendice alla parte più sistematica del suo studio, Ellul analizza in breve il caso specifico della propaganda di Mao Tse-tung, soffermandosi in particolare sulla tecnica del lavaggio del cervello. Ricordando, a conferma di quanto già accennato, che senza le pressioni del gruppo la risposta individuale è imprevedibile e in quanto tale pericolosa per il sistema totalitario, Ellul sottolinea come per il propagandista – mero tecnico al servizio del potere – sia urgente eliminare innanzitutto i fattori individualizzanti dei dissidenti: nel caso cinese, ad esempio, mediante la ripetizione incessante di slogan per mesi e anni, insieme alla privazione o limitazione del sonno e del cibo, si provoca di fatto una colonizzazione interiore dell’individuo, così da indebolire sistematicamente le capacità mentali e rendergli impossibile sviluppare una vita intellettuale autonoma.
Se l’indipendenza di pensiero è il peggior spauracchio della propaganda d’ogni dove, ci si chiede cosa ne sia delle resistenze delle élite intellettuali nei contesti totalitari. Ebbene, le pagine che Ellul dedica a questo sono tra le più sorprendenti e illuminanti di tutto il suo studio, ravvisando come – all’esatto contrario di quanto si pensi comunemente – la propaganda sia più efficace soprattutto sulle persone più colte e informate. Non tutte, naturalmente, ma in linea di massima vale un principio apparentemente contraddittorio: più ci si informa, più si è suscettibili alla manipolazione. Sono semmai gli incolti e gli analfabeti a non essere recuperabili in tal senso; lo scoprirono già i nazisti, che si accorsero della totale inefficacia della loro propaganda sui contadini tedeschi più illetterati e isolati. Così nel blocco sovietico, dove l’imperativo dell’alfabetizzazione aveva lo scopo primario d’indottrinare le masse al materialismo storico e alla lotta di classe. Lo stesso valga, più in generale, per i poveri: come ricorda Ellul, chi non ha mezzi e risorse è più immune alla propaganda rispetto a chi ha un certo livello minimo di benessere. Ne erano ben consapevoli le dittature comuniste, che per insufflare nelle menti del popolo quanta più propaganda possibile approntarono postazioni radiofoniche pubbliche e cinema gratuito per tutti (lo stesso potrebbe dirsi oggi per tv e smartphone: possono mancare i servizi essenziali, ma una connessione wi-fi non si nega a nessuno).
Ma come possono, proprio i più colti, essere vittime della propaganda?
Una ragione fondamentale è che buona parte degli intellettuali tendono ad essere anche i più conformisti e i più obbedienti ai miti sottesi al nostro tempo (di nuovo: progresso e tecnica). Inoltre, notando solo gli aspetti visibili della propaganda più crassa, finiscono per bollarla affrettatamente come goffa e inefficace (oltre che, come si è detto in apertura, poco “scientifica”), e in questa stessa arroganza, nel loro complesso di superiorità intellettuale (“siccome è convinto della propria superiorità, l’intellettuale è molto più vulnerabile di altri all’impulso della propaganda”) non riconoscono la propaganda – spesso più profonda, sottile e determinante – che viene invece esercitata su di loro. A modellarne gradualmente il pensiero è di solito proprio la già citata e ancora troppo trascurata sub-propaganda, da intendersi come una durevole e persistente manipolazione culturale che, inavvertita, assedia di fatto anche il mondo delle lettere e delle arti, toccando, ad esempio, tanto il cinema popolare che d’autore (come ben noto ai pensatori della Scuola di Francoforte e allo stesso Debord), quanto insospettabili cenacoli letterari e filosofici (si rimanda agli spunti offerti dal controverso e pionieristico pamphlet Gli Adelphi della dissoluzione di Maurizio Blondet, Ares 1994, e – fuori dall’Italia – da La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti di Frances Stonor Saunders, Fazi 1999), così che “la propaganda stessa passi per cultura, alimento intellettuale e spirituale”. Per convincere colti e semicolti, è poi assai utile conferire alla propaganda una “patina di scientificità”.
