Bayer: 100 anni di guerra chimica

100 anni di guerra chimica:
“La BAYER continua a rifiutarsi di assumere le proprie responsabilità”

Il 22 aprile scorso cadeva il 100° anniversario della prima utilizzazione bellica di gas tossico. Nella primavera del 1915 la compagnia BAYER fornì circa 700 tonnellate di sostanze chimiche alle truppe al fronte. Sul campo di battaglia di Ypres in Belgio furono usate per la prima volta circa 170 tonnellate di gas di cloro. Si formò una nuvola di gas larga 6 chilometri e profonda dai 600 ai 900 metri che si diresse verso le truppe francesi. Questo attacco causò circa 1000 morti e 4000 feriti gravi. Altri attacchi di gas tossico, contro i soldati inglesi, seguirono nei giorni 1, 6, 10 e 24 maggio.
Fino dall’autunno del 1914, in risposta a un suggerimento del Ministero della Guerra, era stata creata una commissione per valutare l’utilizzo degli scarti velenosi dell’industria chimica. La commissione era presieduta da Fritz Haber (direttore del Kaiser Wilhelm Institut), Carl Duisberg della BAYER e dal chimico Walter Nernst. La commissione raccomandò l’uso del gas di cloro, deliberatamente in violazione della Convenzione dell’Aia sulle leggi e gli usi della guerra di terra, che fin dal 1907 aveva bandito la guerra chimica.
Carl Duisberg presenziò personalmente ai primi test del gas tossico e lodò entusiasticamente la nuova arma. “Il nemico non si accorgerà nemmeno quando un’area sarà irrorata. Rimarrà tranquillo al suo posto fino a quando ne subirà le conseguenze”. Sotto la guida di Carl Duisberg, la BAYER continuò a sviluppare armi chimiche sempre più letali. Prima il gas fosgene e in seguito il gas mostarda. Duisberg sostenne fortemente il loro utilizzo: “Il fosgene è l’arma più terribile che conosco. Raccomando fortemente che non si perda l’occasione offerta da questa guerra di provare anche le granate al gas”. Nel quartiere generale della BAYER a Leverkusen fu istituita una scuola per la guerra chimica.
Duisberg arrivò addirittura a commissionare al pittore Otto Bollhagen, una serie di quadri rappresentanti la produzione di guerra della BAYER, da esporre nel refettorio dei dirigenti. Il quadro sottostante rappresenta un test di gas tossico e di maschere a gas.

Si stima che in totale circa 60.000 persone siano morte in seguito all’uso bellico del gas iniziato dalla Germania. Axel Koehler-Schnura, dellaCoalizione contro i pericoli derivanti dalla BAYER (CBG Germania), afferma: “Il nome BAYER si lega in modo particolare allo sviluppo e alla produzione di gas tossici. Ciononostante la Compagnia non si è mai confrontata con il suo coinvolgimento nelle atrocità della Prima Guerra Mondiale. La BAYER non ha mai nemmeno preso le distanze dai crimini di Carl Duisberg”. Le città tedesche di Dortmund e Luedenscheid hanno recentemente deciso di dare un nuovo nome alle vie dedicate a Duisberg e iniziative analoghe sono in corso a Francoforte, Wuppertal, Bonn e Marl.
Durante la guerra la BAYER divenne il maggior produttore di esplosivi della Germania. La Compagnia produceva anche maschere a gas e, con i prezzi garantiti dal governo, i profitti raggiunsero vette impensabili. Anche durante il Terzo Reich, nei laboratori della BAYER vennero condotte ricerche sui gas da guerra e, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il Dott. Gerhard Schrader, inventore dei gas SARIN e TABUN, divenne capo del dipartimento pesticidi della BAYER.

 Articolo da: Coalizione contro i pericoli derivanti dalla Bayer, www.cbgnetwork.org

Svizzera, in occasione della marcia internazionale anti-Monsanto

Il 23 maggio, da due anni a questa parte, è il giorno in cui ONG di tutto il mondo e movimenti di base si danno appuntamento in svariate città in ogni continente, per dare vita a cortei e marce contro la multinazionale Monsanto. Una giornata che di per sè non offre chiaramente chissà quli spunti di critica o momenti di lotta al di là di qualche slogan, considerate le organizzazzioni ultra-reformiste e para-istituzionali che si muovono dietro quest’appuntamento e le rivendicazioni ed argomentazioni del tutto parziali portate avanti contro la manipolazione genetica (e in alcuni casi sul filo del ridicolo, come un volantino girato in a Berna a chiamata del corteo che chiedeva ulteriori sperimentazioni di OGM in campo aperto così da poter dimostrare o meno la loro nocività).
In Svizzera, consce di questo limite, diverse persone hanno comunque deciso di attivarsi, cogliendo la giornata come una buona occasione per parlare del campo di colture OGM sperimentale presso Zurigo, rilanciare una mobilitazione e contribuire alla giornata con contenuti di critica radicale, e critiche anche verso quegli stessi ambientalisti che, muovendosi attraverso moratorie ed iter democratici, hanno difatto sdoganato lo sviluppo e la ricerca scientifica in campo aperto di alimenti geneticamente ingegnerizzati
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Oltre a partecipare ai vari cortei e presidi che si sono svolti a Lugano, Basilea, Berna e Morges (dove ha sede in Svizzera la Monsanto) volantinando e distribuendo l’opuscolo “Il campo del controllo”, nei giorni precedenti il corteo ignoti attivisti hanno ripetutamente rovinato la facciata della sede di Monsanto e Dupont con scritte e vernice.

Di seguito il volantino distribuito durante i cortei nella giornata del 23:

VOLANTINO SABATO

Messico: Incendio di un traliccio di telecomunicazioni di TelMex ad Atizapán

17 aprile 2015
Testo rivendicativo:
Il gruppuscolo “Fino alla tua morte o la mia” ha dato fuoco ad un traliccio telefonico sulla strada Messico-Toluca all’altezza del municipio di Atizapán, Stato di Messico. Abbiamo rotto il recinto di filo spinato e la griglia che “proteggeva” l’antenna e abbiamo piazzato un ordigno incendiario con un rallentatore fatto in casa sui cavi dell’alimentazione di energia. In lontananza abbiamo visto che l’ordigno si era acceso e illuminava la notte, il fuoco si è sviluppato lungo l’antenna bruciando e danneggiando quella proprietà della maledetta società Telmex.
L’antenna è stata messa fuori uso, cosi abbiamo continuato la serie di atti per cui, come già avevamo ribadito in anticipo, tutto ciò che è e simboleggia la civiltà, il progresso, la tecnologia, l’artificialità e la scienza sarà attaccato in qualunque modo.
La natura selvaggia reclama il suo, le colline divise dalla suddetta strada, gli alberi abbattuti per la costruzione di antenne ad alta tensione e di comunicazioni, gli animali (umani e non) spinti ad abbandonare il loro habitat dalla espansione pestifera della civiltà, tutto ciò che il progresso non ha rispettato né rispetta grida vendetta, i nostri antenati hanno posseduto le nostre menti, ora il fuoco di guerra ci appartiene.
Resistenza a tutto ciò che ci è estraneo !

Reaccion Salvaje
Gruppuscolo “fino alla tua morte o alla mia”

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Da: www.autistici.org/cna/

Attacco incendiario contro il cantiere di costruzione del metrò di Santiago

“Le azioni minori contro il sistema non sono importanti soltanto nella misura in cui contribuiscono alla distruzione del sistema, ma anche perché contribuiscono alla formazione di individui liberi, preparati, coscienti delle proprie capacità e dei propri limiti, coraggiosi e capaci di lottare per quello cui aspirano” (Antitecnologia 2009)

Rivendichiamo l’attentato incendiario contro il cantiere della futura linea 6 del metrò di Santiago, il 7 aprile: abbiamo attaccato questo simbolo del progresso tecnologico-sociale con un ordigno incendiario ad attivazione chimica.
Le conseguenze nefaste dell’espansione tecno-industriale non saranno tollerate senza la necessaria risposta, giriamo tenendo d’occhio i vostri negozi, supermercati, zone di espansione urbana, degradazione della natura selvaggia nelle sue forme più estese. Abbiamo attaccato, attaccheremo nelle campagne e nelle vostre città, difenderemo con le unghie e coi denti quello che resta da difendere, come anche noi stessi.

Mandiamo un affettuoso saluto a Natalia e Javier.
Forza ai/alle compagn* Juan Nataly e Guillermo in sciopero della fame.

Contro la civiltà! Per la difesa di tutto quello che abbiamo perso!

