La teoria del pezzo di carne. Omaggio a Palette-Palace, ai mondi che vivono e che bruciano

La nostra rivista si è sfozata, fin da subito, di mettere in luce i rapporti tra la lotta nella foresta di Roybon e le trasformazioni del capitalismo contemporaneo… Abbiamo già espresso fin nei minimi dettagli come i grandi progetti delle infrastrutture (aeroporti, autostrade, centri di interramento di rifiuti nucleari, Center Parcs…) siano una delle manifestazioni del capitalismo. L’imperialismo consiste nella dinamica che lo obbliga a conquistare sempre nuovi territori per investire del Capitale e aprire nuovi mercati.[1] In passato questa dinamica ha preso differenti forme e non è in crisi: l’accaparramento dei corpi da parte della medicina ne è una manifestazione, denunciata da tempo dai movimenti ecologisti femministi. Questo testo è un abbozzo che cerca di ritrovare i sentieri segreti che serpeggiano nelle lotte di difesa dei territori e quelli che si oppongono a nuove forme di colonizzazione come la bioeconomia.

Tutto è politica! si sente ancora oggi questo slogan del maggio 68, che mirava a sovvertire la separazione tra la vita privata e quella politica. Ma questa formula è ormai il credo dei network sociali: se Facebook può utilizzare i suoi dati per influenzare le elezioni, vuol dire che la vita è diventata molto più politica, ma non come previsto. Ne siamo spossessati [2]. Lotte sociali, lotte per la terra o contro il nucleare: una generazione dopo, questi movimenti sono ancora vivi, ma le strategie del potere sono cambiate. Dopo l’abbandono dei progetti per le grandi infrastrutture [3], le scorie nucleari che non sono state smaltite e sono ancora a Bure, l’annuncio di una nuova legge sulla bioetica e l’investimento di 1,5 miliardi di euro nel progetto di intelligenza artificiale [4], tutto questo è avvenuto nell’ultimo anno, ci siamo detti allora che valeva la pena fare una riflessione – non ci fermiamo ma riflettiamo [5]. Che i focolai di lotta si moltiplichino questa primavera. Stiamo assistendo alla riorganizzazione rapida del capitale verso la bioeconomia. I dibattiti riguardanti la prossima legge sulla bioetica rappresentano l’occasione per osservare le nuove strategie adottate dal potere per ampliarsi. E rappresentano anche l’occasione per abbattere le pareti delle nostre lotte, per conferire loro più forza ed impedire ai nostri nemici di avanzare da un lato mentre siamo impegnati dall’altro.

 

1. Il meccanismo del potere

Noi pensiamo che il potere operi all’inizio con una separazione. Chiunque venga spossessato della propria terra, dei suoi saper-fare, tagliato fuori dalla sua comunità, alienato da se stesso, può essere sfruttato, dominato, governato, colonizzato. L’arte della separazione è la meccanica del potere. Si esercita imponendone la visione del mondo [6]: il nostro nemico sa riordinare l’immagine che abbiamo della realtà.

Ora, se il potere è diffuso, non ha dappertutto la stessa densità: siamo in grado di identificare questo nemico che settorializza il mondo? Si incarna oggi in un fenomeno a due facce che si nutrono l’una dell’altra: l’industria che ci separa da ciò che ci circonda, e la biomedicina [7] che ci separa da noi stessi. Industria e biomedicina appartengono alla stessa operazione di alienazione.

Sfortunatamente, la nostra resistenza le dissocia ideologicamente. Di fronte all’estensione dell’industria, opponiamo un vasto movimento offensivo (anche se separa le lotte sociali nelle città e le lotte per la terra al di fuori di queste); ma di fronte allo sviluppo della biomedicina, opponiamo solo resistenze modeste e frammentarie. Perché separare le lotte con delle barriere a tenuta stagna? Non vediamo alcun rapporto tra il prezzo degli affitti, la mercificazione delle foreste, e quella dei nostri simili [8]? Questa contraddizione ci indebolisce molto. La causa si trova in un doppio angolo morto simmetrico del nostro pensiero collettivo: abbiamo un rapporto ambiguo sia con la natura che con l’idea di corpo. Questo testo che si avventura un pò al di fuori della foresta di Roybon, cerca delle piste per risolvere queste contraddizioni [9]. Di fronte alle nostre debolezze proponiamo di ripopolare la nostra memoria collettiva e di fronte al potere di disegnare delle prospettive comuni.

2. Genesi

Nel corso della seconda guerra mondiale, l’intensificarsi delle ricerche scientifiche (chimiche, nucleari, informatiche, mediche,…) ha rivoluzionato la visione del mondo occidentale su più piani. Le tecnologie atomiche, per esempio, hanno fatto risorgere il mito apocalittico [10]. In parallelo, le sperimentazioni mediche hanno cambiato il ruolo degli umani in questo sistema-mondo, e accresciuto la separazione tra corpo e spirito. In effetti lo studio dei prigionieri nel campo di sterminio ha avuto delle conseguenze storiche contraddittorie: da un lato la condanna dei medici nazisti nel 1947; dall’altro la diffusione dell’idea del corpo come materia prima, e l’istituzione di regole che ne autorizzano lo sfruttamento, se la persona è consenziente. Si rende quindi necessario fabbricare il consenso. Il codice di Norimberga non ha vietato l’uso di cavie umane: ne ha regolamentato l’impiego [11]. Ecco l’origine della loro bioetica, questo momento cruciale dove i giudici dell’Occidente condannano ufficialmente quello che gli scienziati continuano a poter fare.
Quattro anni più tardi, negli Stati Uniti, un medico preleva una parte del collo dell’utero canceroso di Henrietta Lacks, una donna afro-americana, povera e malata, venuta all’ospedale per essere curata e alla quale non verrà chiesto il consenso – senza dubbio la sua posizione sociale ha avuto un ruolo agli occhi dei medici [12]. Le cellule prelevate verranno messe in coltura e nel 1951 verrà scoperto la prima linea cellulare immortale [13]. Per la religione del progresso, trovare l’immortalità in un utero malato, era come trasformare l’acqua in vino: il sogno della scienza moderna che si incarnava. Quindi accadono due cose: da un lato Henrietta Lacks muore, viene seppellita senza lapide né si conosce il luogo esatto di sepoltura, e l’origine delle cellule viene dissimulata nel mondo; e dall’altra parte dei frammenti di queste cellule vengono battezzati HeLa e si coltivano e si moltiplicano per milioni di tonnellate, e diffuse nei laboratori del mondo intero. Queste divengono la materia prima per le biotecnologie, dai vaccini della poliomielite alle manipolazioni genetiche (di cui gli OGM) ai FIV e alla clonazione, e servono per testare gli effetti del nucleare o dei voli nello spazio. Così questo piccolo cumulo umano malato di cellule rivoluziona il mondo, come il petrolio o l’uranio hanno fatto in precedenza.

Durante la seconda guerra mondiale, alcuni scienziati hanno assegnato alla carne lo status di sostanza sfruttabile. In seguito hanno incarnato questa visione con una scoperta: il caso delle cellule HeLa è il mito fondatore che ha diffuso l’idea del corpo come materia prima. Da allora questa idea contamina il sistema di produzione, il mercato e i rapporti sociali.

Questa contaminazione è facilitata dalla forte influenza che la biologia ha avuto sulle scienze sociali [14] e attraverso il mito della separazione corpo/spirito che è divenuto il pilastro della visione del mondo occidentale, diffuso ad alta frequenza dall’industria dello spettacolo e dalla volgarizzazione scientifica, al punto che ci possiamo considerare un pezzo di carne sospeso a dei neuroni.

