Germania: Incendiati 13 pozzetti dei cavi ferroviari

“19 giugno 2017

Questa mattina abbiamo incendiato i fasci dei cavi lungo varie tratte principali della ferrovia. Le ferrovie usano i canali dei cavi vicino alle rotaie non solo per la segnaletica interna ma li affittano anche ad altri gestori della rete. Interrompiamo lo sfruttamento economico totale. E con questo la svalutazione tanto interiorizzata della vita. Interveniamo in uno dei sistemi nervosi centrali del capitalismo: varie decine di migliaia di chilometri di tratte ferroviarie. Dove corrono merci, forza lavoro, anzitutto dati.
Dati come base per la valutazione e lo sfruttamento di tutto. Dati necessari per la fluidità dell’accentramento di tutti i processi (di lavoro) in una macchina capace di apprendere e di ottimizzarsi continuamente. In Germania in futuro sarà chiamata industria 4.0.
I G20 s’incontrano a luglio per far marciare la macchina nel miglior modo possibile. Si tratta della stabilità dell’economia mondiale. Come sempre. Si tratta dell’Africa come ampliamento neocoloniale della macchina. Non più di far solo bottino di materie prime bensì d’aprire l’accesso a nuove possibilità di sfruttamento, nuovi mercati, nuova forza lavoro. E di spostare il confine esterno UE dentro l’Africa del Nord per ricacciare coloro che dopo la distruzione, perpetrata dai G20, delle proprie condizioni di vita si mettono in marcia. Il “partenariato con l’Africa” vorrebbe imporre economicamente un argine di sicurezza che si carica del lavoro della protezione dei confini EU. Affinché la macchina funzioni ancora meglio e produca immagini meno brutte.

Non fermeremo i macchinisti, non ancora.
Ma dimostriamo che è possibile far perdere qualche colpo alla macchina anche se ne siamo parte e dovremmo esserlo sempre più in profondità.
Ai macchinisti ricordiamo la nostra contraddizione.
Come a luglio in occasione del vertice G20 ad Amburgo.
La protesta di massa sarà visibile a tutto il mondo.
Ed incoraggerà.
A non attendere ancora.
A non solo sperare.
Agire.
Provare, fallire. Provare ancora, fallire meglio.
Forse vincere.
In ogni caso arrivare più lontano.
Lungo la nostra via.
Cioè vivere.
Ora!

L’unica misura valida per la crisi del capitalismo è il grado d’organizzazione delle forze che lo vogliono distruggere.
Shutdown G20 – Amburgo fuori dalla rete!”

Fonte: Linksunten
Traduzione dal tedesco mc, CH
Info da: contrainfo.espiv.net

 

Corpi animali, dispositivi di potere, attacco al vivente. Dove si legano lo smembramento degli altri corpi animali e l’appropriazione della dimensione procreativa della donna

“Vista in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi all’incirca così: su in alto i grandi magnati dei trust dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in lotta tra loro; […] poi il proletariato, dagli strati operai qualificati meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati. Solo sotto tutto questo comincia quello che è il vero e proprio fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione, giacché finora abbiamo parlato solo dei Paesi capitalistici sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni immaginazione.
Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali… Questo edificio, la cui cantina è un mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo stellato.”

Max Horkheimer1

In uno scritto di commento alla giornata dell’otto marzo leggo: “[…] la giornata dell’otto marzo ha mostrato contraddizioni interessanti. Da una parte a Milano, dal palco delle istituzioni in piazza Duomo, le oratrici parlavano della lotta per i diritti delle donne insieme ai diritti dei cani e dei gatti (perché il genere finisce per diventare una delle tante differenze e la violenza sulle donne una delle tante violenze). […]”2
Prendo come spunto questa considerazione portando un altro sguardo.
Inizio con una domanda: cosa significa essere umano?
Se ci pensiamo quel che viene considerato umano è una costruzione, è un fenomeno storico costruito sul sangue. L’uomo non è un’invariante, l’uomo esiste storicamente solo nella misura in cui trascende ed esclude la donna, la sua stessa animalità e gli altri animali.
Nei secoli l’umano viene definito mettendo in luce alcune caratteristiche che lo distinguerebbero, in modo inequivocabile, dagli altri animali. Una presunzione arbitraria e un’ideologia antropocentrica è il voler definire le caratteristiche che ci eleverebbero sopra gli altri animali.