Abbiamo saggiato l’efficacia di questo stesso principio nei mesi dell’isteria psicopandemica prima e poi della frenesia pseudovaccinista: lo stesso Ellul parla della straordinaria capacità di persuasione di una propaganda che poggi su informazioni fattuali e tecniche apparentemente razionali come cifre e statistiche, le quali pur senza essere comprese, vengono credute all’istante e – in una società che ha eletto scienza e tecnica a nuove categorie del sacro – recepite con religiosa devozione. “Informazioni, fatti, statistiche, sondaggi, spiegazioni, dimostrazioni e analisi, oggi eliminano il giudizio personale, la capacità di farsi un’opinione, con molta più certezza di quanto non faccia la propaganda più esaltata”.
L’ipnosi numerica provocata dagli ossessionanti conteggi nei mesi della dichiarata pandemia – prima di “vittime”, poi di tamponi e “positivi”, infine dei “vaccini”, da replicarsi per più dosi – ha finito per creare, a partire da fattori apparentemente logici e razionali, una situazione violentemente irrazionale, parallelamente allo strumentale profluvio di dati, norme e teorie contraddittorie che si susseguivano, utile solo ad amplificare shock, stordimento e confusione. Più sono i fatti che vengono comunicati, infatti, più sarà semplicistica l’immagine globale, con l’esito di conformare il giudizio personale e – ancora una volta – espropriare di sé gli individui, che, con la pretesa di essere “informati”, saranno invece impossessati dall’interno di un potere sociale che li fagocita.
In queste condizioni di sovraccarico informativo, aggiunge sempre con acutezza Ellul, la propaganda stessa fornisce un orientamento predeterminato, semplificato e falsato, che ha però tutti i vantaggi di “un’assicurazione para-religiosa”, dissuadendo dall’ analizzare e interrogarsi. Le conseguenze sono ovvie: che siano i cosiddetti esperti – i virologi mediatici o il CTS, i programmatori del WEF o i climatologi istituzionali – a pensare al posto nostro, che ci dispensino dal giudicare e decidere, che si annienti così la personale capacità di discernimento.
Lo spirito critico, quel piccolo dettaglio – tra tanti altri – che ci rende umani.
Così come è importante stabilire da liberi individui relazioni sociali e alleanze al di là e contro le tecnoscienze, pur consapevoli delle (auto)distruttive “formazioni di massa” che possono crearsi anche nei movimenti di opposizione (per ricollegarsi a un punto-chiave oggi illustrato dal citato Desmet), allo stesso modo colti e semicolti possono uscire dalla stretta della propaganda coltivando l’approfondimento personale e lo spirito critico, non limitandosi ad accumulare letture senza rielaborarle, o uniformandosi alle tendenze e alle parrocchie culturali più in voga, ma esercitando quotidianamente la propria autonomia di scelta e giudizio anche su quanto leggono e vedono.
Non è affatto semplice, travolti come siamo, da quello che Ellul definisce con genialità il “puntinismo” dell’informazione moderna, dove prevale il primato dell’attualità (“si è prodigiosamente sensibili alla realtà immediata e ci si dimentica del problema permanente”) e nella discontinuità della visione quotidiana mancano distanza critica e profondità: un’attualità scaccia l’altra e le informazioni cancellano le precedenti. Il flusso incessante esige così continuamente una nuova messa a punto, impossibile da operare, producendo l’immagine di un mondo pericolante e incerto, mosso da una visione storica sempre parziale e lacunosa (così da rimuovere ed occultare anche le cause dei fatti, come vediamo anche riguardo alla guerra in Ucraina). Come davanti a un quadro puntinista di Georges Seurat, Ellul consiglia perciò di prendere una certa distanza per poter vedere realmente, ovvero per leggere e interpretare correttamente gli eventi.