3. Diffusione

Nell’economia capitalista, lavorare consiste nell’affittare la propria forza per un tempo determinato, essendo devoluto il resto a del lavoro invisibile o allo svago: il corpo viene considerato come uno strumento. Ora, noi viviamo già in una società della disoccupazione organizzata dall’automatizzazione e dalla delocalizzazione. Uno strano sistema si designa dove il tempo dedicato al lavoro aumenta, ma dove siamo, per la maggior parte del tempo, senza attività [15]. Gli occidentali respingono i loro schiavi, mentre questi sognano un avvenire senza lavoro [16]. E tra quelli che lavorano ancora, non hanno più orari fissi: quadri connessi che propagano il loro lavoro dappertutto, studenti che consegnano loro del sushi a tutte le ore. Così il lavoro colonizza il tempo libero, e ci incita a concepirci come una risorsa sfruttabile, senza tempi morti, né impedimenti [17]. L’uberificazione [18] è una fase intermedia nello scivolamento del nostro statuto di forza lavoro a quello di materia prima, e ci prepara al passaggio alla bioeconomia. La bioeconomia è un nome dato a questo sistema dove, secondo la misura in cui si estende l’automazione, noi diveniamo meno indispensabili in quanto manodopera, meno disponibili come risorsa organica o numerica. Mentre le élite mantengono il posto di controllo, le altre categorie (umana, animale o vegetale) sono relegate al ruolo di risorsa. In questo mondo-fabbrica in ristrutturazione, i dominati sono esposti ad essere prede e coloro che difendono il progetto di reddito universale vengono sospinti verso la bioeconomia.

Le nuove forme di sfruttamento vengono generalmente ad aggiungersi alle precedenti. Se il carbone e il petrolio sono state le risorse del capitalismo vecchio-stile, le risorse della società artificiale siamo noi e il nucleare. La creazione di valore nella bioeconomia non si basa solamente sui nostri corpi, ma anche sulle nostre realtà mediche o giuridiche, sui nostri gusti, sulle nostre idee, sui nostri scambi.

Tutto viene stoccato, e mentre il denaro diventa immateriale, nuove banche compaiono per i nostri dati informatici (datacenter) e organici (bio-banche). Il potere si esercita su due livelli, quello del corpo e quello dello spirito; la cosmo visione occidentale li separa e la biomedicina si impadronisce di entrambe. Così l’anno passato, la regione Lombardia ha concesso oltre 150 milioni di euro di sovvenzione per i documenti medici di tutta la popolazione all’IBM Watson, che cerca di commercializzare l’intelligenza artificiale applicandola alla diagnosi medica su larga scala. La stessa IBM che sviluppò le tecnologie di schedatura per il regime nazista, IBM che ha prodotto ormai da anni le metropoli con il marchio « smart city », IBM che produce innovazioni anche in campo biomedico. La razionalizzazione colonizza dunque il territorio così come i suoi abitanti, i loro corpi, così come la loro vita sociale.

4. Resistenza

E se domani lavorare fosse vendere pezzi della nostra carne e i nostri dati medici? Bisognerebbe lottare per far aumentare i loro prezzi? E se la Zad di domani fosse i nostri corpi, potremmo difenderla come difenderemo una terra? Non è semplice… sfuggire al destino di schiavi di ieri e di risorsa di domani, implica innanzi tutto di allargare il nostro sistema difensivo.

Certe correnti come l’ecofemminismo o la deep ecology, avanzano già su questo percorso: contro la rimozione progressista della natura e dei corpi, sviluppano un pensiero che rivalorizza tutti e due. Essi prendono così in contropiede il disprezzo dei transumanisti per l’involucro corporale, che non è altro che un’eredità cristiana. Ma rifugiarsi nel corpo-natura fa apparire due contraddizioni: una incita a ritrattare la politica nell’individuo e nel risentimento (che possono anche essere governati), l’altra a identificare i nostri corpi con la natura vuol dire cadere nella trappola del naturalismo occidentale (che si basa giustamente sull’idea che sono fatti della stessa sostanza) [19]. Non si tratta di cancellare i corpi, si tratta di non ripiegare nell’una o nell’altra delle due parti separate. E’ necessario uscire dal paradigma: il contrario del potere non è il corpo, ma l’autonomia. Vuol dire liberarsi della nostra dipendenza [20] della visione del mondo dominante.
Rompere il maleficio consiste prima di tutto nel comprendere e riconoscere le ideologie dualiste riesumando le loro radici. Da dove viene dunque la separazione tra corpo e spirito? Questo microdualismo è l’eco di un macrodualismo: dovuto al fatto che viviamo in una società che divide il mondo in due, natura e cultura, che, per contaminazione, ci rappresenta come separati [21]. Non vanno l’una dentro l’altra, né si distruggono l’una senza l’altra. Sfuggire a questo dualismo implica dunque di ripensare collettivamente il mondo, e noi stessi. Non solamente i nostri corpi, questa entità falsamente separata ad opera del nostro nemico, ma che ci coinvolge come singoli e come collettivi. Il movimento ecologista non sfugge a questo dualismo. Come testimonial o slogan : «non difendiamo la natura, siamo la natura che si difende». Si distinguono, tra i nostri ranghi, le posizioni naturaliste classiche (che affermano di difendere la natura) e quelle di un’ecologia più radicale (che affermano essere la natura a difendersi). Mentre talune vogliono salvare ciò che l’industria minaccia, le altre ci si identificano. Queste due posizioni divergono, ma si oppongono prima di tutto al pensiero progressista, che concerne ciò che bisognerebbe sacrificare o celebrare: natura o civilizzazione del progresso. Ma alla fine tutte si appoggiano sull’idea di natura (che ha più varianti) e condividono la stessa visione del mondo: quella di una realtà divisa in due, di un mondo frastornato.

5. Sentieri

Per uscire da questo mondo tagliato in due, non partiamo dal niente. Esiste un movimento storico di resistenza alla separazione e all’accaparramento dualistico dei corpi: noi ne abbiamo solo perduto le fila.

Il caso delle cellule HeLa mostra che la biomedicina, il rimedio di tutti i mali occidentali, è nato in un attimo da una ablazione (potremmo dire da uno stupro?) [22] di una donna nera e povera. Questo fenomeno è un eco sconcertante, cinque secoli dopo, della nascita della moderna medicina inventata sulle donne, che venivano tagliate e torturate prima di venir bruciate sul rogo [23], proprio quando l’idea di un corpo-macchina si diffondeva nella visione del mondo dell’Illuminismo. Di fronte a questo processo di alienazione primitiva, dei secoli di rivolte ci precedono, si è combattuto contro l’accaparramento delle terre, la marginalizzazione delle donne, lo spossessamento delle tecniche di cura, la depoliticizzazione dei domini della sessualità e della riproduzione, o la meccanizzazione dei mestieri. Ovunque delle comunità si sono opposte all’imperialismo ed hanno intrapreso usi autonomi contro la colonizzazione. Più vicino a noi, i gruppi di donne del MLAC che hanno praticato da sole o collettivamente parti e aborti, anche dopo la legalizzazione nel 1975, incarnano questa resistenza dell’autonomia rispetto alla biomedicina.
Abbiamo reso arida la nostra memoria collettiva, irrighiamola!
Finché vivremo al riparo dalle ideologie, genereremo spontaneamente e costantemente riflessi collettivi. Le nostre capacità di far nascere rapporti autonomi, fondati sulle nostre coordinate etiche, si rigenerano. A meno che un’ideologia non le falci, o che si fossilizzino esse stesse in ideologia. Pensare senza intermediari, genera costantemente nuove visioni del mondo. Quello che si inventa nelle zone liberate, grandi o piccole che siano: una proiezione del futuro nel presente. Dall’abbandono del progetto dell’aeroporto, abbiamo fatto esperienza di ciò che è stato messo in gioco: non è la difesa della natura, ma il confronto di due mondi. Un mondo industriale che vuole individualizzare, separare e distruggere per conservare il controllo, contro il mondo che sta nascendo, che si costruisce resistendo. E la Zad è solo la parte del vulcano che emerge. Ma questi mondi in gestazione hanno bisogno di generare le loro visioni del mondo, la loro autonomia di pensiero, e aprire nuovi fronti.