“L’animale non parla, l’umano sì (Cartesio)
L’animale non ha un volto, l’umano sì (Levinas)
L’animale non muore, l’umano sì (Heidegger)”

Queste caratteristiche attraverso cui avviene la costruzione dell’umano sono esse stesse costruite. Si fondano su un’ideologia specista. Lo specismo non è un pregiudizio, ma un’ideologia che legittima, giustifica, naturalizza le pratiche, le strutture e i sistemi di disciplinamento, di sfruttamento, di smembramento e di uccisione dei corpi animali.
Solo perchè qualcosa come una vita animale è stata separata all’interno dell’uomo, solo perchè la distanza e la vicinanza con l’altro animale sono state riconosciute, è possibile opporre l’uomo agli altri viventi.
Agamben descrive perfettamente il dispositivo che permette la separazione e la ri-articolazione della coppia uomo/animale:

“Una macchina antropologica dove è in gioco la produzione dell’umano attraverso l’opposizione uomo/animale, umano/inumano, la macchina funziona necessariamente attraverso un’esclusione (che è anche e sempre già una cattura) e un’inclusione (che è anche e sempre già un’esclusione). Proprio perchè l’umano è, infatti, ogni volta già presupposto, la macchina produce in realtà una sorta di stato di eccezzione, una zona di indeterminatezza in cui il fuori non è che l’eslusione di un dentro e il dentro, a sua volta, soltando l’inclusione di un fuori.”3

Il confine, la barriera tra “animalità/umanità” è assolutamente arbitraria ed è una barriera che si sposta escludendo, e al tempo stesso producendo, di volta in volta un umano non ancora o non abbastanza umano, un subumano, animalizzandolo, designandolo come bestia, maiale, pidocchio, ratto…
Al centro di questa macchina dove dovrebbe situarsi il veramente umano c’è una zona di ridefinizione in cui la barriera può essere spostata. Al centro quindi in realtà c’è un vuoto, una vita separata ed esclusa da essa, una nuda vita.
L’umano quindi è un dispositivo di potere che traccia il confine tra ciò che è umano e ciò che non è umano. È un meccanismo di produzione dell’umano stesso che al contempo produce l’inumano.
La costruzione di significato passa anche attraverso tutti quegli aggettivi oggettivanti che costruiscono l’uomo come maschio, etero, occidentale, sano, bello. In questo processo di costruzione ciò che viene sacrificato, e non solo metaforicamente, è la donna e alla luce di quando emerso dalla macchina antropologica, uno sguardo più profondo non può non vedere l’Animale.
Ci troviamo immerse in una costruzione di senso, significato e valore attraverso il meccanismo di esclusione di chi rimane, strangolato e soffocato, ai margini.
Come se non esistesse la donna in quanto soggetto, ma solo in relazione al maschio, come se non esistesse l’animale in quando soggetto, ma solo in relazione all’umano. La stessa concezione della donna e dell’animale solo come oggetti di appropriazione.

Lo sguardo femminile decentrato sarebbe nella posizione favorevole per cogliere il legame con gli altri corpi animali da sempre assenti e oggetto del potere normativo e dei dispositivi di potere che si iscrivono nei corpi. Quello che vorrei mettere in luce è ciò che lega la donna agli altri animali, in quanto è il loro corpo che serve come materiale. La violenza contro i loro corpi viene naturalizzata, reinterpretata, risignificata e infine negata.
Esiste un sommerso che viene non solo reificato e sfruttato, ma annullato in quanto tale e riprodotto da questo sistema di potere che si esercita sull’animale attraverso il corpo e che produce corpi biopolitici. Un disciplinamento dei corpi e una produzione di corpi docili con la morsa dell’allevamento e le tecniche zootecniche che mirano a piegare il comportamento e la personalità dell’animale. Da una selezione a una manipolazione dei corpi: l’inseminazione artificiale e la genomica permettono di selezionare gli animali, l’ingegneria genetica permette di creare animali transgenici.
Il corpo dell’animale diventa un interscambiabile modello di specie. Le individualità vengono trasformate in esemplari di specie. Abbiamo mucche “da latte”, vitelli “da carne bianca”, tori “riproduttori”, maiali “da ingrasso”, scrofe “per la riproduzione”, galline “ovaiole”, visoni “da pelliccia e fattrici”, conigli “da carne” e da “sperimentazione”, pesci “d’allevamento”.
L’animale è così trasformato in strumento di produzione, in prodotto, in modello sperimentale che deve corrispondere a determinate caratteristiche.
Nella macellazione avviene uno smembramento dei corpi e gli animali diventano referenti assenti, animali in carne ed ossa vengono resi assenti come animali, affinché possa esistere la carne. Se gli animali sono vivi, non possono essere carne, di conseguenza, un corpo morto sostituisce l’animale vivente. Sono assenti nell’atto del mangiare carne in quanto trasformati in cibo. Sono resi assenti attraverso il linguaggio che rinomina i loro corpi morti, sono rinominati carne. Smembrati fisicamente e anche nella stessa ridefinizione di essi con le loro parti: la coscia, il petto, l’ala…