Sforzarsi, insomma, di guardare da più lontano, a costo di diffidare sistematicamente dell’informazione quotidiana (anche di quella di certa controinformazione – si è tentati di aggiungere – che rischia di replicare in altra forma la superficialità, la fretta, l’approssimazione, la quantificazione ansiogena e stordente di quella ufficiale). L’informazione non è ancora conoscenza, né pensiero o cultura. E quest’ultima non è accumulo di nozione, ma restituzione di senso, ricerca e sforzo veritativo – richiede tempo per approfondire e pensare. Esattamente il tempo che la tecnica ci toglie, per imporci la sua cultura: una “cultura” che – nella prospettiva di Ellul come di Debord – consiste precisamente nell’adattare l’uomo alla tecnica (esemplificativo, in tal senso, come si imponga sempre più anche agli esseri umani il termine e concetto di “resilienza”, derivato dallo studio dei metalli). In proposito, un’altra indicazione preziosa è invece contenuta nel suo citato libretto Storia della propaganda, che traccia la parabola della propaganda pre-moderna.
Da una parte, Ellul vi ribadisce lo stretto rapporto esistente tra istruzione e sviluppo della propaganda sin dall’antichità: in Grecia l’insieme di tecniche atte a orientare e guidare il comportamento note come psychagogia erano rivolte principalmente alle élite intellettuali, e a Roma la propaganda scritta restava di fatto un fenomeno letterario limitato alle classi superiori. Ma è ancora più interessante notare come e perché, in seguito al grande impulso dato alla propaganda dall’invenzione della stampa, gli intellettuali francesi del XVIII secolo si rifiutassero di collaborare con la stampa: nel tentativo illuminista di contribuire a dare stabilità e chiarezza all’opinione pubblica (ad esempio, con il monumentale e rivoluzionario progetto dell’Encyclopédie, diretto da Diderot), per evitare di lasciarla fluttuare tra le contraddittorie informazioni quotidiane ritenevano di gran lunga preferibile dedicarsi alla scrittura di libri (anche brevi, come libelli e pamphlet) e incoraggiare più alla lettura di questi che non dei giornali, così da attaccare l’ancien régime in profondità e con mezzi più durevoli: essi chiedevano sì maggiore libertà di stampa, ma per la priorità che quest’ultima dava a quantità e velocità della produzione (e quindi, anche, nella facilità di prestarsi maggiormente a inganni e manipolazioni) era considerata, a differenza di pubblicazioni più rade e ponderate, “pasto degli ignoranti” (Voltaire) o “vanità senza istruzione” (Rousseau).
Ci sarebbero molti altri aspetti indagati da Ellul sulle strategie comunicative della propaganda che sarebbe istruttivo accostare a fatti e pseudofatti del presente e del recente passato: il principio fallace secondo cui “chi denuncia menzogne, allora dice la verità”, alla base della categoria strumentale delle “fake news” e dei grotteschi fact-checker, che tutto controllano e ben poco o nulla confutano (limitandosi a prevenire il sospetto di falsificazione: “accusare le intenzioni dell’altro rivela a colpo sicuro quelle di chi lancia l’accusa”); lo stesso sfruttamento di dati e fatti reali per darne un’interpretazione del tutto distorta e falsa (come direbbe Debord, “nel mondo realmente rovesciato, il vero è diventato un momento del falso”); l’edificazione di ragnatele semantiche viziate e inquinanti, per diffondere o risignificare parole che di per sé avvalorino o squalifichino, come “vaccini”, “no vax”, “negazionisti” o “scie chimiche” (Ellul proseguirà la sua analisi sulla destrutturazione e manipolazione del linguaggio a fronte del trionfo dell’immagine con La parole humiliée del 1981, inedito in Italia e ideale continuazione degli studi sulla propaganda, vicino agli scritti su lingua e propaganda di George Orwell, oggi in Il potere e la parola, Piano B 2021)… Si tratta, complessivamente, di ragioni che solo in parte possono spiegare, ad esempio, l’opera di screditamento e derisione da parte del mondo mediatico e culturale nei confronti del filosofo Giorgio Agamben per le sue posizioni sulla dichiarata pandemia (con il vergognoso micromanifesto “Non solo Agamben” stilato e firmato da 100 accademici italiani, puro gesto di squadrismo intellettuale dello spessore morale e contenutistico di un post di Facebook), né possono spiegare completamente perché, a fronte di una risposta studentesca ancora più spenta ed effimera, siano potuti essere così pochi i professori universitari che nel 2021 hanno firmato contro il Green Pass, e ancor meno quelli che siano arrivati a lasciarsi sospendere piuttosto che vaccinarsi. È qualcosa che sfugge alla predeterminazione della società e dell’ambiente perché riporta ciascuno alla sua propria indipendenza e alla sua responsabilità, autentiche condizioni di libertà. Sono queste le voci di maestri che davvero contano fuor di cattedra, figure di intellettuali tanto più ammirevoli e rare, a conferma di quanto oggigiorno restino necessari e decisivi i liberi gesti di singoli individui, più che gli schieramenti compatti e i movimenti unificati.