Gruppo Kapibara FAI-FRI

Dal sito: contrainfo.espiv.net

incendio-linea-6

 

EXPO 2015 Il supermercato del futuro

Si stanno riscrivendo in questi anni le rotte e ridefinendo i luoghi su cui viaggiano e impattano i capitali, per questo viviamo a ogni latitudine una sanguinosa lotta tutta interna alla classe dominante per le posizioni egemoniche internazionali e una ridefinizione degli assetti di potere anche a livello locale. Una lotta che travolge tutto e tutti, allargando le disuguaglianze sociali e generalizzando le crisi ambientali.
Nella complessità di questa scena sempre più attori del mercato globale stanno indirizzandosi verso settori descritti come le basi di un nuovo progetto capace di rinnovare dalle fondamenta l’economia capitalista grazie all’appoggio di apparati militari, influenti associazioni industriali, lobby e istituzioni statali e internazionali finanziatrici, con il beneplacito di compiacenti organismi di controllo come la European Food Safety Authority in Europa e la Food and Drugs Administration negli Stati Uniti: una impalcatura costituita da brevetti, prodotti, esseri viventi e servizi basati sulla manipolazione della materia e sull’ingegnerizzazione della vita, sulla creazione di ambienti e applicazioni tecnologicamente dialoganti con corpi umani predisposti e con appendici robotiche, cioè OGM, biotecnologie e nanotecnologie, tecnologie della comunicazione e dell’informatica, scienze cognitive e robotica.
Per garantirsi un futuro e proseguire con i suoi piani di sviluppo l’iniquo e impietoso sistema tecno-industriale utilizza questi settori per rilanciare se stesso mostrandosi nuovo, portatore di ricchezza, ecologicamente sostenibile, attento alla salute delle persone e all’inquinamento e vicino alla scoperta di soluzioni energetiche naturali e post-petrolifere. In questo modo per l’ennesima volta viene raccontata una storia sentita e subita più volte: c’era una volta un sistema creatore di un mondo nuovo, verde e blu, abitato da creature in pace e benessere che si rivelò essere caratterizzato da un diffuso stato di distruzione, assoggettamento e biocidio. I paladini di questa scienza e di questo mercato sono in azione da tempo, protési alla ricerca di legittimità e consenso perché venga conferito al sistema che incarnano il ruolo di deus ex machina, salvatore del mondo e paladino nella ricerca e nell’ottenimento di soluzioni a tutti quei fenomeni considerati dalla classe al potere come “i problemi odierni e di domani”.

 E’ in questo quadro che vogliamo inserire il ragionamento e la critica a EXPO2015. Una esposizione -titolata “Nutrire il pianeta, energia per la vita”- asservita a questi settori, che non aprirà il primo maggio e non chiuderà i cancelli il trentuno di ottobre e che neppure avrà avuto inizio nel 2008, anno in cui la città di Milano si comprò la possibilità di ospitare una simile manifestazione: le trame che lo sostengono e lo caratterizzano -scientifiche, politiche, economiche, sociali- sono in azione da anni e si comprendono in quanto scelte di politiche neoliberiste scritte in un quadro di riposizionamento di assetti globali e alla luce di crisi sociali, economiche e ambientali.
EXPO2015 è in questo momento storico il principale dispositivo utilizzato in Italia e in Europa per dare una accelerazione verso una rinnovata legittimazione politica delle istituzioni e per rinsaldare un nuovo patto tra ricerche, tecnologie industriali e opinione pubblica, società civile, pubblico dei mass-media, turisti, elettori e consumatori, sotto l’egida degli argomenti della pacificazione sociale in nome del made in Italy e dell’uscita dalla crisi economica e ambientale. A breve termine l’obiettivo di questo evento è stato ed è la spartizione dei bandi, delle opere infrastrutturali e l’ottenimento di “riforme” politiche in senso ulteriormente liberticida; quello a medio-lungo termine punta a sdoganare e legittimare culturalmente ed economicamente, attraverso una massiccia opera di educazione sociale, ciò che finora è stato affrontato da una ampia popolazione con contrarietà e legittime resistenze perchè consapevole delle nocività e dei ricatti delle multinazionali: prodotti, esseri viventi e servizi basati su OGM, biotecnologie e nanotecnologie.

 Poiché tutto ciò che possiede un alto contenuto tecnologico -dai sistemi di controllo agli artefatti, dalla robotica alle forme viventi con geni modificati, dai farmaci di ultima ingegnerizzazione alla produzione di bio-carburanti- è ormai spesso incomprensibile nei suoi elementi chiave per chi non ha effettuato specifici studi o per chi è esterno alle “comunità scientifiche”, EXPO2015 si appresta ad annullare le paure e a conquistare le opinioni e le abitudini della platea mettendo questo veleno altamente tecnologico direttamente nella filiera del cibo e nei piatti dei visitatori, cercando di rassicurare i commensali con parole quali “progresso ecosostenibile”, “sicurezza alimentare”, “innovazione tecnologica” e “qualità della vita e della salute”. Parole e campi semantici vuoti o ingannevoli, che si trasformano in concrete manifestazioni del claim “Nutrire il pianeta, energia per la vita”: saranno cibo e alimentazione -la prima metà di questo slogan- le colonne portanti dei discorsi e delle situazioni con cui si cercherà di imbonire i dubbiosi e portare i già favorevoli a esserne testimonial nella vita quotidiana.
Facendo anche leva su quella grande mole di lavoro svolto in questi anni da tutti i programmi televisivi e radiofonici e da tutte le pubblicazioni sul cibo, EXPO2015 si muoverà cercando e indirizzando il coinvolgimento della dimensione emotiva ed esperienziale di scellerati collaboratori, corresponsabili visitatori e tristi lavoranti a pagamento o gratuitamente. In altre parole questo perverso luna-park di scienze applicate, in cui esseri umani e animali si troveranno in un immenso laboratorio a cielo aperto, sarà fruibile attraverso un intrattenimento incentrato su sensi eccitati e commercialmente orientati, in primis il gusto, dal primo maggio 2015. Le prove generali sono però in atto già da tempo, gli attori sono in azione e non si fermeranno il trentuno di ottobre.
Solo facendoci carico di una diffusione massiva di forme di conflittualità e di autonomia dal sistema potremo pensare che i cancelli di questi stratagemmi neoliberisti si chiudano per sempre. O meglio ancora, non si aprano mai.

La presenza dentro Padiglione Italia -una serie di edifici e spazi che hanno l’ardire di mostrare lo stato dell’economia nazionale legata al claim– della mostra “Fab Food – La fabbrica del gusto italiano” voluta da Confindustria con le indicazioni decisive del Museo nazionale della scienza e della tecnica di Milano, di FederChimica e AssoBioTec, articolandosi tra educazione, intrattenimento e circuizione, avrà il compito di mostrare quella che viene descritta entusiasticamente come la rivoluzione in atto. Una rivoluzione che, come detto, trova nel cibo il punto di contatto “ecologico” tra produzione e consumo e nell’atto del consumare la chiusura di un cerchio destinato a ripetersi all’infinito. La presentazione ufficiale di questo luogo è già un manifesto di sviluppo economico tra i più pericolosi:
“Obiettivo della mostra è far conoscere ai visitatori di Padiglione Italia come sia possibile ottenere, rispettando l’ambiente e le risorse del mondo, prodotti alimentari sicuri, di qualità, a prezzi accessibili e in quantità sufficiente per tutti grazie all’industria e alle sue tecnologie.
In un ambiente divertente, il progetto proporrà, con attrazioni creative, ma puntuali, le articolazioni e le connessioni della filiera agro-alimentare italiana. In un percorso di 10 sale si vedrà come nasce il cibo, dal seme nel campo ai prodotti consumati a tavola, e si spiegherà cosa significano e come si riescono a presentare concetti determinanti come “food safety” e “food security”, senza perdere il gusto delle buone cose della tavola italiana. Lo spazio, studiato soprattutto per accogliere giovani, scuole e famiglie insieme al pubblico internazionale, accompagnerà i visitatori in un percorso interattivo ed emozionale verso la consapevolezza che le scelte che gli abitanti della terra faranno oggi, influenzeranno il cibo di domani”
Di fondamentale importanza è anche riportare la chiusura estrapolata dai materiali distribuiti alla conferenza stampa della presentazione di questa mostra (13 marzo 2015): Questa la proposta di “Fab Food – La fabbrica del gusto italiano” per aiutare le giovani generazioni e le famiglie ad accogliere in modo più consapevole una cultura non ideologica sull’alimentazione sostenibile, dove ognuno faccia la sua parte, senza soluzioni facili, ma con la piena fiducia nella scienza e nelle istituzioni.

 

Il senso di questa irreversibile proposta di delega e questo discorso normalizzante non possono passare inosservati: state tranquilli, genitori, fidatevi di noi e fate la vostra parte (non smettete di consumare e, quando ve lo permettono, di votare). Anche i vostri figli sono dalla nostra parte, non vedete come si divertono? Avete visto quanto hanno “imparato”? Andiamo verso un pianeta migliore grazie a una scienza buona e neutra, non-ideologica, sorretta da istituzioni lungimiranti. Brindisi al cianuro per questa retorica mefitica.