L’idea della catena di montaggio deve la sua nascita alla visita di Henry Ford alla catena di smontaggio del mattatoio di Chicago:

“L’idea mi venne naturalmente guardando il carrello sopraelevato che veniva utilizzato nelle industrie della carne di Chicago per la lavorazione del manzo”.4

Il destino degli animali nella macellazione è utilizzato per descrivere l’oppressione delle donne. La Dworkin osserva che

“l’idea prediletta della cultura patriarcale è che l’esperienza possa essere frammentata, che letteralmente se ne possano dividere le ossa, e che se ne possano esaminare i pezzi come se non ne facessero parte, o che si possano considerare le ossa come se non fossero parte di un corpo. Indugiamo sulla bistecca o sulle cosce di pollo come se non fossero parti di corpi. […] Ogni cosa è divisa: l’intelletto dai sentimenti e dall’immaginazione; l’azione dalla conseguenza; il simbolo dalla realtà; la mente dal corpo. Una parte sostituisce il tutto e il tutto è sacrificato alla parte.5

La descrizione metaforica della cultura patriarcale offerta dalla Dworkin si fonda sulla consapevolezza del fatto che gli animali vengono macellati nello stesso modo.
Riferirsi alle donne come a corpi senza volto, petti, cosce, spalle, natiche, rimanda all’atto violento della macellazione e, al tempo stesso, rafforza la violenza del riferirsi alle donne come a dei pezzi di carne. 6
Quando le femministe usano metafore animali in relazione alle donne usano metaforicamente ciò che viene fatto realmente agli animali. Rivolgendo il proprio sguardo solo verso le donne si inabissa la realtà che si nasconde dietro la metafora, che è parte della stessa struttura di potere che si vorrebbe stravolgere. Una sfida per il pensiero femminista è riconoscere i punti di intersezione e di sovrapposizione di queste due forme di oppressione, quella sulle donne e quella sugli altri animali.

Un’ingnegneria dei corpi in un sistema di fabbrica che invece di produrre merci utilizza esseri viventi come materia prima sfornando la morte come prodotto finale, un sistema di morte. Questa descrizione può ben rappresentare cosa erano i campi di concentramento e di sterminio, così come può ben rappresentare la realtà degli allevamenti, questi in più hanno la peculiare caratteristica di essere un’infinita riproduzione di corpi.
La violenza si de-materializza nell’automatizzazione della tecnonologia e i soggetti viventi diventando solo animali acquisiscono un’invisibilità, una distanza fisica e morale che separando l’essere umano dall’animale crea una separazione tra azione e conseguenze, annulla l’empatia e la responsabilità. Ampliando la ciecità anche verso le conseguenze su tutti gli esseri viventi e sul mondo intero di questo sistema tecnoscientifico.