6. Alleanze

Non c’è nessuna differenza tra la maniera in cui la scienza estende il suo dominio del patologico e la maniera in cui il capitalismo si estende sui territori. Da un lato il nostro sistema medico tende a produrre socialmente e concretamente nuove malati, ciò che permette agli scienziati di mantenere il passo rispetto all’autonomia: ciò che Illich aveva identificato come iatrogenesi (la produzione delle malattie da parte della medicina). Dall’altro lato l’industria distrugge le nuove specie e produce del valore con quelle che ha distrutto. Sistema medico e sviluppo industriale sono due facce dello stesso processo di estensione del potere, che si nutre ad ogni passo di ciò che ha appena distrutto: è l’imperialismo.
E’ quindi fondamentale che si agisca, non per difendere la natura o i corpi, ma per sviluppare usi autonomi in contraddizione con il nostro nemico comune. Loro distruggono, noi ricostruiamo; loro separano, noi formiamo delle alleanze. Ora, le nostre lotte restano spesso intrappolate nel quadro simbolico di ciò che affrontano ed anche se combattiamo l’incarnazione del nostro nemico (l’aeroporto, o il parco per i turisti), la visione del mondo muta, assorbe le contraddizioni, ma resta intatta. Il pensiero degli scienziati colonizza così bene gli spiriti che si installa spesso nelle teste dei suoi oppositori. Ciò implica dunque che pensare collettivamente senza intermediario, di cambiare la maniera di apprendere il mondo. Noi siamo felici se i progetti vengano abbandonati, ma la vittoria che ricerchiamo risiede nella nascita di visioni del mondo incompatibili con quella dell’occidente industrializzato.

Testo di Pierrette Rigaux & Max
Per le critiche amichevoli scrivere a:
pierrette.rigaux@laposte.net

Pubblicato su: L’Urlo della Terra, num.6, luglio 2016

Note:

[1] David Harvey, Le Nouvel impérialisme, 2010.
[2] Libreria delle donne di Milano, non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier 1987 pp. 192.
[3] Le rapport du Conseil d’orientation des infrastructures (1er février 2018) annoncia la procrastinazione o l’annullamento della Lyon-Turin, di certi tratti dell’autostrada e dell’aereoporto di Notre-Dame-des-Landes.
[4] Annuncio di Macron che segue il rapporto di C.Villani su l’IA, di fine marzo 2018.
[5] « On arrête tout et on réfléchit » è un altro slogan celebre del maggio 68.
[6] Per visione del mondo o cosmovisione intendiamo sia come noi viviamo la realtà che il modello del pensiero a partire dal quale la produciamo. (George Lapierre, Être ouragans. Écrits de la dissidence, L’insomniaque, 2015) : colui che vive via internet pensa il mondo come una rete, e lo riproduce come tale, sebbene costui scivoli già nella categoria delle persone-senza-mondo.
[7] Utilizziamo «biomedicina» per definire il sistema medico che ci rende più malati di quanto non ci curi, secondo il principio iatrogeno (Ivan Illich, Nemesis Médicale, Seuil, 1975) e aprendo così dei nuovi mercati. et ouvrant ainsi de nouveaux marchés.
[8] À propos du marché du corps humain : Céline Lafontaine, Le corps-marché. La marchandisation de la vie humaine à l’ère de la bioéconomie, Seuil, 2014.
[9] Questo testo è solo un abbozzo, una tappa nel cammino del pensiero. domande e critiche amichevoli a pierrette.rigaux@laposte.net.
[10] Günther Anders, La Menace nucléaire. Considérations radicales sur l’âge atomique, Serpent à Plumes, 2006 ; D. Danowski et E. Viveiros de Castro, « L’Arrêt de monde » in De l’univers clos au monde infini, Dehors, 2014.
[11] Philippe Amiel, Expérimentations médicales : les médecins nazis devant leurs juges. F. Vialla, Les grandes décisions du droit médical, LGDJ, pp.431-444, 2009, 978-2275034706, <hal-00867313>.
[12] L’enquête de R. Skloot révèle que les prélèvements et analyses sans consentement étaient systématiques dans le service en question : Rebecca Skloot, La vie immortelle d’Henrietta Lacks, Calmann-Levy, 2011.
[13] Le cellule si moltiplicano per sdoppiamento. Dopo un certo numero di sdoppiamenti, la linea muore: è il limite di Hayflick (una delle ragioni del vostro invecchiamento), scoperto solo nel 1961: dalle prime colture cellulari del 1907, la biologia cercava l’immortalità nelle cellule.
Le cellule cancerogene HeLa sono un’eccezione: continuano a sdoppiarsi dal 1951.
[14] Pensiamo per esempio all’impiego dello schema cellulare per l’analisi dei gruppi umani, che ha facilitato l’ingegneria sociale e il menagement. Céline Lafontaine, L’Empire cybernétique. Des machines à penser à la pensée machine, Seuil, 2004.
[15] Secondo le ultime cifre ufficiali della disoccupazione, meno della metà del tempo della popolazione totale in Francia è sottoposta al lavoro « il tasso di impiego equivalente ad un tempo pieno arriva a un 60,4% nel 2017 (https://www.insee.fr/fr/statistiques/2966612#titre-bloc-8), cifra che scende sotto il 50% con i minori di 15 anni e gli over 64. La parte della popolazione disponibile ad essere preda della bio-economia è dunque importante.
[16] Tomjo, Au Nord de l’économie. Des corons au coworking, Le monde à l’envers, 2018.
[17]«Vivre sans temps-mort, jouir sans entrave» «vivere senza tempi morti gioire senza impedimenti » è un altro slogan del maggio 68.
[18] (Neologismo) Adozione di un modello aziendale di mettere le risorse a disposizione dei clienti dai loro smartphone, in qualsiasi momento e senza indugio. (ndt)
[19] Pour une critique féministe de l’identification et de l’empathie avec la nature : Val Plumwood, « La Nature, le moi et le genre : féminisme, philosophie environnementale et critique du rationalisme », Cahiers du genre n° 59, 2015/2.
[20] Aurélien Berlan, Pouvoir et dépendance, 2016. https://sniadecki.wordpress.com/2017/01/13/berlan-pouvoir/ À propos des débats sur l’idée de nature : Philippe Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, 2005, et sa critique dans Lapierre, op. cit., 2015.
[21] Il découpage delle donne torturate precede la chirurgia moderna e la rappresentazione del corpo come macchina organica. A proposito della devalorizzazione della natura e dei corpi nell’occidente cristiano, ed in particolare del corpo femminile: Silvia Federici, Caliban et la sorcière. Femmes, corps et accumulation primitive, Entremonde, 2015 ; Pierre Musso, La Religion industrielle, Fayard, 2017. À propos des machines organiques pendant les siècles suivants : Bertrand Louart, Les Êtres vivants ne sont pas des machines, La Lenteur, 2018.
[22] Nel testo si fa un gioco di parole irriproducibile in lingua italiana (ndt).
[23] Documentario di Yann Le Masson, Regarde elle a les yeux grand ouverts, 1980. MLAC: Movimento per la libertà di aborto e della contraccezione.

 

L’emancipazione fittizia: decostruzionismo, lotte e perpetuazione del potere

Nota preliminare: si parlerà principalmente di decostruzione e decostruzionismo, col quale si intende uno stile di pensiero e una corrente filosofica nata dal poststrutturalismo. Si farà riferimento principalmente ai campi di pensiero e indagine che come corrente ha sviluppato; tuttavia verranno citati/e anche autori/trici che ne usano le tecniche e lo stile, pur non rientrando totalmente nella corrente filosofica o non rivendicandola come propria.

“La filosofia non è altro che il censimento di tutte le ragioni che l’uomo si dà per obbedire”