Altrettanto interessante è leggere quanto dichiara in materia di “ricerca biotecnologica verso nuove risorse per la nutrizione” il Gruppo di lavoro di biotecnologie alimentari di AssoBioTec, uno dei più coinvolti nella progettazione della mostra “Fab food – La fabbrica del gusto italiano”: “Il settore delle biotecnologie agro-alimentari, all’interno del più vasto campo delle biotecnologie industriali, rappresenta un settore strategico importante per il nostro Paese, che potrebbe consentire di recuperare la capacità di orientamento del sistema produttivo italiano verso assetti più compatibili con l’evoluzione degli scenari competitivi internazionali, già fortemente influenzati dalla ricerca di prodotti eco-sostenibili e da processi più selettivi con minore, o nullo, impatto ambientale”.
In altre parole: finanziate e sostenete il settore delle biotecnologie, nello specifico quello agro-alimentare, perché è la bussola da seguire per ri-orientare tutto il sistema produttivo e recuperare il gap con l’estero. Un’indicazione che, in toto o in parte, sta venendo seguita dall’evento milanese, dato l’enorme spazio di movimento lasciato a questi settori e ai loro interpreti.
In questo senso suonano ridicole le affermazioni pubblicate nel “Rapporto 2014 sulle biotecnologie in Italia” che, ricorrendo alla retorica del “si è sempre fatto così” in materia di natura, incroci e pratiche di modificazione, dichiarano: Trascurare gli OGM significa non comprendere il futuro dell’alimentazione e ignorare i mercati mondiali dai quali importiamo il 30% delle proteine che consumiamo.
L’Unione Europea ha investito 100 milioni di euro per studiare, in laboratori pubblici, la sicurezza degli OGM; il risultato sono centinaia di pubblicazioni e di documenti che certificano che gli OGM sono sicuri per l’ambiente e la salute. Insomma, si è finanziata la migliore ricerca e se ne ignorano i risultati. E se l’Europa ha compreso che l’opposizione politica e mediatica agli OGM costituisce un grave danno all’economia, l’Italia corre il rischio di escludere da un evento mondiale, quale Expo 2015, non solo le tecnologie OGM ma la stessa innovazione in agricoltura. Una posizione illogica, espressione di una cultura antiscientifica sempre più radicata nel nostro Paese.”

Pericolose e, ripetiamo, ridicole: almeno due dei massimi player del settore OGM e della chimica di sintesi saranno presenti a Milano con i palesi obiettivi di mettere in vetrina la bontà ecologica e salutista dei loro prodotti e i vantaggi delle loro ricerche e delle loro applicazioni, aspettando che il trattato TTIP abbatta qualunque barriera normativa e protezionistica per il loro ingresso in Europa. Sono Pioneer DuPont come finanziatore del Padiglione USA, in attesa di poter coltivare e commerciare già da subito in Europa il mais OGM 1507, e Monsanto, presente già in incontri sponsorizzati EXPO2015 sotto le vesti di AIGACOS (Associazione Italiana per la Gestione Agronomica e Conservativa del Suolo) nel progetto “Agricoltura blu – 100 km blu” che, come dicono, sarebbe “un progetto di cooperazione scientifica, tecnologica e di sviluppo internazionale per attivare un processo virtuoso di accumulo nel suolo di CO2 prodotta dalle aree metropolitane, mitigare gli effetti del cambiamento climatico, integrati ad una agricoltura efficiente e sostenibile a livello economico”. Come fare? Tra le tecniche suggerite troviamo la “semina su sodo”, che “non implicherebbe nessuna preventiva lavorazione per la preparazione del letto di semina, realizzata con specifiche seminatrici a dischi o a falcioni. Il controllo delle infestanti è realizzato con Roundup prima della semina”. Dunque come fattore necessario per garantire questo processo troviamo il mortifero Roundup, diserbante a base di glifosato, colpevole di tumori, malattie neurodegenerative, biocidio e avvelenatore di suoli e falde acquifere, agente di azione preventiva verso qualunque forma di vita considerata “infestante”. Nel ballo delle mistificazioni scrivere semplicemente “qualunque forma di vita” -senza specifiche- sarebbe tristemente più corretto.

Cibo e alimentazione, con tutto quello che comportano, non verranno “solo” messi in mostra, ma verranno anche cucinati, assaggiati, comprati. Al di là dei punti ristoro sparsi tra i padiglioni degli stati nazione, delle multinazionali e degli organismi internazionali, il luogo scelto per effettuare questo esperimento scientifico-sensoriale di massa e per sdoganare questi elementi fondanti l’ideologia tecno-industriale ha un nome e una posizione precisa nell’area dell’evento: il Future Food Distict. Sarà un “supermercato del futuro”, per usare le parole di chi al progetto sta lavorando da tempo: COOP Italia, marchio della grande distribuzione che commissiona direttamente ai suoi fornitori ordini in materia di ricerche sul cibo che poi vende coi suoi brand; Massachussets Institute of Technology di Boston, da decenni luogo votato alla ricerca tecnologica finanziata da apparati militari e industriali; Merieux NutriSciences, multinazionale che lavora e sperimenta ciò che riguarda la sicurezza alimentare, le ricerche su prodotti e il marketing sensoriale legato a pratiche di consumo.
Questo luogo si appresta dunque a essere un ambiente studiato nei minimi dettagli, dove i pensieri, i comportamenti e le scelte delle persone saranno prevedibili e monitorati, indirizzati dal design delle strutture e dalle tecnologie che le irroreranno.
Rendering, comunicati stampa e alcuni video mostrano ciò che dovrebbe accadere in questo Future Food District: consumatori che sperimenteranno -e che a loro volta saranno tracciati nei movimenti e nelle scelte- pratiche di consumo attraverso la cosiddetta “realtà aumentata”, cioè una esperienza dell’ambiente mediata e manipolata da strumenti elettronici quali smartphone, tablet, guanti, auricolari o telecamere che si aggiungono ai sensi biologici e alle informazioni già possedute; in tutto questo gli acquisti verranno effettuati con le immancabili carte di credito o con i telefoni cellulari, interfacciandosi a schermi e a robot e utilizzando carrelli informatizzati e costruiti per diventare “ponti di contatto” con altri consumatori-clienti-turisti tramite tecnologie che ricordano gli strumenti a radio-frequenza RFID in un oceanico “internet delle cose”.
L’uso della “realtà aumentata” è un fenomeno particolarmente pericoloso perché va ad insinuarsi nei processi psicologici e sensoriali dell’individuo. Quella che inizialmente appare come una espansione dell’esperienza ordinaria, in realtà non è altro che una privazione della percezione individuale di ogni senso umano. Il giudizio personale attraverso i nostri sensi -quel poco che ancora rimane per quanto riguarda i prodotti alimentari industriali, colorati e confezionati già all’origine per orientare sensazioni, pensieri e reazioni- nel processo della realtà aumentata verrà quasi completamente annullato per concentrare l’attenzione su un’unica immagine filtrata dai pixel e applicazioni e, più in generale, su rappresentazioni tecnologiche del mondo esterno. Non solo attraverso tablet e smartphone l’individuo non avrà più esperienza dell’odore, della sensazione tattile o del colore reale, ma l’esperienza fornita attraverso il dispositivo elettronico verrà confezionata da esperti di psicologia e marketing che lavorano affiancati all’interno del settore pubblicitario delle corporation. In sintesi, questa è la descrizione di un’esperienza della rappresentazione della realtà attraverso passaggi tecnologici, non della realtà diretta. Una rappresentazione, tra l’altro, su cui l’utente finale non ha modo di indagare e che trova già data, nel senso che le informazioni che vengono convogliate tra le due macchine, nel processo input-output di dati inviati-ricevuti, sono scelte e impacchettate a monte dai produttori stessi. Si ripete quindi la medesima operazione di selezione già in corso sin dalla nascita del cibo inteso come merce da supermercato: così come i prodotti valutati antieconomici o inadatti agli scaffali spariscono e vengono confinati nella marginalità del mercato, allo stesso modo informazioni inadatte alla vendita o alla narrazione scelta dai produttori restano escluse dallo scambio di pacchetti di dati tra macchine.
Sono in atto due fenomeni da non sottovalutare nella loro pervasiva pericolosità: da un lato si delega ad altri -individui o macchine- il piacere, il potere e la responsabilità della conoscenza, dall’altro la diffusione e l’abitudine a questa fruizione della realtà vengono sfruttate da soggetti del mercato per farne operazioni di marketing, che promettono di godere di forme di esperienza e di apprendimento attraverso l’atto dell’acquisto.
Questo modello in miniatura di un mondo soggiogato alle macchine e di una quotidianità brutalizzata chiamato Future Food District, per come lo prospettano istituzioni e partner commerciali riuniti in EXPO2015 assolve un altro degli obiettivi degli organizzatori: esso è infatti un elemento fondamentale per la politica economica scritta dal Comune di Milano e da Regione Lombardia da una decina di anni che, usandolo come trampolino di lancio e adattandolo al contesto metropolitano, vogliono fare della città una smart city da vendere alle prossime fiere del turismo, ovvero uno spazio in cui vivere e praticare la “realtà aumentata”. Il risultato di queste scelte sarà una città pensata per turisti, un’area urbana disegnata per esperienze fugaci mediate da una tecnologia sempre più invasiva e un ambiente asservito alle esigenze della comunicazione informatica.
Tutto questo è particolarmente indigesto per chiunque sia consapevole delle conseguenze che questa mole di portati tecnologici applicati alla vita e all’ambiente porta con sé: maggiore potere in mano a multinazionali e lobby che indirizzano costantemente scelte politico-istituzionali e che regolano ambiti e spazi tra pubblico e privato; maggiore presenza di meccanismi di delega a un corpo sociale formato da autoproclamati “esperti”, scienziati, imprenditori e azionisti a scapito di tutta una serie di pratiche di libertà e saperi; maggiore sfruttamento della vita, in tutte le sue forme, intesa come fenomeno su cui sperimentare in modo indiscriminato, appellandosi all’idea di scienza neutra e al servizio del progresso; maggiore legittimità data a pratiche di ricerca, estrazione e produzione che, quando sdoganate, allargano le loro aree d’influenza e di concreta presenza ovunque, dal pasto quotidiano nelle nostre case alle aree non civilizzate, integre e selvagge della terra e dei mari.