Altri corpi animali, nell’oscurità dell’assenza di uno sguardo, nella normale pratica dell’allevamento subiscono inseminazioni forzate, costrette continuamente a riprodursi, a diventar madri per essere poi depredate della loro prole.
Le mucche “da latte” come tutti i mammiferi producono latte solo dopo il parto ed è per questo che vengono inseminate artificialmente e trascorrono in gravidanza nove mesi ogni anno. Miliardi di mucche diventano così macchine da riproduzione. Verranno quindi munte per mesi, durante i quali produrranno una quantità smisurata di latte, venendo “consumate”, nel vero senso della parola, in soli due-tre anni per poi essere macellate.
Il sistema tecnico-scientifico si appropria della loro dimensione procreativa, i loro corpi diventano veicoli di un dispositivo di potere che li ingloba. Quel che rimane dell’animale non è che lo spettro di una vita.
Anche la dimensione procreativa della donna è oggetto di appropriazione dalle industrie della riproduzione artificiale e da un sistema tecnico-scientifico.
L’utero in affitto ci pone una situazione a cui non possiamo sottrarci. In gioco non c’è solo la mercificazione della capacità riproduttiva della donna, ridotta a macchina da riproduzione e a materiale umano, non c’è solo la compra-vendita di una figlia che diventa un prodotto strappato dalla madre dopo la sottoscrizione di un contratto, non c’è solo la svendita di ogni autodeterminazione e libertà facendo proprie le logiche di questo sistema dove tutto è sottoposto al criterio dell’utile e dove diventiamo imprenditrici di noi stesse, non c’è solo la giustificazione dell’ingiustificabile, spesso da una posizione privilegiata, non c’è solo l’illusione delle regolamentazioni e non il vedere i reali interessi in campo, non c’è solo una nuova faccia del patriarcato, del potere maschile di coloro che non possono portare in grembo un figlio ma che ne vogliono uno per sé, non c’è solo l’eugenetica sottesa alla tecnica di fecondazione in vitro, non c’è solo l’appropriazione della dimensione procreativa da parte dello stato e delle aziende di riproduzione.
Nell’utero in affitto si intersecano e si sovrappongono tutti questi piani, tralasciarne uno e non cogliere l’insieme è far diventare parziale una critica e un’opposizione potenzialmente radicale.
Il filo che lega i vari piani è l’attacco al vivente in un mondo macchina dove la distopia di un mondo con l’utero artificiale che ci libererà da quel fardello della maternità e che cancellerà la differenza tra i sessi, ben rappresenta dove siamo arrivate.
Le biotecnologie riproduttive hanno una storia ben precisa che parte dalle manipolazioni genetiche e dai processi di disciplinamento dei corpi. Tracciare questi processi è fondamentale per comprenderli, per ritrovare gli stessi fautori che si destreggiano nei diversi eppur simili laboratori. In quest’ottica la critica non è più solo verso una questione prettamente commerciale, ma si allarga al paradigma e all’operare di questo sistema tecnico.
Procreazione medicalmente assistita (PMA), gestazione per altri (GPA), sperimentazione sugli animali, organismi geneticamente modificati e ingegnerizzati, per tutte queste pratiche e tecniche il danno è insito nella pratica e nella tecnica stessa, in quanto scandagliano nel profondo gli esseri viventi come mai prima. Al tempo della pecora Dolly ci dissero che il passo successivo di clonare esseri umani non sarebbe mai stato fatto, eppure anche prima di Dolly avevano detto che le manipolazioni genetiche sui vegetali non sarebbero mai state trasferite sugli animali. E oggi a che punto siamo? Una cosa sappiamo per certo e la storia della scienza ce lo dimostra: se vi è interesse su alcuni processi, e vi sono le possibilità tecniche di intervenire, questo verrà fatto e non esiste nuvola etica che possa impedirlo. Dalla sperimentazione sugli animali, che sia in un laboratorio di vivisezione o in un allevamento ipermoderno industriale, lo sguardo si poserà sempre sulle società umane, in molti casi il vero scopo della ricerca intrapresa.
Tanto sono più profonde e irreversibili le conseguenze di queste tecnologie, tanto la nostra lotta dovrebbe essere radicale e dovrebbe andare in profondità, con la consapevolezza che nel nuovo mondo che si va costruendo, o de-costruendo, avremo sempre più a che fare con chimere e con figlie/i che, anche se resteranno tali, diventeranno dello Stato e del capitale tecno-industriale che ne rivendicherà la gestazione nel proprio grembo, il laboratorio.
Come potremmo anche solo pensare di avere un’idea diversa di mondo quando l’unico modello sarà l’artificializzazione continua?

Luglio 2017
Silvia Guerini

1 M. Horkheimer, Crepuscolo. Appunti presi in Germania (1926-1931), trad. it. di G. Backhaus, pp. 68 – 70.
2 S. Gandini e L.Colombo, Di cosa parliamo quando parliamo di femminismo?, Via Dogana 3, 29 marzo 2017
3G. Agamben (2002), L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, p. 42.
4C. Patterson (2015), Un’eterna Treblinka, il massacro degli animali e l’olocausto, Massimo Filippi (a cura di), Editorieir, p.77
5C. J. Adams (2010), Lo stupro degli animali, la macellazione delle donne, Liberazioni, rivista di critica antispecista, numero 1, p.49
6 I nostri corpi sono, non solo metaforicamente, ma realmente macellati e resi dei pezzi di ricambio nella predazione degli organi. La retorica del dono fa leva soprattutto sulle donne: madri che donano gli organi del figlio, ingannate da un potere medico che chiama morto un corpo con il cuore che batte e con il sangue che circola nelle vene, madri che portano avanti una gravidanza di un figlio anencefalico solo per poi farlo espiantare. www.antipredazione.org