La filosofia, soprattutto quella accademica ma non solo, è un complicato mondo di specialismi. Fa uso di un linguaggio astruso pieno di tecnicismi, i libri prodotti da vari/e filosofi/e sono praticamente illeggibili, e in una discussione anche a sfondo politico o sociale con qualcuno che sia stato/a iniziato alla filosofia, chi non sappia fare riferimento a determinati capisaldi della tradizione filosofica viene tacciata di incompetente e, quindi, non può a titolo entrare nel dibattito. Da questa gerarchia tra chi sa e chi non sa si generano le dottrine e i/le vari/e guru di turno.
Di più, fondandosi sul pensiero dialogico e argomentativo astratto e su premesse che di volta in volta possono cambiare (a seconda della ideologia), la filosofia si riveste di paroloni con i quali può argomentare a favore di qualsiasi cosa, dandole una giustificazione teorica e razionale. È così, allora, che l’amore per il sapere non è altro che uno strumento ideologico fortissimo in mano al tecno
capitale e ai potenti, che da ben prima di Bacone
ne dirige e giustifica i movimenti, continuando paradossalmente a rivendicare la propria autonomia.
Nel mondo democratico di oggigiorno, poi, la filosofia diventa un grande tavola rotonda dove dialogano pacificamente, nel clima di diffusa “correttezza politica”, vari/e pensatori/trici che propugnano anche tesi totalmente in contrasto tra di loro, e che sostengono visioni del mondo che si annichiliscono violentemente l’un l’altra. Il “valore” democratico del dialogo apre la strada al dibattito, nascondendo e riducendo a nulla la portata politica che una teoria può avere per il semplice fatto che essa si propone come una delle due o più alternative in un felice- e piacevole- meeting del sapere filosofico.
Se la filosofia non uscisse dalle accademie e lì si rinserrasse, non sarebbe altro che uno dei tanti aspetti del sistema tecnoindustriale- specificamente, insieme al sistema scientifico, sarebbe il suo gabinetto ideologico-, però in movimenti politici di diversi colori c’è la tendenza a leggere e fare riferimento a tesi filosofiche per appoggiare e argomentare, anche da un punto di vista teorico e con strumenti accademici, le proprie lotte.
Vale allora la pena soffermarsi a pensare a un movimento filosofico delle ultime decadi che è sin dalla sua nascita riferimento per molti movimenti sociali: in ambienti antispecisti o femministi/queer si fa spesso riferimento a pensatori/trici accademici/he della corrente decostruzionista, che ha portato a estreme conseguenze tendenze già presenti nel poststrutturalismo.
Il pensiero decostruzionista non vuole darsi una sua definizione, ma si può tentare di darne una come un metodo di lettura e confronto dei testi e degli autori della filosofia occidentale, nonché delle strutture della società, nell’intento di metterne in luce i presupposti e i pregiudizi impliciti, e le loro contraddizioni latenti. In termini ancora più tecnici, sarebbe un’analisi dell’esperienza che ne esibisce le condizioni a priori implicite.
Sostanzialmente, si analizzano testi e autori/trici della tradizione o istituzioni sociali per decostruire, ovvero smontare pezzo per pezzo, le ideologie e i pensieri di fondo nascosti dietro al sistema integro e non smontabile che pretendono di essere.
Nonostante la decostruzione abbia fornito ai vari movimenti strumenti teorici molto utili per analizzare i sistemi di dominio e le loro ideologie, tuttavia, per motivi che cercherò di abbozzare in seguito, ha lasciato aperta la strada a degenerazioni politiche.
Infatti, proprio grazie a quegli stessi strumenti fornitogli dalla filosofia, molte istanze hanno trovato giustificazioni teoriche e appoggio nelle accademie e, di lì, nelle strutture del neoliberismo e, con le loro lotte subito riassorbite dal sistema perché mal rivendicate, hanno lavato la faccia al capitalismo tecnoscientifico, regalandogli una facciata democratica di riconoscimento delle differenze (sessuali, di genere, di specie…) senza veramente metterne in discussione le fondamenta decostruite pochi attimi prima.
Sembrerebbe di trovarsi di fronte a un esempio del bipensiero orwelliano, ma del resto, anche solo prendendosi la briga di leggere certi/e autori/trici si nota nella loro stessa scrittura di marco decostruzionista e postrututturalista il retaggio del bipensiero.
Per esempio, facendo una divagazione non del tutto inappropriata, in testi della Haraway o di Preciado, dopo aver incontrato interessanti critiche al pensiero e al sistema tecnoscientifico- di cui si nega la neutralità, anzi di cui si afferma l’impossibile neutralità perchè indissolubilmente legato a pratiche del potere come la guerra e le bombe nucleari, nonché perché nato e cresciuto in un sistema patriarcale- se rivendica la sua riappropriazione e l’uso degli strumenti e dei saperi tecnoscientifici, poiché la colonizzazione della specie umana (e non solo) da parte della tecnologia è già in atto, e poco possiamo fare contro di essa, se non prenderne atto e diventarne partecipi promuovendo un suo uso femminista e queer… Ma non si diceva poc’anzi che la scienza non è neutrale? E se non è neutrale, allora non se ne può fare un uso femminista e queer, ma essa sarà sempre eteropatriarcale, proprio perché non è neutrale e non può negare la sua storia. Questo è un esempio del bipensiero filosoficamente argomentato da due esponenti di spicco della filosofia di fine novecento e inizio millennio, che sono diventate referenti per i movimenti femministi e queer.
Il bipensiero, però, pare essere un’aporia (come direbbero i/le filosofi/e) dello stesso decostruzionismo.
Infatti, la decostruzione non solo sarebbe un’analisi dell’esperienza che ne esibisce le condizioni a priori, ma anche una strategia d’ascolto per decostruire la cultura e i testi che produce, che sono già in decostruzione per loro propria natura. Essa è un processo già sempre cominciato, perché- dicono- nasce, si sviluppa e si nasconde- impercepibile ma presente- nelle aporie e nelle contraddizioni dei testi e delle culture. È qui che il decostruzionismo rivendica la sua natura politica: la decostruzione è la trasformazione, anche radicale, delle strutture e delle istituzioni.
Questa rivendicazione, come accennato, nasconde il bipensiero. Pur sostenendo che la strategia di ascolto permetta, in maniera maieutica, di far nascere ciò che è già in sé nelle istituzioni che si desidera cambiare, fino al punto di cambiarle radicalmente, il decostruzionismo non dichiara ciò che è evidente, ovvero che proprio perché la decostruzione è già in atto nelle istituzioni, essa non costruisce nulla di nuovo, ma semplicemente svela ciò che già è e facendolo replica l’esistente e in nessun modo potrebbe controllarne o dirigere radicalmente i processi. Il suo, quindi, è un lavoro atomico e fino, ma comunque descrittivo che tutt’al più, maieuticamente, può dar luce e accelerare ideologicamente i processi in corso. E’ il soggetto/oggetto della decostruzione (sia istituzione, cultura, linguaggio, testo…) che limita le capacità, i fini e le modalità d’azione politica della decostruzione stessa reinquadrandola nello stesso sistema che si voleva decostruire.
A peggiorare il quadro appena descritto, i testi filosofici di stampo decostruzionista aggravano la tipica difficoltà linguistica della filosofia. La maniera di scrivere è astrusa e complicata, ci sono giri e rigiri di parole, il linguaggio è difficile da intendere, non è facilmente riproducibile per i non iniziati e non è replicabile. L’oscurità del testo, cioè la sua difficile se non addirittura impossibile piena comprensione, porta direttamente alla sua ambiguità. Se non si sa bene cosa viene detto, è perché ciò non è chiaro, cioè è ambiguo e interpretabile in forme radicalmente opposte. E tutto ciò che è ambiguo è facilmente recuperabile.
Tutto ciò è abbastanza paradossale, visto che l’analisi del linguaggio è la punta di diamante del decostruzionismo. Eppure, invece che chiarificare le connessioni di potere/dominio (nella decostruzione di qualche istituzione, per esempio, o nella decostruzione dei rapporti tra specie o generi) le si rende più oscure con perifrasi e analisi che partono e rimangono in un testo. Si tenta cioè di decostruire un ordine di dominio, che è concreto e reale, ma lo si fa solo analizzando le strutture e le aporie del linguaggio (per esempio come una parola chiave di quel sistema di dominio porti con sé contemporaneamente due significati opposti) e dimenticandosi, o ricordando di sfuggita, gli esseri senzienti che soffrono sui loro corpi la repressione quotidiana. Per esempio riguardo le tematiche antispeciste si trovano lunghi articoli che trattano la decostruzione del binomio essere umano/animali o natura/essere umano etc. ma si lasciano da parte spesso i rapporti di forza reali e concreti che vivono altri esseri senzienti, e di conseguenza si lasciano da parte le possibilità di azione concrete e reali per distruggere quel particolare sistema di dominio.