Toccando temi quali “produzione alimentare, esperienze di consumo, tecnologie applicate e risorse energetiche”,  EXPO2015 si posiziona come fenomeno-principe della green-economy, cioè di quell’economia neoliberista che assorbe i concetti di “limite” ed “esauribilità” applicandoli a quelle che considera risorse -acqua, minerali, foreste, esseri viventi e habitat in genere- per riutilizzarli nei laboratori, nel marketing, nella geopolitica nazionale e internazionale. Un sistema che deve dichiararsi “sostenibile” per provare a nascondere quanto non lo sia e per spingere verso una millantata “rivoluzione verde”. E’ in questa area semantica che trova adeguata collocazione la seconda metà del claim “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, anche se finora ha faticato a posizionarsi nella retorica dell’evento alla stessa altezza della questione alimentare, nonostante la massiccia presenza di capitali elargiti da ENEL ed ENI; altrettanto vero è però che nell’economia quotidiana di molte persone i discorsi sul cibo sono meno importanti dei discorsi sulle fonti energetiche per la casa, per le proprie appendici tecnologiche e per la propria autovettura. Seguendo quest’ultimo ragionamento -causa ed effetto di supposti bisogni individuali- come un grimaldello per camuffare le necessità di un intero sistema tecno-industriale sempre più energivoro e incatenante come quello in cui viviamo, i settori biotecnologici e i loro finanziatori pubblici e privati stanno investendo enormi quantità di denaro in ricerche sulla possibilità di utilizzare fonti che non siano di provenienza fossile, ma provengano dall’azione di microrganismi ed enzimi sviluppati in laboratorio e da alghe e scarti di origine vegetale, cioè sulle cosiddette biomasse, ettari e quintali di colture coltivati ad hoc, estirpati o accaparrati come prodotti di scarto. E poiché nel processo che lega biomasse e bioraffinerie è basilare avere delle terre a disposizione su cui coltivare, si aprono ulteriori foschi scenari che parlano di deforestazione, di accaparramento di terre, di nuovi latifondi, di implosione sociale, di esodi di massa, di evaporazione di culture e legami. Il mondo già violentato da secoli di antropizzazione non si accorge di quanto accade altrove se non nelle forme delle migrazioni e nelle persone dei migranti e lo fa perlopiù attraverso mass-media che ulteriormente sviliscono e distorcono la realtà dei fatti, soffiando sul fuoco della paura, della sicurezza, del razzismo.
La composizione del nostro corpo e le necessità di natura portano il mercato a tematizzare anche l’acqua nei termini di energia, di risorsa esauribile e di “carburante della vita”, cercando di accaparrarsi in modo privatistico questo bene primario e bisogno reale. Dunque non meraviglia, ma neppure deve trovarci impreparati, che l’apparato tecnologico in formazione provi a spingere questa “rivoluzione verde” anche in questo senso: sono molte le multinazionali che lavorano sullo sviluppo di filtri biotech e nanotech con l’intento di presentare nuovi trovati della tecnica come necessari al mantenimento degli standard di utilizzo, depurazione e bevibilità dell’acqua. Un processo che, così descritto, mostra ancora una volta come non ci si curi di modificare alla radice il processo agricolo e tecno-industriale che inquina e corrompe le acque e l’ambiente tutto; il sistema si auto-assolve e lascia ai medesimi soggetti la possibilità di elencare i problemi di oggi, proporre le soluzioni e immetterle nel mercato domani.
Anche in tema di “energia per la vita”, qualunque sia la sua forma e i suoi sbocchi, la politica comunicativa e il disegno di formazione sociale ascritti a questa impossibile rivoluzione tecno-eco-sostenibile sono pericolosissimi e inducono a pensare come anche la partita dell’energia atomica e del nucleare -utilizzando nuovi materiali nano e biotech in lavorazione, proiettandosi oltre EXPO2015- sia potenzialmente riconducibile in un alveo di contrattazione e riaccensione.

L’affacciarsi di questo nuovo apparato, tanto ideologico quando concreto, ricorda l’azione manipolatrice dalle multinazionali dell’agro-business e della chimica applicata all’agricoltura nel corso del ‘900; questa, così come fu per quella, ha bisogno di parole d’ordine e scenari in cui mettere i suoi personaggi affinché siano credibili e legittimati ad agire. Un fenomeno che sta già accadendo: EXPO2015 si comporta come un dispositivo che dà indicazioni su precisi ordini del discorso pubblico, detta un’agenda, indirizza i dibattiti, si fa autore di racconti e mitologie e si presta a ospitare la genesi di nuove tradizioni. Un facile controllo delle cronache ci mostrerebbe come, a seconda dei periodi e dell’umore dell’opinione pubblica, i responsabili dell’evento milanese abbiano cercato di venderlo con uno sbandierato senso di orgoglio nazionalista come volano del rilancio dell’economia e dell’occupazione, così come il luogo in cui affrontare e risolvere i problemi della fame nel mondo. Hanno poi venduto e imposto i temi dell’evento su tutti i media allineati, che mentre agitano lo spettro del mostro terrorista chiamano ad un incremento della sicurezza affidato a Seles EX di Finmeccanica.
Un gigantesco e invasivo impianto ideologico i cui ambiti hanno significati, pratiche e immagini perlopiù nascosti dietro il velo della propaganda: il concetto del “benessere animale”, che parte dalla selezione genetica e arriva alle vetrine con pezzi di corpi in vendita, dentro confezioni di plastica ingegnerizzata e biotech, è un esempio di come funziona questo dispositivo.
EXPO2015 rappresenta infatti un passo ulteriore nella ricerca di legittimazione dello sfruttamento e della morte degli animali e di quelle pratiche speciste e antropocentriche che permettono la trasformazione delle loro indicibili sofferenze sotto la semplice e acritica definizione di “cibo”. Non per nulla la manifestazione internazionale degli orrori e delle crudeltà chiamata MeatTech, fiera dell’industria della carne promossa dall’Associazione industriali della carne e dei salumi e AssoFoodTec, si svolgerà accanto all’area dell’evento nel mese di maggio 2015 con i favori e la partnership di EXPO2015.
Dopo aver annusato le ultime tendenze di una fetta di consumatori sempre più consistente, che sembra interessarsi dal punto di vista etico, ambientalista e salutistico agli animali e ai derivati che fanno parte della propria dieta, le corporation hanno intrapreso una massiccia campagna marketing per adescare e indirizzare secondo i propri binari questi interessi emergenti. Quella che poteva iniziare ad affiorare come critica verso allevamenti e produzione alimentare industriale è stata prontamente intercettata, compresa e ritrasformata a vantaggio del proprio mercato. Una nuova frontiera del marketing si è quindi aperta: quella dell’animal welfare, ovvero il benessere animale.
Slow Food, Coop Italia e Eataly, partner che sostanziano il tema principale dell’evento, si sono impegnati molto per coprire la solida struttura dello sfruttamento animale su cui basano i propri guadagni e per rassicurare il consumatore della propria bontà e cura verso quei pezzi di animali in vendita sui loro banconi.
L’operazione è semplice: l’azienda si vende come attenta e compassionevole nei confronti degli animali rinchiusi nei propri allevamenti apportando minime modifiche al sistema di riproduzione e morte che ha sempre applicato al proprio business, senza però mettere in nessun dubbio l’eticità e gli interessi del sistema di sfruttamento. Da qui può iniziare una operazione retorica verso il corpo-consumatori per ricostruire un volto dell’azienda “buono, pulito e giusto” -per riprendere l’ipocrisia delle parole con cui si presenta Slow Food- e in questo modo riposizionarsi sul mercato con un valore aggiunto basato su sfruttamento e morte raccontati come elementi di una vita pubblicizzata come felice; dall’altro lato l’acquirente taciterà i suoi dubbi, si sentirà rassicurato nelle proprie pratiche alimentari e senza alcuno sforzo potrà continuare col medesimo stile di vita, sentendosi sollevato dal senso di colpa e al tempo stesso sentendosi fiero di aver finanziato un’azienda che alleva i propri animali all’interno di lager etici. Un’operazione che fa comodo a tutti gli attori del mercato e che si rivela molto insidiosa perché va a mascherare attraverso un mistificatorio apparato narrativo la realtà della condizione dello sfruttamento animale.
Dopo aver ben studiato i testi, le istanze e le parole chiave del linguaggio animalista e ambientalista, le aziende hanno iniziato ad inserirli nelle loro campagne di promozione e nei loro spot, presentandosi come amanti dei loro animali schiavi per rassicurare questa nuova fetta di mercato dal punto di vista dell’etica, della salute e del rispetto del pianeta.
Comunicati stampa, carte dei valori, statuti e pubblicità presentano ossimori di concetti in cui si parla di libertà per animali schiavi, di benessere per individui che vengono sgozzati al macello, di vita degna di essere vissuta per chi ha respirato per la prima volta l’aria fuori dai lager degli allevamenti solo nell’attimo in cui scendevano dai camion che li portava all’interno del mattatoio. Se da un lato, in alcune dichiarazioni sembra riconoscersi lo status di soggetti e individui ad animali rinchiusi e mercificati, utilizzando espressioni come “esseri senzienti”, “vita” e “bisogni etologici”, dall’altro all’interno della stessa frase o dello stesso discorso si torna a considerarli come “prodotti” e “ingredienti” in un continuo processo di reificazione.
Un pericolo ancora più sottile che risemantizza parole a cui viene fatto perdere il proprio significato primario in modo che possano essere usate all’interno di contesti opposti.
Un intervento che anestetizza prontamente il senso critico del consumatore e che pericolosamente cancella sbarre e mattatoi dai pensieri levandoli dalla vista dell’acquirente, attraverso la costruzione di una tradizione e di un immaginario di animali che razzolano nei prati e si rincorrono felici. Bastano piccoli accorgimenti nel linguaggio usato, nelle immagini delle pubblicità e nel mostrare bollini e premi conferiti da pseudo associazioni animaliste conniventi, che il pezzo di animale presentato nel bancone riesce a rassicurare il consumatore sulla sua vita felice se aveva dubbi etici, sulla sua salubrità se le preoccupazioni erano di tipo salutistico, e sul totale rispetto del pianeta se nutriva preoccupazioni sulla produzione di gas serra durante la sua breve vita.
Tutto questo viene amplificato da premi e sostegni di associazioni come Compassion In World Farming (CIWF), che elargiscono premi alle aziende che rispondono ai loro parametri arbitrari, in cui, tra l’altro, si parla di animali in chilogrammi e nemmeno in numero di individui.
Basta allargare di qualche centimetro la gabbia delle galline ovaiole o di mettere un posatoio nel capannone dei polli che finiranno congelati e le corporation del dolore potranno vantare tutto l’amore per i loro schiavi mostrandolo sul cellophane che impacchetta pezzi e corpi di animali e i prodotti delle loro sofferenze.
L’arroganza di questo mercato delle certificazioni e dell’animal welfare può essere racchiusa in una frase beffarda in cui CIWF enfatizza il proprio lavoro a favore degli animali in cui dichiara che i veri vincitori dei premi non sono le aziende che li ricevono, ma gli oltre 337 milioni di animali da allevamento che traggono beneficio dalle modifiche da loro suggerite per adeguarsi ai loro ridicoli parametri.