G7 AGRICOLTURA: AFFARI, CONTROLLO E DOMINIO

Il 14 e 15 ottobre a Bergamo si svolgerà il G7 agricoltura, un teatrino del consenso in cui i “potenti” della terra sventoleranno i colori verdi della sostenibilità, dell’agricoltura biologica, delle produzioni piccole e locali, a km 0. Quello che succede e succederà concretamente, non deciso esclusivamente in questo vertice, è gettare tra le fameliche fauci del mercato globale i piccoli produttori agricoli, i territori, le popolazioni, gli ecosistemi naturali continuando così ad alimentare e sostenere l’agribusinnes.
Il sistema tecno-industriale non può essere sostenibile per sua stessa costituzione. Il fatto di tingersi di verde fa parte della necessaria veste con cui il potere si presenta in queste occasioni ufficiali: il verde rappresenta il modo con cui può coprire e giustificare nefandezze di ogni tipo.
Se il G7 agricoltura si svolge a Bergamo lo dobbiamo al ministro dell’agricoltura Martina. Anche lui, originario di questi territori, forse desidera sentirsi a “km 0” come le culture agricole che non ha mai visto, ma di cui gli piace narrare la storia ad ogni convegno. Recentemente ha dichiarato che la sua volontà, sostenendo vertici come il G7, è “dare voce a contadini, allevatori e pescatori di ogni parte del mondo per affrontare insieme questioni fondamentali”.
Come possiamo pensare che la voce dei contadini possa avere un peso di fronte a poteri forti come le istituzioni politiche, scientifiche e le compagnie multinazionali? L’unica cosa che questa affermazione implica, secondo noi, è piuttosto la creazione di nuovi enti e poteri i quali, mentre affermano di rappresentare le persone, schiacciano ogni residuo di autonomia rimasta e immettono nuove nocività certificate dall’organismo competente di turno. Quando non ci prendiamo ciò che vogliamo ma deleghiamo un qualche rappresentante non acquistiamo libertà, cambiamo semplicemente padrone. Quando questi poteri dicono che vogliono cooperare con tutti i soggetti interessati significa che non gli basta più sfruttare ma vogliono che le persone, sempre più atomizzate, partecipino al proprio sfruttamento su base volontaria: ecco il trionfo della democrazia e dei principi progressisti! Questi nuovi poteri/padroni vengono così accolti da quelli vecchi nelle stanze dei palazzi e insieme, si spartiscono quello che resta di un mondo sempre più allo sfascio. L’erosione genetica dalle colture agricole si è ormai trasferita nelle menti sempre più intossicate da questo sistema tecno-scientifico il quale da una parte distrugge la vita e dall’altra promette di “rifare” la natura in laboratorio attraverso le biotecnologie e, oggi, anche con le nanotecnologie, in una convergenza che ci ha portato fino alla biologia sintetica.
Di questo scenario è indispensabile fare qualche esempio per comprendere cosa sia quel “mondo verde” della tecnoindustria che tanto piace ai promotori del progresso illimitato. Staremo anche noi a “Km 0”!
A Stezzano (BG) ha sede il centro di ricerca genetica sulla cerealicoltura nel quale scienziati manipolano il DNA delle piante di mais per poi introdurle nel circuito agricolo. Questo significa che oggi l’agricoltura è strettamente subordinata a chi controlla i brevetti e che, come già accade in numerose zone del mondo, gli antichi e diffusi saperi vengono soppiantati dal nuovo verbo scientifico: anche se i semi della “rivoluzione verde” non hanno fatto alcun miracolo, ci penseranno quelli ibridi, manipolati geneticamente e col CRISP ( “Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats”, evoluzione tecnica di manipolazione genetica) In vaste zone del pianeta i contadini subiscono il controllo, l’arroganza e la violenza delle grosse multinazionali come Monsanto che impongono le loro regole, in primis attraverso trattati commerciali che legittimano anche la repressione. La “possibilità” di scelta è una mera chimera: l’unica scelta è tra le pagine dei loro cataloghi… È questo che i potenti del G7 vogliono: un mondo in cui le persone, ed in particolare chi produce cibo a partire dalla piccola agricoltura vengano spogliate da ogni autonomia; un mondo in cui i cartelli dell’agrobusinnes siano proprietari del DNA degli esseri viventi. Un mondo totalmente artificializzato dove campo sperimentale e laboratorio diventano la nuova società, con un’unica condivisione di rischi e benefici. “Nuova” società nella quale chi è sacrificabile al mercato o al dio progresso arriva sempre dalla stessa direzione: gli sfruttati e sfruttabili di ieri e di oggi. Quando queste manipolazioni entrano fin dentro i corpi possiamo facilmente renderci conto, senza bisogno di essere tecnici o esperti, del grado in cui il potere ha colonizzato ogni sfera del vivente.