Questo ci permette di introdurre un altro punto cruciale dei discorsi decostruzionisti, quello sulla decostruzione di vari binomi che porterebbe al superamento dell’umanesimo e alla denaturalizzazione del naturale. Pur essendo estremamente interessante, perché inquadra con molta precisione le costruzioni storico-sociali e ideologiche che sottendono a diversi sistemi di dominio (di specie, di genere…), tuttavia i binomi in gioco (uomo/natura, uomo/donna, uomo/animali, naturale/innaturale, natura/cultura, corpo/mente…) vengono smontati fino al più piccolo atomo e abbandonati a sé stessi, senza prospettive di azione politica concreta volta a eliminare le forme di dominio. Abbandonati in un mondo neoliberale, capitalista e tecnocratico, e decostruiti ma non eliminati nelle loro cause sociali, economiche, politiche e ideologiche, solo uno dei due poli del binomio ne riesce vincitore.
Per esempio, nelle teorie queer l’abbattimento della categoria naturalizzata del corpo, che non possiede più per natura un genere, si spinge fino a decostruire il binomio corpo naturale/macchina, e finisce col relegarlo ancora una volta e più profondamente a una dimensione inferiore. Esempio ne è la rivendicazione a poterlo modificare (i transumanisti direbbero migliorare) a proprio piacimento, anche impiantando protesi invasive di vario tipo. Il corpo allora è un sub-strato, un qualcosa che sta sotto e che, da sempre cultura, può essere culturizzato ancora di più, a seconda dei mezzi che la società e il tecnocapitale ci mette a disposizione (oggigiorno info-bio-cogno-nanotecnologie). Nel binomio decostruito corpo naturale/macchina, allora- il corpo riassume, sulla vecchia scia di Cartesio- caratteristiche tipiche della macchina, ovvero smontabilità e manipolabilità.
Altra forma di quest’ultimo binomio, è quello di natura/cultura. C’è un grande interesse nella filosofia degli ultimi vent’anni nel decostruire questo binomio. Per esempio, la Haraway parla di naturcultura, e questo le permette poi di sviluppare le sue proposte filosofiche sul cyborg. Vale la pena sottolineare come Donna Haraway sia una referenza nel mondo femminista e queer, tanto per dare un esempio di come la filosofia finisca con l’entrare in maniera poco critica nei movimenti sociali. Tornando al binomio, se natura e cultura non si oppongono più, allora la cultura è naturale ma, soprattutto, la natura è culturale. Allora il nostro concetto di natura è culturale, quindi perché non includiamo la macchina in esso? Nelle proposte transumaniste appoggiate dal postumanesimo, l’abbattimento di questo dualismo si appiattisce fino a raggiungere il sogno e il progetto politico della completa meccanizzazione, tecnologizzazione e ingegnerizzazione del vivente.
Anche nella questione animale è probabile che la macchinizzazione e lo sfruttamento dell’animale si estenda all’essere umano, invece che liberarli entrambi.
Vari esponenti del decostruzionismo, in primis Derrida, che ne fu il fondatore, si impegnano in lotte politiche e sociali per l’estensione dei diritti. Eppure, a mio avviso, le teorie decostruzioniste, seppur impregnate di una notevole dimensione etica, mancano della controparte necessaria della politica, intesa come sapere cosa non si vuole e chi è e dove si trova il nemico. Infatti il decostruzionismo tutto comprende (più o meno), ma non agisce direttamente su ciò che vuole cambiare, anzi, sostenendo come prima accennato che la decostruzione è già da sempre presente nel suo stesso oggetto, lascia nelle mani delle istituzioni che cerca di smontare il compito di mutare secondo lo sviluppo a cui già da prima esse tendevano.
Inoltre, mascherandosi dietro la pretesa di essere consapevoli (non innocenti, dice la Haraway) grazie al lavoro di decostruzione- che renderebbe evidenti le strutture e le giustificazioni del dominio-, invece, proprio perché manca la prospettiva reale e concreta di cosa non si vuole e di chi è il nemico, le rivendicazioni politiche proposte da esponenti di questa filosofia, o da militanti di vari movimenti che alle sue teorie si ispirano, mancano totalmente di lucidità.
La lucidità non è semplicemente la capacità di saper prestare attenzione, in quello il decostruzionismo è campione. Piuttosto è la capacità di vedere e sentire le estensioni reali e concrete del dominio, di non dimenticarsele anche se non stanno sotto al naso.
Vengono decostruite la democrazia e il sistema tecnoscientifico, vengono dimostrate le loro inevitabili connessioni con guerre, stermini di massa e fascismi di diverso tipo; eppure, al momento della verità, ciò quello di sapere cosa non si vuole e non si accetta, vari/e pensatori/trici fanno rientrare dalla porta di servizio gli oggetti stessi della loro decostruzione. Non sorprende allora che Derrida sia uno dei filosofi più democratici di sempre, e che molti professori/resse dell’accademia, formatesi anche su letture decostruzioniste, entrino in comitati bioetici.
Non tutti/e i/le filosofi/e però vengono per nuocere. Di fatto molti/e hanno sviluppato critiche radicali che, se prese fino alle loro estreme conseguenze, non sono recuperabili all’interno di un sistema democratico. Penso, giusto per dare un paio di referenze, ad alcuni scritti di Simone Weil (nel concreto Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale e Appunti sulla soppressione dei partiti politici) o alle analisi di Günther Anders sulla tecnica, l’obsolescenza dell’essere umano, lo stato nucleare e le strategie d’azione possibili per contrastarlo (L’uomo è antiquato e Stato di necessità e legittima difesa, Violenza sì o no). Eppure, ancora una volta, le pratiche accademiche di analisi dei loro testi li smontano totalmente e li allontanano dall’integrità del pensiero e della vita dei/lle loro autori/trici, fino a renderli completamente recuperabili reintegrandoli in un sistema di pensiero democratico e liberale.
Nell’approccio accademico,sia di marco decostruzionista o di altre correnti filosofiche, a questi/e autori/trici si studiano solo alcuni aspetti del loro pensiero o della loro vita, li si smonta per analizzarli con una sorta di microscopio filosofico, li si impregna di significati profondi che magari c’erano già nel testo, ma magari anche no, e che, soprattutto, se abbandonati in un’analisi che non riconosce il contesto integrale in cui sono stati prodotti li svuota di qualsiasi portata rivoluzionaria. Ecco come il loro pensiero viene recuperato se non totalmente, sicuramente almeno in parte. Il decostruzionismo, sminuzzando una parola, una frase, un paragrafo, un concetto in un/a autore/trice amplifica ancora di più questa tendenza totalizzante dell’accademia.
Come già accennato, le analisi decostruzioniste hanno fornito i presupposti teorici per le filosofie postumaniste e la base ideologica del programma transumanista.
Non stupisce allora che testi del decostruzionismo vadano a braccetto in programmi universitari con i risultati delle scienze cognitive, moda accademica imperante dell’ultimo decennio, che è praticamente impossibile criticare all’interno delle stesse università (autoproclamantesi luoghi di libertà del sapere) per il semplice motivo che forniscono i fondi economici di indagine e ricerca filosofica.
Come si sa, le scienze cognitive fanno parte della convergenza tecnologica NBIC, e che la filosofia accademica ne faccia parte (insieme a psicologia, informatica, linguistica, neuroscienze e studi sull’intelligenza artificiale) dimostra come essa non sia altro che una delle maniere che l’essere umano si dà per obbedire.
Da tutto ciò che è stato detto, risulta inutile e controproducente per i/le nemici/che di questo mondo tecnoscientifico e nucleare entrare e muoversi nel terreno della filosofia. Essa ha gli strumenti storici, teorici e ideologici per argomentare e portare avanti le sue tesi.
In un mondo basato sulla frammentazione dei saperi, dove anche e soprattutto la filosofia si muove in specialismi di vario tipo, è importante e imprescindibile evitare di cadere in argomenti e dibattiti per specialisti e iniziati.
Allo stesso modo in cui rifiutiamo di discutere con scienziati e tecnocrati se le loro teorie e tecnologie siano tecnicamente utili o meno, per il semplice fatto che il mondo che propongono è totalizzante e aberrante, ugualmente dovremmo fare con i/le filosofi/e del regime. Non c’è possibilità alcuna di superare in modo sano (cioè antiautoritario) alcune “conquiste” della filosofia (come la decostruzione del binomio macchina/natura) su di un campo metafisico. Quello non è il nostro terreno e per essere efficaci dobbiamo muoverci dove e come meglio sappiamo.