Come sappiamo gli interessi di mercato e quelli politici vanno a braccetto, dunque non possiamo non evidenziare come una esposizione universale come EXPO2015 appartenga alla categoria “grandi eventi” -come un’Olimpiade o un Mondiale sportivo- posizionandosi come fiore all’occhiello dell’economia degli eventi e del turismo; questo fa sì che gli appetiti di persone e società che lavorano con bandi, fondi pubblici, infrastrutture, urbanistica e consulenze possano scatenarsi. E, parallelamente, possa scatenarsi la ricerca di visibilità e consenso -e interessi privati- da parte dei soggetti istituzionali che garantiscono a un evento come EXPO2015 di realizzarsi. Ognuno ha il proprio corpo sociale di riferimento: chi il corpo-consumatori da rassicurare e sollecitare, chi il corpo-elettorale a cui chiedere consenso e voti dopo essersi autodichiarati “politici all’altezza della gestione della crisi”. Sarà per questo che politici di ogni colore fanno a gara per ingraziarsi i settori più trendy del momento. Gli sforzi affinché questi due corpi sociali non smettano di agire secondo la loro principale funzione sono incalcolabili e continui.
La classe politica ha usato e sta usando EXPO2015 anche per altre finalità. Due ci sembrano le più evidenti: un utilizzo del grande evento come laboratorio in cui sperimentare normative di governo del territorio che traggono legittimità da situazioni valutate strumentalmente come emergenziali ed eccezionali e prevedere una estensione nel tempo e nello spazio di quei “poteri speciali” fino ad ora conferiti a una singola carica o a un soggetto terzo posizionato arbitrariamente tra istituzioni e cittadinanza; un utilizzo del grande evento per riscrivere le politiche economiche e occupazionali dei prossimi anni, basate con un evidente salto qualitativo e quantitativo rispetto al passato sempre più su logistica e turismo, infrastrutture e trasformazioni territoriali, cooperative e bracciantato. Due finalità che ritroviamo inserite con vigore nell’impianto ideologico dello “Sblocca Italia” e del Jobs Act.
In tutto questo brusìo di dichiarazioni, artifici retorici e sfilate televisive c’è sempre stata una promessa più volte esplicitata dai portavoce dell’evento: che questa grande narrazione venga scritta a più mani -asserendo di tener conto in modo concertativo di ogni parere, dalle multinazionali alle singole famiglie contadine, dalle Università partner al più giovane degli alunni arrivato in gita scolastica- perché “ne va del futuro di tutte e tutti” come viene spesso dichiarato.

In questo clima di concertazione e di “occasione da non perdere” sono decine le ONG e le Onlus dell’ambientalismo, della cooperazione e del lavoro sociale a essersi fatte cooptare dentro l’evento sotto la sigla “Expo dei popoli”, un aggregato di realtà che in un manifesto di diverse pagine fa largo uso dei termini “sostenibilità”, “efficienza” e “diritti” appellandosi a Nazioni Unite e organismi internazionali, ma che non citano mai -né dunque condannano- OGM o agricoltura di sintesi, né parlano di semi o di autonomia e indipendenza contadina. Un lapsus o un’ammissione di realtà: se parlassero di indipendenza contadina anche il loro ruolo rischierebbe di saltare.
Con “Expo dei popoli” il grande evento ottiene in questo modo una più ampia legittimità agli occhi di milioni di persone che, se si indignano contro McDonald’s o altre multinazionali presenti, si rassicurano se si parla di ARCI, Legambiente, WWF, manitese, Oxfam, altromercato o simili. Dal canto loro le realtà dentro “Expo dei popoli” ottengono, più che “portare una voce critica dentro l’evento” come dichiarano in modo strumentale, la possibilità di stare accanto a soggetti economici e pubblici coi quali stipulare contratti di partenariato o accordi di vario tipo. E più EXPO2015 perde pezzi del suo racconto di sviluppo e di rilancio economico e più costringe la popolazione a scontrarsi con la concreta quotidianità che dall’evento stesso deriva, fatta di “disagi controlli indagini ritardi spreco di denaro pubblico spartizione di poltrone”, più diventa di fondamentale importanza la presenza di soggetti come quelli riuniti in “Expo dei popoli” ai fini della tenuta del consenso, della curiosità e della predisposizione all’acquisto dei biglietti d’ingresso al grande evento: sono questi soggetti infatti che potrebbero vantare un’aura di credibilità e autorevolezza ancora spendibile socialmente, almeno tra i loro dipendenti, volontari e simpatizzanti, e tra coloro che ne condividono i valori: questa aura, riverberandosi su EXPO2015, genera un subdolo e corresponsabile processo di legittimazione del grande evento. E di conseguenza su tutti i portati nocivi che esso veicola -tra cui OGM, biotech e nanotech- che restano tra i principali e al contempo i meno considerati anche da molti soggetti critici all’esposizione.

Un dispositivo che non può sedimentarsi né sostanziarsi senza l’utilizzo di programmi di formazione ed educazione sociale; per questo a tale processo partecipano le scuole, le Università e studiosi di ogni luogo che hanno definito contratti commerciali e di consulenza con la manifestazione milanese.
Un aspetto pericoloso, sottile e viscosamente inserito all’interno delle istituzioni educative sono i progetti pluriennali di EXPO2015 che ha permesso alle multinazionali sue partner di entrare all’interno della Scuola Pubblica.
EXPO2015 ha aperto il varco ad alcune corporation per salire in cattedra con il proprio brand e la propria visione del mondo mercificato attraverso convenzioni con il Ministero dell’Istruzione e progetti scolastici inseriti all’interno dell’orario disciplinare.
Una costruzione del consumatore del futuro attraverso un vero e proprio imprinting su giovani alunni col proprio marchio, veicolato per l’occasione dagli stessi insegnanti con il contributo dei genitori che approvano il progetto e che abdicano al proprio ruolo educativo per assumere quello di testimonial di un prodotto.
Come si potrebbe definire in altro modo la loro nuova funzione, dal momento in cui ritengono di poter far entrare acriticamente informazioni costruite e assemblate da una multinazionale del cibo che utilizza la classe per fare il proprio spot? Uno spot ancora più invasivo rispetto a quelli ordinari, dato che in questo caso si parla dei loro “prodotti” -così come queste aziende definiscono la trasformazione monetizzabile del dolore dei corpi degli animali- sotto una veste scientifica, oggettiva, sostenibile e salvifica per il pianeta.
In modo molto sinistro è proprio nel video della presentazione ufficiale di uno di questi progetti che si vede il subdolo utilizzo del ruolo degli insegnanti per influenzare i ragazzi, dato che, al pari dei genitori, sono qui definiti “le persone di cui si fidano di più”.
Una pratica che da tempo è stata sdoganata negli Stati Uniti, in cui le corporation sponsorizzano diversi progetti scolastici e i presidi li accettano col pretesto dell’atavica mancanza di fondi per l’educazione. Grazie ad EXPO2015 questo può diventare sistema anche in Italia. Un ulteriore spazio pubblico, questa volta la scuola, che viene conquistato riempiendosi di loghi e diventa un fresco catalogo pubblicitario delle aziende rivolto al corpo studentesco.
Per capire l’entità del processo avviato, è necessario entrare un po’ più nel dettaglio di uno dei progetti approvati e che da alcuni anni si trova all’interno delle scuole primarie e secondarie in preparazione dell’evento fieristico; una delle fette più ampie del mercato scolastico se l’è aggiudicata Rio Mare, marchio alimentare della Bolton Group. Questa multinazionale, che da anni basa i propri profitti sullo sfruttamento intensivo di animali marini e terrestri da mettere in scatolette di alluminio e su prodotti inquinanti di chimica di sintesi, è stata incoronata nel ruolo di Sponsor Unico del progetto Best Food Generation, con il pretesto di formare i giovani alunni ad avere un’alimentazione corretta e responsabile.
Dopo aver parlato nei 3 anni precedenti di varietà, scelta e spreco alimentare, quest’anno gli scolaretti e le loro famiglie si impegneranno a comporre ricette a base di tonno Rio Mare per concorrere anche quest’anno a vincere un premio, sbandierato sui giornali dal brand stesso e da EXPO2015, come un’ulteriore occasione per avere visibilità e farsi pubblicità.
Un concorso in cui, in realtà, l’unico vincitore è Rio Mare che si è aggiudicato la possibilità di farsi pubblicità nelle aule delle scuole italiane per questi 4 anni e un ulteriore premio per la sostenibilità d’impresa, proprio per la filantropia specista e l’amore devastante per l’ambiente profusi in questo progetto: “Nutrirsi correttamente per nutrire il pianeta” è uno degli slogan utilizzati per promuovere le lezioni nelle scuole.