Altro esempio: a Grassobbio (BG) ha sede la multinazionale israeliana chimica Adama che produce e commercializza i veleni usati nelle nostre campagne tra i quali uno dei più dannosi ed anche il più diffuso: il glifosate. Aziende come queste fanno sì che l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo e i cibi che mangiamo siano cocktail micidiali di molecole prodotte in laboratorio. Gli effetti nefasti dei veleni sugli organismi viventi sono tanti: malformazioni genetiche, desertificazione, fino alla morte di animali, piante e di interi ecosistemi. Un’altra sgradita eredità di questa guerra contro la natura è il cambiamento climatico. Ovviamente anche una compagnia come Adama non poteva non avere il suo corredo di menzogne e retoriche ambientaliste: infatti commercia anche “verdi” prodotti biologici! Questo è il significato di biologico per l’industria agroalimentare: una nuova area di mercato. Nulla di più lontano dalla sensibilità e cultura di chi ancora si produce il cibo senza uso di veleni. Come è possibile che l’economia e il capitalismo siano sostenibili? In altre parole, come è possibile che sfruttamento e accumulazione infinita in un pianeta finito siano sostenibili? È questo che fa l’economia: assorbire tutto ciò che può e metterlo a profitto. Ci sembra sia lo stesso processo che sta avvenendo per la maggior parte delle produzioni di agricoltura biologica: cosa è infatti un prodotto naturale? Al di là di ciò che contiene, dei suoi metodi di coltivazione e produzione, è attualmente parte di una forma astuta di marketing, la stessa che si è appropriata del prefisso “eco” per venderci i soliti veleni. I corpi umani e degli altri animali così come l’ambiente che ci circonda sono saturi di questi veleni e il modo migliore per continuare a propinarceli, oltre al ricatto economico, è appunto con l’inganno di un’immagine rustica e bucolica, verde e naturale.
Per promuovere il loro modello di mondo i vari G7, Expo, hanno bisogno di personaggi come Martina e di tutti coloro che hanno visto nel biologico e nell’industria della gestione della nocività la nuova possibilità di andare avanti e macinare profitti. Per rispondere anche a questa esigenza, a Bergamo è da poco stato creato il “bio-distretto” che, al di là dell’immagine che propaganda di sè, come ente che promuove sostenibilità, non è affatto il naturale approdo a cui giungono le piccole realtà agricole che da anni, a Bergamo e altrove, sono realmente impegnate in progetti dove non si usano veleni di nessun tipo e che vorrebbero invece portare una critica al modello dominante di produzione del cibo. Cosa sia in realtà il bio-distretto ce lo dice di nuovo il ministro Martina che, intervenuto all’inaugurazione di questo ente avvenuta il novembre scorso nel palazzo della Provincia, affermava che il “bio-distretto sarà il passepartout per il G7 agricoltura”. Cosa sia e come funzioni si evince anche dalla conferenza organizzata dal bio-distretto stesso a metà giugno a Bergamo: sono stati chiamati a tener banco tutta una schiera di associazioni di categoria, tecnici, presidenti, sindaci, assessori che in vario modo hanno continuato a sbandierare questa “attenzione alle piccole produzioni e all’economia dal basso”. Ma dove erano allora i piccoli produttori? Ovviamente non potevano esserci perchè certi contesti quando parlano di piccolo hanno in mente l’intensivo, quando pensano all’innovazione sognano parchi tecnologici e incubatori di imprese e se parlano di biologico stanno già pensando come avvelenare, a norma di legge, con produzioni “biologiche” che magari arrivano dalla Romania.
Di riflessioni da fare ce ne sarebbero moltissime e ci auguriamo che ognuno ricominci a farle con la propria testa e confrontandosi con gli altri. Pensiamo infatti che invece di proporre “formule magiche” per il cambiamento come fanno gli specialisti del dissenso e della politica sia, oggi, importante ricominciare dalla critica radicale a questo mondo per iniziare a disintossicarsi da tutte le nocività che ammorbano i corpi e le menti. Pensiamo sia importante rendersi conto che viviamo in una condizione di evidente dipendenza da questo sistema e che, se è il suo abbattimento che vogliamo, dovremo ricominciare ad agire concretamente, ogni giorno, cercando di strappare sempre più spazi di libertà e di autonomia.
Colonizzando con i suoi messaggi ogni canale informativo, il sistema fa spesso credere a tutti noi che non ci sia nessuna possibilità di vivere e pensare un mondo radicalmente diverso. Una cosa è certa, un’altro mondo è si possibile, ma dobbiamo sbarazzarci prima di questo. Chi ci dice che è possibile coabitare con questo esitente fatto di sfruttamento, magari parlandoci di etichettatura, metodo precauzionale, tracciabilità e sicurezza rappresenta spesso l’impostore che non ha intenzione di cambiare nulla ma semplicemente cerca una nicchia etica e solidale dove sistemarsi e annidarsi.
Con questo coordinamento di persone critiche contro il G7 vogliamo provare a ridare senso a quello che sono questi incontri ufficiali e smascherare chi da questi incontri trae profitto per continuare a mantenere le cose come stanno, dichiarandosi oppositore ma, concretamente, sostenendo e servendo sempre i poteri alti e forti.
Il nostro percorso di critica e lotta non inizia con il G7 agricoltura e sicuramente non finirà con il vertice di ottobre qui a Bergamo. Pensiamo sia importante tornare a mobilitarci in prima persona e costruire percorsi critici che possano passare anche dalla produzione di cibo dal basso, con terra non avvelenata e autoproduzioni, piccoli mercatini slegati dalle regole e dalle certificazioni del bio-industriale, fino a momenti di opposizione all’avvelenamento in corso, per esempio contro i pesticidi, gli OGM, le monocolture industriali…
Non vogliamo essere un’alternativa, non abbiamo niente da sostituire e contrabbandare in questo mercato: l’alternativa alla guerra non è la pace, piuttosto un mondo dove le premesse stesse per cui una guerra è possibile siano scardinate alla radice.