In breve: se si vuole resistere alla propaganda (o contro-propaganda) che tanto comodamente rassicura in un mondo di fatti confusi e incerti per fornire “un’assicurazione para-religiosa”, allora non bisognerà smettere – se ci si ritiene dotati di intelligenza umana – di inter-legere, ovvero di “trascegliere”, di analizzare e interrogarsi. Ellul ci ricorda con il suo esempio che uno sguardo realmente critico è sempre e comunque un ampliamento della prospettiva, e non una riduzione a punti fissi e posture cristallizzate sul singolo dettaglio – che fanno invece il gioco di una macchina propagandistica ben più svelta, lungimirante e dinamica di noi, anche nel coglierci in fallo, nel variare il grado e la modalità di falsificazioni e abusi.
Non è un caso che oggi sia in voga il termine “complottista” proprio per squalificare visioni olistiche e integre, capaci di legare fatti apparentemente irrelati, di disseppellire cause rimosse ed effetti taciuti, riconoscendo le vere continuità e le reali emergenze (rimando anche all’accezione del termine come restituito e fatto proprio dal filologo Francesco Benozzo, professore sospeso dall’Università di Bologna per aver rifiutato il Green Pass, nel pamphlet Memorie di un filologo complottista, La Vela 2021). È tutto il contrario di farsi prendere dalla smania di decostruire tutto, come vorrebbe l’epoca della cancel culture e dell’identità di genere: si tratta invece di demistificare, decrittare, decifrare. Di sbugiardare, senza smettere di interrogarsi e approfondire.
Per la propaganda d’ogni dove, sono questi i veri crimini del nostro tempo. Così, diventa “complottista” chiunque cerchi una visione autonoma e chiarificata dei poteri realmente in gioco: proprio oggi, laddove tutte le tecnoscienze e le forme di dominio convergono e si uniscono tra loro, è quantomai funzionale alla sopravvivenza del potere la necessità di stigmatizzare e deridere chi si sforza di trovare le chiavi interpretative di questo tempo da solo, con l’atto semplice e fanciullesco dell’imparare a “unire i puntini” in autonomia, senza che ci siano mass media, tecnici ed esperti a farlo per te, e poi magari, anche, a interpretare, pensare e decidere al tuo posto.

“Spezzare la coscienza umana”
Teoria e pratica di un dominio schizofrenogeno

Ma la vulnerabilità della classe intellettuale rimanda, in Ellul, a un problema più radicale, ancora una volta riconducibile alla tecnica, che concerne la separazione sistematica di pensiero e azione: “Chi pensa, nella nostra società, non può più agire per se stesso: lo deve fare per interposta persona, e in molti casi non può nemmeno più. Chi agisce non può pensare all’azione prima di compierla, per mancanza di tempo o sovrapporsi di impegni, o perché il corpo sociale vuole che egli traduca in azione il pensiero altrui.” È un unico tipo di dominio quello che usurpa l’intellettuale della capacità di agire e l’operaio di quella di riflettere, “libero” di pensare ad altro nella ripetitività dei gesti sul lavoro, ma sempre più automatico e irriflessivo nelle azioni. Le loro non sono, in fondo, che due forme di automazione e di impotenza speculari.