Al di là delle imprescindibili considerazioni fatte in precedenza, il progetto appare ancora più impresentabile visto che questa multinazionale basa la propria ricchezza non solo sulla pesca, un’attività che da decenni ha devastato i mari di tutto il globo, ma addirittura su una specie sull’orlo dell’estinzione come è il tonno. Inutile sottolineare in questo passaggio l’ennesima contraddizione di EXPO2015, ma quello che salta agli occhi è come possa entrare nella Scuola Pubblica non solo un brand, ma addirittura la sponsorizzazione di un’abitudine alimentare che ha messo al collasso migliaia di specie marine. Quali informazioni potranno passare sulla condizione disperata dei mari, devastati da decenni dalla pratica dall’overfishing portata avanti da aziende come la stessa che ha scritto e promosso il progetto nella scuola?
Una contraddizione talmente evidente e insostenibile, che sulla pagina del sito di EXPO2015 dedicato ai progetti scolastici si trova un video che parla della pesca al collasso e sconsiglia l’alimentazione attraverso grandi pesci predatori, come appunto il tonno, in quanto “insostenibile” per il pianeta e si fa quindi un ”Elogio dell’acciuga”, che è il titolo del video.
In tutto questo, ancora una volta, l’insegnamento scolastico sottolinea il suo specismo incarnato nei libri e nelle parole.
Il tonno del progetto, deriso ancora una volta nelle sue rappresentazioni antropomorfizzate come un animale sorridente e felice di entrare nella scatoletta, verrà chiamato “ingrediente” e “prodotto”; si parlerà dei suoi valori nutrizionali e delle sue qualità organolettiche e non si aprirà nessuno spazio per le sue sofferenze, per il sangue, per il soffocamento nelle reti insieme ad altre specie che hanno condiviso la sua stessa tragica fine e per la sua specie che viene sterminata nella corsa delle diverse multinazionali della pesca per accaparrarsi gli ultimi esemplari prima che spariscano per sempre.
Senza dilungarsi in altri progetti simili ma neppure tacendoli, per denunciare come la cultura del consumo e la commercializzazione dell’infanzia stiano entrando prepotentemente nella scuola grazie a EXPO2015, un altro intervento che in questo momento si sta svolgendo nelle scuole primarie è dedicato all’acqua ed è targato San Pellegrino, marchio della Nestlé: ne ha promosso tutti gli aspetti, dai video e dalle schede al materiale da lasciare agli alunni e alle famiglie. In ogni sua parte campeggia il marchio San Pellegrino e la sua rassicurante stellina affinché negli anni a venire si crei nei supermercati quella fidelizzazione nata un giorno sui banchi di scuola.

Quanto detto sin qui non può avere solo un fine informativo, seppur importante che sia; quanto detto sin qui deve saper mobilitare una serie di azioni che traggano le mosse da una strategia conflittuale e consapevole circa lo “stato di salute” del problema e circa la galassia di nocività che da esso si propagano, partendo da quelle maggiormente subdole, invisibili e quotidiane. Non possiamo né dobbiamo permetterci di sottostimare le maglie sempre più strette che, usando le giornate milanesi come laboratorio e strumento di lancio, si stenderanno a livello globale su tutti gli ambienti, già antropizzati o ancora inviolati, con un maggior controllo tecnologico, biologico, educativo, burocratico e militare. E se abbiamo compreso che EXPO2015 è una rappresentazione di una trama già in atto, rivendicare e agire forme di conflittualità esclusivamente il giorno di apertura dei cancelli o nei sei mesi della sua formale durata sarà un segnale di vitalità necessario ma insufficiente, comprensione parziale del problema e dunque lotta destinata al fallimento, conseguenza di una incapacità a sganciarsi dall’attuale realtà per immaginarne e crearne una differente. Se l’oggetto-nemico è già in azione nelle sue molteplici forme, altrettanto molteplici e indipendenti dal calendario dovranno essere le risposte e dovranno saper essere anche frutto di una riflessione in materia di autonomia dal sistema vigente e di costruzione di relazioni tessute nella complicità, nella solidarietà e nella prospettiva progettuale di vedere qualcosa e qualcuno -selvaggiamente umano e animale- dentro e oltre le macerie dell’esistente.

Aprile 2015, rondoni in volo

François Kepes razionalizzatore delle macchine viventi – Parte prima

Il numero di giugno 2014 della rivista scientifica francese « Pour la Science » ha intitolato la sua copertina “Reinventare il vivente, quali sfide per la biologia sintetica?” la quale annuncia il dossier [1] dedicato a questa nuova tecnoscienza. L’illustrazione in copertina è rappresentata da una molecola di DNA costituita di circuiti elettronici…

L’articolo più interessante è senz’altro quello del genetista François Képès [2] intitolato “La biologia sintetica: verso un’ingegneria del vivente”.
Ma Francois Képès è, prima di tutto, un ingegnere e, per quel che riguarda la biologia di sintesi, sa ciò che vuole: fare del vivente – per il momento soprattutto i batteri più elementari – la nuova macchina utensile dell’industria biotecnologica.

 Ingegneria razionale
Ricordando che “all’ inizio degli anni sessanta, l’invenzione dei circuiti integrati ha trasformato l’ingegneria elettronica” (frase che ha manifestamente ispirato l’illustrazione della copertina della rivista), tesse l’analogia: “E se una tale combinazione di tecniche e di metodi fossero trasponibili in biologia? Se fosse possibile, anche in biologia, di disporre di una banca di utensili e di regole razionali che, combinate a seconda dei bisogni, aiuterebbero a capire il vivente fabbricandolo o a concepire e produrre secondo richiesta nuove funzioni biologiche che non esistono in natura? Da qualche anno, quest’idea si fa strada tra i biologi. Riuniti sotto il nome di biologia di sintesi, i loro approcci si costruiscono nell’interfaccia tra biologia e ingegneria, con apporti di chimica, di fisica, di matematica e di informatica. Hanno per obiettivo di iniettare nella biologia i principi che fondano ogni ingegneria. Di cosa si tratta? Quali sono le ambizioni della biologia di sintesi? Cosa permette oggi? Quali sono le sue prospettive e i suoi limiti? Queste sono le domande che esamineremo qui. “ (PLS)
Per poi proporre una definizione chiara e precisa: “La biologia di sintesi è l’ingegneria razionale della biologia. In altri termini, essa mira alla concezione razionale e all’ingegneria di sistemi complessi fondati sul vivente o ispirati dal vivente e dotati di funzione assenti in natura.” (PLS)
Per mettere in opera questa « ingegneria razionale », occorrono basi solide: “Cosa significa? Gli ingegneri dei sistemi elettronici o meccanici necessitano di quadri ben stabiliti per gestire la complessità, di utensili affidabili per manipolare gli stati del sistema e di piattaforme di test. La biotecnologia, al contrario, è ancora sprovvista di tali quadri, utensili e piattaforme.”  (PLS)
Ora, come l’aveva già constatato nel 2012 Geneviève Fioraso [3] nel suo Rapporto sulle sfide della biologia di sintesi: “La complessità del vivente: una catena da levare per la biologia di sintesi”. [4] È quindi necessario semplificare tutto ciò, al fine di fare in modo che il vivente, troppo instabile, variabile e imprevedibile, si comporti finalmente come una macchina utensile regolare, affidabile e prevedibile. È su questo che termina il suo articolo: “Una barriera, infine, è la grandezza limite dei circuiti biochimici che riusciamo a costruire. […] Come superare questa soglia per costruire dei circuiti biochimici più complessi e aumentare altrettanto le possibilità della biologia di sintesi? Da una parte, questa soglia è dovuta alla nostra incapacità di concepire un genoma completo. Per aumentare fortemente la grandezza e la complessità dei circuiti, bisognerebbe poter introdurre un numero arbitrario di geni che coopererebbero in modo ottimale seguendo un capitolato degli oneri fissato in anticipo. […]
Alcune équipe si sono così avviate in ricerche mirando a sintetizzare o a ridurre dei genomi completi di organismi unicellulari. È il caso, ad esempio, dell’équipe dell’Istituto J. Craig Venter, a Rockville negli Stati Uniti, e di quella di Fred Blattner, dell’università del Wisconsin, a Madison, per i batteri, o ancora di quella di Jef Boeke e Joël Bader, dell’università Johns Hopkins, a Baltimora, per il lievito. […]
Nella mia équipe, cerchiamo precisamente di sfruttare le costrizioni conosciute dei genomi di micro-organismi per la concezione ab initio di genomi portatori di grandi circuiti di sintesi.” (PLS)
La « concezione ab initio di un genoma » significa in realtà cercare qual’è il “genoma minimo – un genoma che comprenderebbe soltanto i geni necessari al funzionamento della cellula” e che servirebbe quindi da “piattaforma“ alla quale potrebbero essere aggiunte delle “estensioni”, delle “costruzioni genetiche” più o meno complesse sarebbero trapiantate al fine di produrre le molecole o realizzare le funzioni biologiche desiderate.