Assemblea ecologista “Le Ortiche”

Contattaci:
avvelenate@anche.no

scarica il pdf del volantino: G7 DEFINITIVO

È USCITO IL QUINTO NUMERO DEL GIORNALE ECOLOGISTA RADICALE L’URLO DELLA TERRA

In questo numero:

Monsanto-Bayer matrimonio criminale
Ecologismo e transumanismo connessioni contro natura
Dove trans-xeno-femminismo, queer e antispecismo incontrano la tecnoscienza
Il cyborg: una metafora che si incarna, un dispositivo di potere e la fine di ogni liberazione
Vaccini: armi di distruzione di massa
G7 agricoltura: affari, controllo e dominio
Come sbancarsi la vita la fondazione Mach in Trentino
Non una semplice isola
Loro hanno paura di noi perchè noi non abbiamo paura di loro
La riproduzione artificiale dell’umano di Alexis Escudero – Ortica edizioni, 2016
Salti nella notte…
Disarticolare il mondo dell’autorità

EDITORIALE:
In tanti anni che lavoriamo su questioni come l’ecologismo, le nocività e la tecnologia, abbiamo sempre pensato che il punto di partenza, preliminare ad ogni percorso di lotta, fosse quello di chiarire, tra le varie posizioni critiche, chi questo sistema di sfruttamento lo vuole combattere e chi invece lo rafforza alimentandolo, costruendogli possibili scappatoie.
Parlando di nocività, per esempio, il lavoro svolto da gran parte dell’ambientalismo e da certo ecologismo è il caso sicuramente più emblematico e significativo su come il sistema non solo abbia recuperato delle istanze, ma su come sia riuscito a intervenire e trasformare la realtà in nome di queste. Negli anni si è aggiunto anche l’animalismo e gran parte dell’antipecismo.
Abbiamo però dato per scontato che certi ambienti più sensibili con idee radicali verso le trasformazioni di questo mondo fossero perlomeno più fermi nel considerare e riconoscere certi processi come manifestazioni del potere. La scienza può forse essere considerata neutrale in questi tempi? Eppure in tante/i hanno posto dei seri dubbi sulla non neutralità.
In vari mesi di presentazioni del giornale, ma anche dei nostri progetti legati alla critica delle tecno-scienze, non avremmo pensato di uscirne così sconfortate/i. Sconforto perchè è come se tutto un lavoro passato non fosse stato compreso fino in fondo. Ci siamo interrogate/i sul perchè di una simile situazione. Forse è per il modo con cui è stata criticata la tecnologia e un certo progresso in certi contesti senza andare a fondo nel problema, pensiamo al nucleare: basta soffermarsi solo sull’aspetto radioattivo delle scorie o su come questa tecnologia sia calata dall’alto? Per il primo aspetto potranno propinarci una “soluzione” per lo stoccaggio delle scorie e per il secondo aspetto potranno far diventare il nucleare una “partecipazione”: non potendone uscire bisogna imparare a conviverci e a cogestirlo insieme alle compagnie energetiche… Aspetti parziali che non tengono conto della complessità di una nocività radioattiva, sociale, ecologica…
La critica alla tecnologia fatta solo ed esclusivamente perchè questa è una manifestazione del potere, se può in un primo momento sembrare positiva, ha dei limiti perchè di fatto ha portato a un allentamento del pensiero, a tanti slogan e luoghi comuni acritici.