Al cuore della riflessione di Ellul sulla propaganda, troviamo così il motivo costante della dissociazione e della contraddizione, indotte in più sensi e forme dal sistema tecnico. Si tratta di autentiche “torsioni psichiche” inflitte dalla propaganda, che portano a riconoscere i risultati della manipolazione come logici e naturali. Dissociazione della parola dalla realtà, ad esempio, o tra razionalità dei dati e irrazionalità della narrazione da essi costruita, come si è detto. Contraddizione tra le forme di sapere, così che i tecnici non comunichino tra loro, e il divide et impera puntinista seguiti anche sul piano delle conoscenze e delle informazioni.
Dissociazione della coscienza, divisa tra esperienza diretta e suo surrogato mediatico: a educare alla vita ci penserà la propaganda-Spettacolo, figlia di cotanta tecnica e matrigna artificiale di spettatori inermi. Contraddizione tra le notizie quotidiane, così che l’esibito scollamento tra visione individuale e quella globale porti i dominati a svalutare la prima, sentire e leggere sempre più contro la propria percezione; ciò porterà, in breve, a fidarsi sempre meno di se stessi, e aggrapparsi solo alla seconda, uniformandovisi per stanchezza e autosvalutazione indotta (come altrove, nel lavoro come nel tempo libero, vi sarà anche il conflitto tra la presunta disponibilità e le reali possibilità, che a sua volta contribuirà ad alienare e dissociare ulteriormente l’individuo).
Contraddittorio è, del resto, lo stesso movimento essenziale della propaganda, che impedisce di conoscere la realtà dando però la sensazione di aver capito tutto.
E l’effetto stesso della propaganda si rivela fondamentalmente ambiguo e paradossale, come esemplificato da Ellul, sensibilizzando e mitridatizzando a un tempo. Da una parte, infatti, sensibilizza agli impulsi, rendendo più ricettivi e reattivi, specie nell’azione; dall’altra per Ellul “mitridatizza”, ovvero immunizza al suo contenuto, procurando indifferenza alle specifiche del dato argomento, a livello del pensiero.
L’individuo diventa così insensibile a certi temi e questioni, perché internamente ne è già invaso e assuefatto, e al contempo è pronto ad obbedire e rispondere nell’immediato: ad esempio, non vorrà saperne dei dettagli e delle problematiche di come funzionano realmente i vaccini mRna, satollo o nauseato dallo stordimento mediatico in materia, ma volentieri accetterà irriflessivamente di farseli somministrare, già solo per scaricare questa forma di tensione interiore. Come sanno gli psicologi, non c’è continuità necessaria tra convinzione e azione, e proprio in questa faglia interviene la propaganda, per allargarla e aggravarla.
Tornando alla propaganda pseudovaccinale, ad esempio, già solo il fatto che vi siano stati operatori olistici e naturopati prestatisi all’iniezione dei sieri genici, al punto da bypassare o tradire le proprie stesse competenze e certezze in fatto medico, può forse dar conto della potenza di fuoco della propaganda in corso (possano averlo fatto per sincera adesione o contrastata rassegnazione, è indifferente: il meccanismo della propaganda è cieco davanti alle sfumature, entrambi gli effetti sono contemplati e ne confermano ugualmente la riuscita).
“Per essere efficace – scrive Ellul – la propaganda deve provocare un cortocircuito tra pensiero e decisione”. Il pensiero non comporta più conseguenze d’azione, secondo quella che Ellul definisce una sistematica e deliberata “tendenza a spezzare la coscienza umana”. Il primo è ridotto a esercizio superfluo, a contare è un riflesso che aggira l’operazione intellettuale. “Così la propaganda – aggiunge Ellul – lascia all’individuo tutta la sua zona di libertà di pensiero”, vincolandolo però a precise azioni politiche e sociali.