I nostri non possono essere criteri utilitaristici (utile/inutile), metafisici (possibile/impossibile) o solamente etico-morali (giusto/sbagliato), ma devono essere anche criteri politici, dove ciò che in ultima istanza marca la differenza è sapere chi è amico/a e chi no.
Sappiamo qual’è il mondo che non vogliamo, sappiamo chi sono i/le nostri/ nemici/che. Non ci occorre nulla di più.

Lu

Pubblicato su: L’Urlo della Terra, num. 6, luglio 2016

Note:

1. Corrente filosofica ma non solo di stampo postmodernista, relativista e anti-positivista. Privilegia l’analisi delle forme simboliche (del linguaggio, dei vari dispositivi di potere e sociali…) come basi per la costruzione del soggetto, negando che l’essere umano (il soggetto per eccellenza della tradizione filosofica) abbia qualsiasi tipo di privilegio gnoseologico e quindi rifiutando le teorie per cui sia lui a plasmare le strutture simboliche in cui è immerso e non viceversa.
2. L’istituzione e l’istruzione accademica si configura effettivamente come una iniziazione, con i rituali di fare la matricola, sostenere gli esami- cosa possibile solo se si ha acquisito un lingua specialistica per pochi- e la prova finale della discussione della tesi di laurea, momento in cui una serie di sacerdoti in toga analizzano chi ha completato il percorso di iniziazione e gli danno la loro benedizione. Di più, una volta laureatasi, la persona che ha completato il percorso di studi ottiene un nome e un titolo diversi (dottore/dottoressa).
3. Credo che sia opportuno usare la parola tecnocapitale, e non solo capitale perché il capitalismo si è pienamente (anche se la sua ideologia era già in germe) formato nel momento in cui ha avuto gli strumenti tecnologici, come la macchina a vapore, per farlo.
La scienza è stata, è e sarà la concubina della tecnologia per partorire, nutrire e fare crescere il sistema capitalistico in tutti i suoi aspetti. Banalmente, senza le conoscenze sulla struttura rotonda della terra e senza la bussola l’uomo bianco eterosessuale non sarebbe giunto in America.
4. Un esempio è il dibattito filosofico in corso sul movimento trans-postumanista, dove esponenti di diverse correnti di pensiero dialogano pacificamente, come se gli obiettivi del transumanismo non potessero distruggere totalmente le altre visioni del mondo, degli esseri viventi e del loro rapporto con la natura. In seguito vedremo come la filosofia da anni sta decostruendo il concetto di natura. Il concetto di natura come inteso sopra potrebbe essere sostituito da un suo sinonimo, come ambiente, ma chiamarlo in questo modo lo spossessa della sua interezza e lo priva di ogni personalità.
5. Termine coniato dallo scrittore marxista antistalinista George Orwell nel suo capolavoro 1984, romanzo distopico in cui si descrive un mondo dove ha trionfato il totalitarismo politico e il controllo totale della vita. Il bipensiero fa parte della neolingua inventata dalla classe dirigente, ed è la capacità di pensare due cose contraddittorie allo stesso tempo, ovvero credere all’inganno dell’ideologia totalitarista anche se si è coscienti della sua falsità, ed aver fiducia in tutto ciò che dica il Partito.
6. Donna, J. Haraway, Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopo™. Femminismo e tecnoscienza.
7. Paul B. Preciado, Manifesto contrasessuale.
8. L’unico modo di risolvere questa contraddizione sarebbe accettare (e quindi dichiarare apertamente) che il femminismo e i movimenti queer sono da intendere come necessariamente legati al tecnocapitalismo, alle sue guerre e alle dinamiche di sfruttamento e dominio totalitario che porta con sé. Forse è questo che intende dire Haraway quando sostiene che la sua posizione sul socialismo femminista tecnoscientifico non è mai innocente?
9. Paradosso o difficoltà logica insuperabile.
10. Si noti bene l’uso delle parole: strategia d’ascolto rimanda all’etica/ideologia democratica del politicamente corretto e del lasciare spazio a tutti/e.
11. Dal greco maieutiké, arte della levatrice, designa il metodo filosofico di Socrate che consiste nell’ aiutare a far uscire (a dare alla luce) idee che erano già presenti nei suoi interlocutori.
12. Ovvero al togliere al concetto di naturale la pretesa di essere così per natura e non per costruzione storico-sociale. Un esempio: le differenze di genere non sono naturali, ma sono frutto di un preciso percorso storico e soprattutto di una precisa dimensione sociale.
13. Da notare bene come nel decostruzionismo ma non solo (in generale in tutta la filosofia del Novecento e degli anni duemila quando tenta di costruire qualche antropologia) il linguaggio viene visto come la prima tecnologia dell’essere umano, ed essendo la capacità simbolica sua condizione fondante, l’essere umano stesso viene descritto come per natura (o naturcultura) tecnologico.
Il corpo umano, allora, è esso stesso una macchina. È la rivincita della teoria dualistica di Cartesio nel mondo capitalista neoliberale della tecnoscienza.
14.  NBIC (nano-bio-info-cogno tecnologie). Vorrei evidenziare come il tema della convergenza tecnologica non nasce dalla critica alle tecnologie come modo per individuare la costruzione sinergica della MegaMacchina in cui differenti ambiti scientifici si impegnano, ma viene prodotto negli stessi ambienti che propugnano in maniera religiosa lo sviluppo ipertecnologico. Nei testi transumanisti, infatti, la convergenza delle tecnologie viene vista in maniera positiva, come punto cruciale nello sviluppo esponenziale delle capacità tecniche dell’essere umano, tanto esponenziale che, dicono, a breve la specie umana (sempre che di specie umana si potrà parlare) entrerà in una nuova fase di singolarità tecnologica, ovvero un cambiamento totale di stato dovuto alla tecnologia globale, che permetterebbe ad una superintelligenza artificiale di manifestarsi in forma auto-cosciente. Gli stessi fautori del mondo ipertecnologico, quindi, ci indicano le connessioni di dominio tra vari ambiti della tecnoscienza.
15. Che mi risulti, un binomio che non fa parte dell’agenda della decostruzione è quello violenza/nonviolenza. Ancora una volta, la decostruzione agisce dove la porta la struttura che sta studiando.
16.    Il tema del diritto naturale nasce e si sviluppa a cavallo tra seicento e settecento con le teorie giusnaturaliste, e ha marcato il solco del pensiero filosofico democratico. È importante notare come la questione dei diritti civili nasca in ambiente borghese proprio nel momento della nascita dello Stato moderno e del capitalismo classico. Nei dibattiti odierni, per esempio su quale debba essere l’estensione di alcuni diritti, come per esempio l’accesso alla GPA, è interessante soffermarsi su come il diritto, nato e inteso nel seicento come naturale, ovvero proprio dell’essere umano per sua stessa natura, non viene più inteso in tal senso, probabilmente anche grazie alla decostruzione del sopracitato binomio natura/cultura. Sarebbe infatti un controsenso in termini pensare alla GPA o alla procreazione medicalmente assistita come diritto naturale, se prima non si fosse svuotato di qualsiasi significato lo stesso termine natura.
17. Derrida in uno dei suoi scritti più recenti (Stati canaglia) sostiene che la democrazia porta in sé stessa il germe del suo suicidio. Infatti essa, lasciando spazio sulla base di principi democratici anche a pensieri e movimenti antidemocratici (per esempio il fascismo) la possibilità di entrare nel dibattito democratico e nelle sue stesse istituzioni (campagne elettorali e parlamento), tiene aperta la porta ai suoi assassini, e non potrebbe fare altrimenti, siccome il prezzo di una politica diversa sarebbe l’annientamento stesso della democrazia. Questa sarebbe la sua più grande aporia, insolubile ma accettata come sforzo etico-morale di grande portata.
18. La metafisica è la parte della filosofia che tratta dell’essere, delle sue facoltà, proprietà e cause prime.