Rivoluzione industriale
François Képès vuole quindi, con la sua « ingegneria razionale » applicata alla biologia di sintesi, fare ciò che gli ingegneri del XIX secolo hanno realizzato nella concezione delle macchine che sono state il vettore della rivoluzione industriale: standardizzare le misure e le dimensioni per rendere possibile l’intercambiabilità dei pezzi e razionalizzare la concezione delle macchine.
Questo è un aspetto della rivoluzione industriale che è spesso dimenticato: si presenta correntemente l’invenzione della macchina a vapore come l’atto fondatore di questo periodo; e non è certo completamente falso. Perché occorre un motore indipendente dagli elementi naturali [5] per animare in modo regolare e continuo un gran numero di macchine impegnate in una produzione di massa [6]. Ma questa rivoluzione nella produzione riposa prima di tutto sulla generalizzazione dell’uso delle macchine; macchine che devono quindi essere prodotte in grande quantità, in massa, cioè in una maniera che sia essa stessa industriale.
Prima della rivoluzione industriale, tutte le macchine, dalle più semplici alle più complesse (gli orologi e i mulini a vento, per evocare soltanto quelle più diffuse dal XIII secolo al XVIII secolo) erano prodotte in modo artigianale. Un laboratorio non produceva in serie un pezzo per poi farlo assemblare da un altro laboratorio. Un artigiano e i suoi operai fabbricavano loro stessi tutti i pezzi di una macchina e li adeguavano gli uni con gli altri per farla funzionare. Ogni macchina era quindi unica; di conseguenza il pezzo di una macchina non poteva servire a sostituire un pezzo difettoso di un’altra macchina. È soltanto alla fine del XVIII secolo nell’orologeria (industria di lusso all’epoca) che delle dimensioni standardizzate saranno adottate per realizzare gli ingranaggi e le viti, al fine di facilitare una produzione che era ancora totalmente artigianale.
L’idea dell’intercambiabilità dei pezzi di una macchina risale all’invenzione dei caratteri mobili per la tipografia, ma non è mai stata veramente estesa ad altre meccaniche, probabilmente a causa della difficoltà a fondere i metalli altri da quelli duttili (oro, argento, ottone, piombo). All’inizio del XVIII secolo, Guillaume Deschamps propone un fucile di cui i pezzi sono intercambiabili e realizza una dimostrazione davanti al Re di Francia nel 1726 prima di creare una fabbrica che fornirà 12 000 fucili alla marina. Tutti i pezzi di questo fucile sono realizzati da artigiani, ciò che fa dire ad un commentatore: “L’idea di fare convenire tutti i pezzi degli acciarini, gli uni con gli altri, è ingegnosamente immaginata, ma quelli che conoscono l’uso della forgia, sanno che non può formare questi pezzi alla perfezione, che può soltanto disporli e che non è che la lima che li può appropriare al modello, così il tempo impiegato è di gran spesa.”
In altri termini, è difficile e costoso cercare di produrre dei pezzi intercambiabili in modo interamente artigianale, ed è per questo che la consegna alla marina non avrà seguito. [7] Però, il maestro archibugiere Honoré Blanc (1736-1801) nel 1777 propone al Re di Francia e poi allo Stato nato dalla Rivoluzione francese, un nuovo modello di fucile dai pezzi intercambiabili. [8] Per lui, la soluzione risiede nella standardizzazione. In un “regolamento”, precisa le dimensioni di tutti i pezzi del suo nuovo modello.
“L’intercambiabilità implica che la precisione della fabbricazione dei pezzi di un prodotto dato sia tale che il loro montaggio non necessiti nessun aggiustamento finale. Al suo livello, il metodo di Blanc raggiunge quest’ideale: mette a punto delle matrici per sostituire la forgiatura dei pezzi, inventa delle sagome per piallarli e delle macchine perforatrici per lavorarli, fabbrica dei calibri per verificare che i pezzi si aggiustino secondo un margine di tolleranza. Ben che questo processo sia messo in opera con l’aiuto di utensili manuali, l’esecuzione dipende in principio da guide meccaniche. Ogni operaio è obbligato a fare dei pezzi che si aggiustano perfettamente durante il montaggio finale.
Il processo di fabbricazione controlla il lavoro dell’artigiano e, da questo punto di vista, l’aggiustamento finale del prodotto testimonia del rigore con il quale l’ordine sociale è disciplinato. […]
Nel 1777, [il capo dell’artiglieria Jean-Baptiste de] Gribeauval e i suoi sostenitori introducono così non soltanto un nuovo modello di fucile, ma anche nuovi rapporti di inquadramento con gli armaioli [che sono artigiani indipendenti]. Per la prima volta, invece di comprare i prodotti finiti, lo Stato fissa i prezzi dei pezzi staccati che, sottolineiamolo, non sono ancora intercambiabili. I test di qualità sono rinforzati e nuove tecniche di produzione sono introdotte. Honoré Blanc è incaricato di fare in modo che “siano provvisti i diversi utensili e strumenti necessari per assicurare l’uniformità nelle tre manifatture”.”
Ma ciò non si fa senza difficoltà, perché in un primo tempo, la fabbricazione dei pezzi standardizzati è affidata a artigiani qualificati, supervisionati e rigorosamente controllati da ispettori militari: “Poiché il pezzo di un artigiano è accettato soltanto se si aggiusta con quelli dei suoi compagni di laboratorio, si è tentati di interpretare l’obiettività del prodotto fabbricato come il risultato di un insieme di regole sempre più elaborate destinate a soffocare le rivolte potenziali degli artigiani. Quest’obiettività apparente non mette però fine a tutti i conflitti. Per convincersene, basta vedere come la città di Saint-Etienne ha reagito di fronte a questa volontà di razionalizzazione della fabbricazione… […]
[poiché] questa perfezione ha un prezzo. Il numero di platine rifiutati aumenta in modo significativo a partire del 1777, così come la carica di lavoro per i fabbricanti. Gli armaioli aumentano i loro costi. Sono numerosi ad abbandonare la produzione militare a profitto di un mercato civile che, sotto la forte domanda dei rivoluzionari americani, è singolarmente florido. […] Disperato, l’ispettore Agoult decreta che gli armaioli saranno sottomessi alla disciplina militare. Decine tra di loro sono incarcerati con l’accusa di violazione delle regole di procedure di lavoro. Questi uomini non sono né soldati, né operai giornalieri, ma artigiani d’élite. Il consiglio comunale, urtato, prende le loro parti. […]
[Il capo dell’artiglieria Jean-Baptiste de Gribeauval] propone una soluzione tecnica che elimina semplicemente il bisogno di operai qualificati: la fabbricazione di pezzi intercambiabili !”
Ma è solo dopo la Rivoluzione francese che Honoré Blanc si lancia come imprenditore privato nella fabbricazione di fucili dai pezzi standardizzati e intercambiabili, realizzati da una mano d’opera non qualificata: “Grazie ai suoi appoggi all’interno dell’artiglieria, Blanc ottiene diversi favori: riceve una sovvenzione che rappresenta il 27% del suo costo di produzione, è autorizzato ad utilizzare la mano d’opera delle reclute e ottiene bassi tassi di interesse. […] Nel settembre 1797, produce circa 4 000 fucili a platine (tipo di fucile da caccia a un colpo che porta sulle sue placche di metallo amovibile e piane il meccanismo di percussione) a Roanne. Nel 1800, raggiunge gli 11 500. Dopo la sua morte nel 1802, la produzione continua al ritmo di 10 000 fucili all’anno. […] Ma le competenze artigianali rimangono ancora essenziali nel processo di produzione e la fabbrica di Blanc non raggiunge mai la soglia di redditività. I fucili di Roanne sono il 20% più cari di quelli prodotti dalla regione di Saint-Etienne.”
Per questa ragione, e per altri motivi di ordine politico, la manifattura di Honoré Blanc chiede nel 1807. Ed è soltanto negli anni 1850 che l’Europa scopre il sistema americano di fabbricazione dei pezzi intercambiabili, applicato a numerose altre macchine, poiché Honoré Blanc aveva ricevuto nel 1785 la visita di un certo Thomas Jefferson (1743-1826), allora ambasciatore americano in Francia, prima di diventare presidente degli Stati Uniti…