Chiaro che in questo contesto la stessa “libertà di pensiero” non abbia più alcun senso: certo, l’individuo può essere liberissimo di pensare, quel che importanta è che sia sottomesso nell’azione concreta e castrato nell’iniziativa personale, o al più ricondotto a una mera reazione.
Anche oggi l’utente medio di Internet vive di mere reazioni, tra youtube, app e social, svolgendosi gran parte della sua attività intellettuale online tra emoticon e commenti, secondo criteri gregari e derivati, sempre meno creativi e unici. Così le altrettanto astratte “libertà di espressione” e “libertà di scelta” possono venir tranquillamente tollerate: tanto, a vincere sarà sempre il banco, essendo la Tecnica stessa a definire il range e le modalità di quell’espressione e di quella scelta. Poi, però, negli atti concreti si sarà tenuti ad obbedire, e a continuare a farlo.
Come ricordato da Ellul, già Joseph Goebbels, il ministero della propaganda nazista, sapeva bene come si possa dominare l’uomo lacerandolo tra comportamento e morale, haltung e stimmung, (sulle strategie di Goebbels è imprescindibile lo studio di Gianluca Magi, Goebbels: 11 tattiche di manipolazione oscura, Piano B 2021). Prosegue Ellul: “Non è perché un individuo è incapace di formulare con chiarezza quali siano gli scopi di una guerra che non si comporterà da buon soldato, se è montato come si deve dalla propaganda – e non è perché non è in grado di spiegare perché è razzista che non sterminerà gli ebrei – e non è perché non sa formulare i dogmi della lotta di classe che una persona non sarà un eccellente incollatore di manifesti, o un militante devoto.”
Differenze con il funzionamento delle macchine? Nessuna.
Ecco, in estrema sintesi, lo scopo della propaganda moderna, ergo la meccanizzazione assoluta dell’uomo. La propaganda scientifica, compagna invisibile della tecnica, non può che produrre una frattura devastante interna all’essere umano, tra pensiero e azione, tra mente e corpo. Paralizzato il giudizio individuale, smembrata la società, l’uomo si riduce per mezzo della tecnica al fantasma solipsista e alienato di se stesso, come già ravvisava Ellul: “Assistiamo al costituirsi, sotto i nostri stessi occhi di un mondo fatto di celle mentali chiuse, nel quale ognuno parla a se stesso, ciascuno rimastica senza sosta, tra sé e sé, le proprie certezze e il torto che gli fanno gli altri, un mondo nel quale nessuno ascolta più l’altro.”
Viene da pensare a quanto ora ci troviamo a un livello particolarmente avanzato e raffinato di dominio tecnocratico, dove la propaganda può letteralmente tutto, se partita da quegli stessi presupposti messi a nudo da Ellul e oggi così evidenti, ulteriormente perfezionati negli ultimi sessant’anni.
Se la potenza e la capillarità della propaganda sono proporzionali al nostro rapporto con la tecnica, rispetto ai tempi del filosofo francese potremo solo avere una vaga idea dell’entità della devastazione psichica che sta producendo su di noi. Chiesto in altri termini: trovare in una grande catena libraria di un’importante città italiana tutto un reparto dedicato agli stessi testi degli autori qui citati e molti altri – Desmet, Magi, Orwell, Zuboff, Byung, Bernays, lo stesso Ellul – con tanto di consigli personali degli impiegati, come tuttora può accadere, sarà un segno di rinnovata consapevolezza o di estensione della schizofrenia su nuovi livelli?
Come al tempo del Covid potevi guardare un celebre comico televisivo che riusciva a far ridere ed applaudire con una gag sulla totale inutilità e inefficacia del Green Pass un teatro pieno di gente, entratavi con tanto di mascherina e obbligo di Green Pass – e due anni dopo, su quello stesso canale tv, hai potuto sentire un drammaturgo che parla di cloudseeding in prima serata, nel periodo delle alluvioni emiliane, e il giorno dopo rassicurare tutti che no, non si riferiva certo alle “scie chimiche”, e no, non ha mai detto che l’inseminazione delle nuvole c’entrasse con i disastri in Emilia, che insomma non c’è niente di peggio dei “complottismi” – tutto solo perché servisse a ribadire in diretta tv la nota retorica dell’uomo-termite del mondo, così che in prospettiva neomalthusiana ed escatologico-transumana si seguiti a democratizzare le responsabilità tecniche e tossiche di chi ci domina e a distrarci dalle mansioni reali che si preparano a imporci – quei minimi ma decisivi atti d’indifferenza o obbedienza da banali, ordinari ed efferati esecutori d’ordini che tutti noi – assecondando questo sistema e questa propaganda – possiamo diventare. Ovverossia l’obbedienza quotidiana al tempo del Green Pass, o dell’ID2020 che verrà.