Nel confronto, spesso anche scontro acceso, tra le varie posizioni, pensavamo di trovare convinte/i tecnofile/i solo tra i soliti ambienti di sinistra, fiduciosi nel progresso sempre e comunque, anche se nucleare o nanotecnologico. O in certi ambienti polverosi fermi con analisi ottocentesche che, anche se nel mentre siamo arrivate/i alla cibernetica e alle figlie in provetta, loro cercano ancora la borghesia… Invece abbiamo scoperto ambienti libertari difensori del transumanesimo, arrivando addirittura a distinguerne uno di destra e uno libertario-anarchico, tanto da ipotizzare di impossessarsi dei Big Data (i pseudo dibattiti sul transumanismo pubblicati su “Umanità Nova”).
Abbiamo visto dei contesti femministi, anche libertari, sostenere le tesi dello xenofemminismo e la riproduzione artificiale dell’umano, usando come motivazione tutti gli stereotipi degli ambienti accademici pro-scienza, arrivando a giustificare i più controversi processi della tecno-scienza, distruggendo così in un colpo solo anni di lotte di donne reali e non ancora metafore cyborg in attesa dell’ennesimo decostruzionismo.
Anche alcuni contesti antispecisti, quelli più impegnati nell’approfondimento teorico, sono caduti nel sogno transumanista di una tecnologia liberatrice.
In tutto questo ovviamente la natura non esiste più. Cancellato finalmente il selvatico, dentro e fuori di noi, si scopre che l’empatia tanto decantata nei volantini patinati era esclusivamente destinata agli animali creati dall’uomo nelle selezioni per l’allevamento o per la vivisezione…
Sicuramente abbiamo scoperto che l’intossicazione del sistema, con i suoi mezzi di dissuasione e propaganda di massa, non risparmia nessun contesto, nemmeno quelli critici. Forse allora sarà da questa critica che sarà necessario ripartire, ma dovremmo prima capire che direzione sta prendendo: se verso le braccia cyborg del dominio o verso una landa selvaggia dove la liberazione è ancora possibile.

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Sabotaggio di colza mutata in Francia

Il 28 novembre 2016, a Longvic nei pressi di Dijon, 70 falciatricx volontarx hanno distrutto tre parcelle di colza geneticamente modificata attraverso mutagenesi per tollerare gli erbicidi. Delle parcelle sperimentali di colza mutata erano gia stati distrutti a giugno 2014 a Ox(31) e nell’aprile 2015 a La Poëze (49).

Info da: Rizoma, num.3

Azioni in Belgio

Nel novembre 2016, la sede belga della Bayer è stata invasa da una folla travestita da animali selvaggi. Dei muri sono stati imbrattati, degli striscioni sono stati spiegati e l’entrata dello stabilimento riempita di materiale vegetale. L’azione è stata rivendicata dall’EZLN (Insieme Zoologico di Liberazione della Natura) che ha pubblicato un video dell’azione su internet. Qualche giorno più tardi, il Movimento di Liberazione dei Campi, che aveva sabotato un campo di sperimentazione di patate cisgeniche nel 2011, ha fatto un’azione simbolica contro le sperimentazioni di pioppi OGM del VIB (Istituto Fiammingo di Biotecnologia).

Info da: Rizoma, num.3

Incendio nel parco eolico di SaintBrais

Nell’ottobre 2016, un incendio intenzionale ha messo fuori uso una stazione elettrica del parco eolico di Saint-Bras nel Jura svizzero, in servizio dal 2009. Per l’operatore ADEC, si tratta chiaramente di un atto politico. Gli/le autricx che hanno inscritto le iniziali « FLS » nelle vicinanze, non sono statx ritrovatx. Le nocività e l’industrializzazione dei territori causate da queste fabbriche elettriche « verdi » sono sempre più combattute, dal Messico a Creta passando dalla Svizzera.

Info da: Rizoma, num.3