Un vento impetuoso contro il mal francese. Critica della filosofia postmoderna e dei suoi effetti sul pensiero critico e sulla pratica rivoluzionaria

Il regresso teorico provocato dalla scomparsa del vecchio movimento operaio ha consentito l’egemonia d’una filosofia sorprendente, la prima che non si basi sull’amore della verità, oggetto primordiale della conoscenza. Il pensiero debole – o pensiero della post modernità – relativizza tale filosofia, che fa derivare da un insieme di convenzioni, di pratiche e costumi mutevoli nel tempo qualcosa di “costruito” e, di conseguenza, artificiale, privo di fondamento. Lo stesso vale per qualsiasi idea razionale di realtà, natura, etica, linguaggio, cultura, memoria, ecc. Anzi, certe autorità del piccolo mondo post-moderno non hanno mancato di etichettare alcuni di questi concetti come “fascisti”. Alla fine, parafrasando Nietzsche, non esiste più la verità, ma solo interpretazioni della medesima. In effetti una tale sistematica demolizione d’un pensiero che nasce coi Lumi e reclama la costituzione della libertà, da cui sorgerà più tardi, con l’apparire della lotta di classe, la critica sociale (e per quelli, specialmente professori e studenti, che preferiscono sguazzare nel fango dell’impostura delle ideologie rivoluzionarie piuttosto che bagnarsi nell’acqua pura dell’autenticità), ha tutta la parvenza d’una demistificazione radicale, condotta a buon fine da pensatori incendiari, il cui obiettivo finale non sarebbe altro che il caos liberatorio dell’individualità esasperata, la moltiplicazione delle identità e l’eliminazione di qualsiasi norma di comportamento comune. Al termine d’una tale orgia decostruttivista, nessun valore o concetto universale avranno ragione d’esistere: essere, ragione, giustizia, eguaglianza, solidarietà, comunità, umanità, rivoluzione, emancipazione… saranno tutti tacciati come “essenzialisti”, cioè come abomini “pro-natura”. Tuttavia, l’estremismo negatore dei post-filosofi manifesta, su un piano spirituale, coincidenze sospette con l’attuale capitalismo. Un radicalismo di una tale intensità confligge non soltanto con la vita e le scelte politiche dei suoi autori, molto accademici per gli uni e convenzionali per gli altri, ma coincide perfettamente con l’attuale fase della globalizzazione capitalista, caratterizzata dalla colonizzazione tecnologica, da un perpetuo presente, dall’anomia e dallo spettacolo. È un supplemento per il quale tutto è facilitato.
Nessuno li disturberà nelle loro cattedre universitarie. Grazie alla priorità conferita dalla mentalità dominante alla conoscenza strumentale e alla conseguente svalutazione degli studi umanistici, sono potute sorgere, senza ostacoli, sia delle bolle filosofiche pseudo-trasgressive sia ogni sorta di ciarlatanerie speculative totalmente estranee alla realtà circostante, ma in grado di produrre una contraffazione vorticosa del pensiero critico moderno, che ama essere accompagnata da un vasto clamore mediatico.

Le lodi postmoderne alla trasgressione normative corrispondono, in una certa misura, alla scomparsa della socialità negli agglomerati urbani. Coerentemente con la nuova debolezza in materia filosofica, niente è originale, tutto è costruito e dunque, tutto dimora sulla sabbia: l’economia politica, le classi, la storia, il tessuto sociale, le opinioni… In tal caso, se non esiste alcuna relazione sociale che valga, nessuna reale liberazione collettiva, nessuna dialettica o criterio definitivo da prendere come modello a questo riguardo, quale è il significato di norme, di criteri e di fini? Si parte dal niente per non approdare in nessun luogo. Nichilismo in armonia coi mercati, per cui tutto quanto non abbia valore economico conta poco.

Non bisogna del resto stupirsi che l’elogio della disumanizzazione e il caos tipico dei decostruttori vadano di pari passo con l’apologia della tecnica. Il pensiero debole, fra l’altro, celebra l’ibridazione dell’uomo con la macchina. La natura meccanica, libera da costrizioni, non sarebbe forse più libera di una natura umana schiava delle leggi naturali?

Il nichilismo legato alla logica meccanica riflette e risponde all’abolizione della storia, alla soppressione dell’autenticità, alla liquidazione delle classi e alla consacrazione dell’individualità narcisista: è dunque un prodotto della cultura del tardo capitalismo, se di cultura a tal proposito si può ancora parlare, e la sua funzione non sarebbe altro che l’adattamento ideologico al mondo della merce tale come oggi lo conosciamo. La filosofia post-moderna consiste in una legittimazione dell’esistente.

Ciò che era nato come una reazione alla rivolta del Maggio ‘68 “nei bassifondi dello Spirito del Tempo” (Debord) è stato recepito dalle università americane come un paradigma della profondità critica e, a partire da quel momento, la “French Theory” si è diffusa in tutti i laboratori pensanti della società capitalista, facendo irruzione nei ghetti giovanili sotto forma di moda intellettuale trasgressiva. Tenendo conto del loro carattere ambiguo e malleabile, i sillogismi liquidi della postmodernità si sono rivelati buoni per ogni sorta di ideologi del vuoto, dai cittadinisti più camaleontici agli anarchici più alla moda. Anche un anarchismo di tipo nuovo, nato dal fallimento dei valori borghesi storici e incentrato sull’affermazione soggettivista, un attivismo senza progetti né scopo, unito alla perdita di memoria sostituisce, nella maggioranza degli spazi, l’antico, figlio della ragione, nato dalla lotta di classe e costruttore di un’etica universale, il cui impegno rivoluzionario era fortemente ancorato alla storia. Nella “French Theory”, o piuttosto nel “morbus gallicus” di cui il post-anarchismo è figlio illegittimo, le referenze non contano: esse denotano anzi nostalgia del passato, cosa esecrabile agli occhi d’un decostruzionista. La questione sociale si dissolve in una miriade di questioni identitarie: genere, sesso, età, religione, razza, cultura, nazione, specie, sanità, alimentazione ecc. sono al centro del dibattito e danno vita a un politicamente corretto assai singolare, che si caratterizza per un’ortografia massacrata e un discorso zeppo di contorsioni e confusioni grammaticali. Una pletora d’identità fluttuanti sostituisce il soggetto storico, il popolo, il collettivo sociale o la classe. La sua affermazione assolutista ignora la critica dello sfruttamento e dell’alienazione e, di conseguenza, un gioco “intersezionale” di minoranze oppresse soppianta la resistenza collettiva al potere costituito. Secondo quest’ottica, la liberazione arriverà da una trasgressione ludica delle regole che ostacolerebbero queste identità e minoranze e non da una “alternativa” globale o da un progetto rivoluzionario di cambiamento sociale; indubbiamente percepito come totalitario poiché, una volta “insediatosi”, detterebbe a sua volta nuove regole, maggior potere e, dunque, maggior oppressione. Il comunismo libertario, da questo punto di vista, altro non sarebbe che l’incarnazione d’una dittatura. L’analisi critica e lo stesso anticapitalismo, grazie all’annullamento di ogni riferimento storico, lasciano spazio alla messa in discussione della normatività, alla contorsione del linguaggio e all’ossessione della differenza, del multiculturalismo e della singolarità. Non si può discuterne la coerenza poiché la categoria della contraddizione è stata relegata nell’oblio assieme a quelle di alienazione, superamento e totalità. Costruire o decostruire, ecco la questione.

Indubbiamente, il proletariato non ha “realizzato” la filosofia come Marx, Korsch o l’Internazionale situazionista auspicavano; non ha cioè esaudito le sue aspirazioni alla libertà e oggi tutti noi ne paghiamo le conseguenze. È vero che, nello sviluppo della lotta di classe, si è manifestato un pensiero critico che poneva la classe operaia al centro della realtà storica, e che è stato considerato marxista, anarchico o semplicemente socialista. In effetti, si trattava di immortalare la realtà il più fedelmente possibile, come totalità che si sviluppa nella storia, allo scopo d’elaborare teorie in grado di sconfiggere il nemico della classe. La vittoria finale doveva inscriversi essa stessa nella storia. Tuttavia gli attacchi proletari contro la società delle classi non hanno avuto successo. E mentre il capitalismo superava le sue crisi, le contraddizioni cominciavano ad erodere i postulati del pensiero rivoluzionario, mostrando l’esigenza di nuove formulazioni teoriche. I contributi furono molteplici e non è il caso di rievocarli. Ciò che li caratterizzò fu una maggior chiarezza nel senso della lotta di liberazione, ma immersa in un contesto di regressione e poi, progressivamente, avulso dalla pratica. Nondimeno, la sua fruizione rafforzò il convincimento che una società libera era possibile, che la lotta era utile a qualcosa e non bisognava mai arrendersi, che la solidarietà fra resistenze ci avrebbe resi migliori e la formazione ci avrebbe resi lucidi… Pertanto la lotta delle minoranze, lungi dallo smantellare la critica sociale, l’avrebbe arricchita. E, lungi dall’essere secondarie, le questioni dell’identità divennero sempre più importanti a mano a mano che il capitalismo avanzava, distruggendo le strutture tradizionali. Tali questioni denunciavano degli aspetti dello sfruttamento fino ad allora poco considerate.