E quello che ci verrà chiesto e richiederà una risposta determinante non sarà se per noi si tratti di provvedimenti giusti o sbagliati, ma semplicemente: obbedirai ancora? Obbedirai meglio?
Così, mentre si continuano a provocare e alimentare guerre che solo sulla carta sono oggetto di “ripudio”, un simile principio dis­sociativo aiuta a leggere meglio il doppio volto di un regime tecnosanitario che ammala e uccide, di un’i­deologia biologico-culturale reificante e schiavista che si spaccia per emancipativa e a favore delle minoranze mentre è tra le più stigmatizzanti, sessiste e omofobe che ci siano, di un nuovo sedicente ecologismo che aliena dalla natura ed esilia dal selvatico per affidarsi alla digitalizzazione coatta e al cibo sintetico – di un’ossessione del controllo, in breve, che sta por­tando alla più totale perdita di controllo e di significato.
Come il responsabile del lager nazista di Bergen-Bel­sen poteva giustificare il fatto di non essersi opposto allo sterminio con la scusa che non aveva il modo e il tempo di pensarci, per via di tutti i problemi pra­tici derivati da forni crematori troppo piccoli per tutti quei cadaveri, come ricorda Ellul in un’intervista del 1992, così anche uscieri e addetti al controllo del Green Pass potevano sembrare – un paio d’anni fa – più preoccupati di capire come attenersi al funzionamento dei nuovi dispositivi di controllo, che non dal dilemma se fosse giusto o meno affamare ed escludere dagli uffici pubblici come dai luoghi di lavoro chi non vi si sottometteva, secondo una modalità di esclusione che loro stessi gestivano attivamente. Sono questi i tratti della meccanizzazione dell’umano: la mentalità tecnica, come ricorda Ellul, implica anestetizzazione morale, primato dell’efficienza e drastica riduzione della prospettiva. Anche oggi è sempre meno importante per il sistema sapere cosa pensiamo o cosa sappiamo, bensì cosa facciamo – o cosa non facciamo.
Combattere la fatalità tecnologica è possibile, ci insegna Ellul, con molti dei suggerimenti accennati sessant’anni fa: autonomia di pensiero e d’azione, spirito critico e disobbedienza civile, integrità individuale e coerenza di mezzi e fini, amicizie e relazioni umane fuori dal cappio tecnologico. Con un accorgimento importante: verremmo sbaragliati all’istante e tradiremmo la nostra stessa causa di esseri umani se pensassimo di poter replicare in termini di potenza e di efficacia – magari ricorrendo a tecnologie a vario grado “autogestite” o “indipendenti” – di fronte a sistemi che fanno dell’efficacia il loro Dio, insomma riducendoci a macchine – foss’anche solo ideologiche.
Se la tecnica è uno strumento di potenza al servizio di una società che ha come unico obiettivo la poten­za stessa – e che, a differenza delle società preceden­ti, ha acquisito mezzi di potenza illimitata – in questo contesto, l’importanza di passare da criteri quantitati­vi a qualitativi s’impone anche sul tipo di azioni a cui ricorrere. Per spezzare la meccanicità in noi, e riconoscerci come gli umani che siamo. “Solo la non potenza – chiosava Ellul – può salvare il mondo.”

Dario Stefanoni,
Luglio 2023

Pubblicato nel giornale L’Urlo della Terra, numero 11, Luglio 2023