In un primo momento, universalità e identità convergevano; non si potevano concepire soluzioni alla segregazione razziale, alla discriminazione sessuale, al patriarcato ecc. prescindendo da una trasformazione rivoluzionaria globale. Nessuno poteva immaginare auspicabile un razzismo nero, una società d’amazzoni, un capitalismo gay o uno stato d’emergenza vegetariano.

La rivoluzione sociale rimaneva l’unico ambito dove tutte le questioni potevano veramente esser sollevate e risolte. Fuori di essa non restava che il particolarismo elitario, il settarismo del “centro”, il narcisismo attivista e lo stereotipo militante. Si apriva così la strada al postmoderno.

Il pensiero debole approfittò anch’esso della crisi ideologica, recuperandone gli autori e le idee ma con effetti e conclusioni opposte. Una volta neutralizzato nella pratica, il soggetto rivoluzionario doveva essere eliminato anche dalla teoria, in modo che le sue lotte rimanessero isolate, marginali e incomprensibili, intrappolate in una verbosità sciocca e autoreferenziale, buona solo per gli iniziati. Fu questo il compito della French Theory, che scalò le vette del pensiero ingenerando quella confusione sofisticata e criptica che consacrava, come santoni privilegiati, la casta intellettuale e, come popolo eletto, o discepoli, soprattutto universitari. Il “mal francese” è stata la prima filosofia irrazionalista legata allo stile di vita degli apparati, piuttosto ben retribuita e a giusto titolo: la sua revisione della critica sociale del potere e la contestazione dell’idea rivoluzionaria hanno reso uno splendido servizio alla “causa” della dominazione. La nozione di potere come un etere onnipresente che si estende ovunque relega qualsiasi pratica collettiva alla ricerca d’un ideale insito nel potere stesso, una sorta di cane che si morde la coda. Il potere apparentemente non è più incarnato dallo Stato, dal Capitale o dai Mercati, come ai tempi in cui il proletariato era la classe potenzialmente rivoluzionaria. Il potere, adesso, siamo tutti; è il tutto. La rivoluzione sarebbe così ridefinita come il richiamo del potere allo scopo di riaffermarsi, nei casi estremi, a partire dai nuovi valori e norme arbitrarie almeno quanto quelle che le hanno precedute. Il discredito della rivoluzione sociale è più utile per il potere reale in tempo di crisi, poiché una opposizione sovversiva organizzata che cerca di costituirsi (un soggetto sociale che cerca di nascere) sarebbe immediatamente denunciata come potere di esclusione. In breve, un pessimo “racconto della modernità” (per usare una terminologia lyotardiana), come quello della lotta di classe. Il rifiuto della nozione di classe lascia apparire pure, involontariamente, un odio di classe, eredità della dominazione passata attiva nell’immaginario post-razionale. Insomma, si abbandona qualsiasi velleità comunista rivoluzionaria per la trasmigrazione dei generi, il poliamore, la trasversalità e il regime vegano. Risolti in questo modo i problemi individuali, il cammino è aperto per una opposizione collaborativa e partecipativa, pronta ad entrare nel gioco e naturalmente a votare, a occupare spazi di potere e a controllare dall’interno l’ordine attuale con un discorso radicalmente identitario dunque politicamente molto corretto, e di riflesso un discorso iper-cittadinista ormai irritante non solo per la nuova sinistra ma anche per la sinistra integrata di sempre.

La situazione critica, in preda al mal francese, è sconsolante almeno quanto la vita nel mondo occidentale e urbano devastato dal capitalismo. È la fine della ragione, la chiusura spirituale d’un mondo superato nel quale la resistenza al potere era possibile, lo svaporamento della coscienza di classe storica, l’apoteosi del relativismo, il trionfo completo dell’inganno, il regno realizzato dello spettacolo… Si potrà chiamare questo fenomeno come si vuole, ma è soprattutto l’effetto intellettuale della disfatta storica del proletariato tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento e, di conseguenza, della scomparsa di due o tre generazioni di combattenti sociali e dell’incapacità di questi ultimi di trasmettere le loro esperienze e conoscenze alle nuove generazioni le quali restano, così, in balia della psicosi postmoderna e del suo gergo inintelligibile. Esiste una linea di rottura generazionale molto chiara che coincide più o meno con l’apparizione del “milieu” o ghetto della gioventù, alla fine degli Ottanta, e una relazione di quest’ultimo col processo d’imborghesimento dei centri urbani. In conclusione, si può stabilire con evidenza una relazione tra la diffusione della malattia post-moderna e
lo sviluppo delle nuove classi medie.
Il crollo del movimento sociale rivoluzionario e la catastrofe teorica sono due aspetti del medesimo disastro, e dunque del duplice trionfo, pratico e ideologico, della dominazione capitalista, patriarcale e statale.
Malgrado tutto, la disfatta non è mai definitiva, perché gli antagonismi proliferano ben più delle identità, e la volontà di liberarsi insieme è più forte del desiderio narcisistico di distinguersi. Dieci minuti di patetica celebrità virtuale sono gocce d’acqua nell’oceano tempestoso della “conflittività” permanente.

La lotta di classe ricompare nella critica al mondo della tecnologia e nella difesa del territorio, nei progetti comunitari di uscita dal capitalismo e nelle lotte che oppongono le classi contadine all’agricoltura industriale e alla mercificazione della vita. Probabilmente, nei paesi turbo-capitalisti, questi conflitti non riusciranno a sfuggire all’approccio “intersezionale”, alle questioni “di genere” e ad altri riduzionismi identitari, perfettamente compatibili con una casistica riformista tratta dall’”economia sociale”; ma in ogni luogo in cui si costituirà un autentico fronte di lotta le bagattelle si disperderanno, consumate dal fuoco dell’universalità.

Miquel Amorós

Discussione su «Anarchismo e postmodernità» del 14 novembre 2017 al Centro Sociale Ruptura, Guadalajara (Jalisco), e del 25 novembre 2017 alla Biblioteca social Reconstruir, Ciudad de México.

Tratto da: www.piecesetmaindoeuvre.com

Pubblicato su: L’Urlo della Terra, num.6, luglio 2016

Berlino: Incendio contro RWE in solidarietà con la lotta ad Hambach

La notte scorsa [dal 10 all’11 ottobre 2018] a Berlino, abbiamo acceso diversi ordigni incendiari davanti all’entrata del Gaußstraße 11 nel quartiere di Charlottenburg. Questo fuoco di solidarietà è diretto contro l’impresa RWE-Innogy, la cui sede si trova a quell’indirizzo, ed è l’espressione dei legami che sentiamo di avere con gli/le occupanti della foresta di Hambach. Nonostante lo stop temporaneo al disboscamento, è presto per festeggiare. Le macchinazioni distruttrici di RWE e di altre imprese d’energia continuano in altri luoghi senza essere minimamente disturbate. RWE fornisce il carburante che fa funzionare il capitalismo mondiale, la cui esistenza si basa sullo sfruttamento, il controllo e la distruzione dell’umano e della natura.

Oltre all’impresa e i suoi lacchè, che sono sotto contratto con lo Stato come le società private, la politica bugiarda e i suoi servi in toga di giodice fanno parte allo stesso modo di questa miseria. Tutti e tutte agiscono al servizio del capitale, come ce l’insegnano gli eventi delle ultime settimane. Ecco perché non dovremmo lasciarci fuorviare dalle promesse e le decisioni di giustizia, perché è la stessa giustizia che, con la scusa della protezione contro gli incendi, dà il via alle espulsioni e rinchiude in prigione i/le nostr* amic*.

Per la libertà e la rivolta!
Amore e forza per le persone incarcerate!
Fuoco e fiamme per RWE !

(A)

Info da: https://it-contrainfo.espiv.net/