 Che cos’e’ una macchina ?
Questa storia è vecchia di 200 anni, ma contiene già tutti gli aspetti propri allo sviluppo tecnico al suo stadio capitalista e industriale; aspetti che ritroviamo attualmente, come François Képès ne darà più avanti l’illustrazione.
I problemi economici e, in contraccolpo, politici che ha incontrato Honoré Blanc nella realizzazione di pezzi di fucile standardizzati e intercambiabili hanno ugualmente un’origine tecnica che gli storici non sembrano avere percepito.
Se si vogliono produrre in serie dei pezzi metallici tutti identici, secondo un modello, con regolarità, precisione e in modo economico, non ci si deve rivolgere ad artigiani che lavorano a mano, anche se fossero qualificati e abili, piuttosto a una fabbrica attrezzata di macchine utensili pilotate da operai specializzati. Ciò ci sembra, oggi, un’evidenza. Ma quando tali macchine non esistevano, era molto più difficile immaginare di poter servirsene! Detto in un altro modo, prima di buttarsi nella produzione di pezzi standardizzati e intercambiabili, occorreva produrre le macchine utensili capaci di modellarli con la regolarità, la precisione e l’economia che un tale progetto tecnico esigeva.
Al museo delle Arti e Mestieri di Parigi, è esposta una macchina utensile tagliatrice di ingranaggi, lei stessa composta da ingranaggi. La prima macchina tagliatrice di ingranaggi è certamente stata costruita da un artigiano, che ha modellato a mano i suoi ingranaggi e a adeguato i suoi pezzi gli uni con gli altri, come per qualsiasi macchina realizzata a l’epoca. A partire da questo, la produzione di pezzi staccati per costruire ogni tipo di meccaniche ha potuto iniziare.
La produzione di pezzi staccati, standardizzati e intercambiabili implica un nuovo sistema tecnico, totalmente inedito, proprio alla produzione industriale. La macchina utensile, lei stessa costituita di tali pezzi, è l’unica a permetterne la produzione in un modo sufficientemente preciso e regolare per rendere l’insieme valido, sia a livello di funzionamento meccanico che dell’economia della produzione. In realtà, la produzione industriale implica per primo e, prima di tutto, la realizzazione di macchine utensili, base di ogni produzione regolare di oggetti identici.
È dunque possibile distinguere tre principali categorie di macchine (categorie che non sono strettamente ermetiche):

  • Il motore è una macchina primaria, nel senso che è lui che anima tutte le altre macchine; per molto tempo furono gli elementi naturali e sociali: acqua, vento, animali domestici, forza muscolare umana, che non sono per l’esattezza delle macchine ma vengono impiegate come strumenti per una finalità esterna a loro stessi.
  • La macchina utensile è una macchina intermedia, nel senso che è capace di modellare con precisione e regolarità dei pezzi standardizzati e intercambiabili per altre macchine, o di partecipare alla realizzazione di prodotti finiti.
  • Le macchine terminali sono dei prodotti finiti, operazionali e efficaci, pronte a realizzare la funzione specializzata per la quale l’«ingegneria razionale» le ha concepite: possono essere un fucile, un’automobile, una fabbrica automatizzata di produzione di panelli di particelle, una centrale nucleare (lei stessa motore per altre macchine), ecc.

Abbiamo segnalato che gli esseri viventi non sono per l’esattezza delle macchine. Pur tuttavia, François Képès, lungo tutto il suo articolo, fa come se non soltanto i batteri fossero impiegati come strumenti [9] ma, soprattutto, come se potessero essere effettivamente ridotti ad essere soltanto delle macchine e, più particolarmente, delle macchine utensili in un processo di produzione industriale di molecole. Si tratta di un’ambizione tutta nuova che il nostro ingegnere ci fa intravedere ma che non cerca neanche per un instante di esaminare da più vicino.
Perché che cos’è un essere vivente? Che cos’è una macchina? Ecco delle domande che occorrerebbe porsi al fine di sapere se è possibile trasformare il primo nella seconda, e a quale prezzo.[10] Ma queste domande troppo filosofiche non sembrano interessare il nostro ingegnere che riapprova l’ignoranza e l’incoscienza di tutta la biologia moderna per quanto riguarda la natura degli esseri viventi: per questa scienza -che non sa cosa è un essere vivente e che non vuole saperlo– gli esseri viventi sono delle macchine biochimiche molto complesse; per la biologia sintetica, sono delle macchine troppo complesse, che bisogna quindi semplificare.
Una macchina è costituita da diversi elementi che hanno dei rapporti fissi e determinati una volta per tutte in modo da trasformare i flussi di materia che la attraversano. Cioè quasi l’opposto di un essere vivente, costituito da diversi elementi che hanno dei rapporti che cambiano e che variano in modo da potere non soltanto trasformare ma, soprattutto, da poter incorporarsi a essi stessi, assimilare la materia che attingono nell’ambiente.
La biologia di sintesi vorrebbe così realizzare la quadratura del cerchio: conservare la regolarità e la prevedibilità della macchina avendo in più le capacità di trasformazione e di assimilazione del vivente. La vita sarebbe il motore di questi “sistemi viventi”, la molecola di DNA la macchina utensile di questa “fabbrica biochimica” che è la cellula, e le molecole di interesse industriale il loro prodotto più o meno finito.
La famosa reinvenzione del vivente che vantano è quindi, in realtà, la sua semplificazione, il suo impoverimento, la sua disinvenzione attraverso la sua riduzione –necessariamente mortifera- al funzionamento di una stupida e disciplinata macchina; cioè non a qualcosa di nuovo, ma soltanto a ciò che conosciamo già e incontriamo ovunque nella società capitalista e industriale.

 Standardizzazione industriale
Nel suo articolo, François Képès dettaglia ciò che bisognerebbe razionalizzare e standardizzare per trasformare gli esseri viventi in sistemi viventi secondo i “principi fondatori di ogni ingegneria”. Molto chiaramente, si tratta di creare un nuovo sistema tecnico proprio alla biologia, così trasformata completamente in una tecno scienza.

  • Il “disaccoppiamento della concezione e della fabbricazione” (PLS)

Per il momento, la fabbricazione e la messa a punto dei “circuiti metabolici” –il processo tramite il quale i geni inseriti in un batterio producono poi una molecola desiderata- rimane largamente empirico. I biotecnologi [11] procedono per prove e correzione di errori fino ad ottenere il risultato desiderato.
François Képès ci dice che questo è dovuto a “l’imperfezione dei modelli” applicati a batteri ancora troppo diversificati, come lo vedremo più in avanti. Detto in un altro modo, contrariamente a ciò che gli ingegneri fanno con le macchine ordinarie a partire dalle loro conoscenze delle proprietà fisiche della materia, per far produrre ad un batterio una molecola data, non esiste un modello teorico affidabile che potrebbe indicare, anche vagamente, il modo in cui operare.
La biologia moderna, non sapendo cosa è un essere vivente- qual è la sua specificità in rapporto agli oggetti inanimati che studia la fisica e in confronto alle macchine che questa stessa fisica permette di costruire-, non ha, logicamente, nessun tipo di teoria su ciò che è l’organismo, il come e il perché del suo funzionamento. Le manipolazioni di laboratorio sono quindi in gran parte del bricolage: quando funziona, è per fortuna e, quando non funziona, non si sa nemmeno il perché; i biotecnologi avanzano quindi a tentoni verso ciò che pretendono però essere la loro “padronanza del vivente”.

  • L’”indipendenza del contesto o ortogonalità” (PLS).

Si tratta qui molto chiaramente dell’idea d’intercambiabilità (“modularità” secondo FK) dei “mattoni” genetici (biobricks) impiegati per realizzare i “circuiti metabolici”.
“Nella cellula vivente, le interazioni dei componenti sintetici e cellulari sono difficili da predire o caratterizzare. Un circuito ben caratterizzato in un batterio funzionerà diversamente in un altro ceppo, anche se è simile. […]
La fabbricazione di un oggetto fondato sulla biologia, o ispirata da essa, diventa quindi un processo gerarchico di montaggio di moduli. Idealmente, le proprietà di ogni modulo non dovrebbe dipendere dal circuito sintetico in cui è immerso.” (PLS)
Uno dei caratteri distintivi degli esseri viventi in confronto alle macchine, è la loro individualità: gli esseri viventi non sono tutti identici, nessuno reagisce esattamente nello stesso modo a una situazione per il fatto della loro storia vissuta. Eppure, anche alla scala dei batteri, quest’individualità è un ostacolo per la biologia sintetica.

  • La “standardizzazione dei componenti” (PLS).

Questa standardizzazione è il seguito logico dell’intercambiabilità: è necessaria al fine di automatizzare l’insieme del processo di produzione delle costruzioni biotecnologiche, cioè sia la loro messa a punto nei laboratori sia la loro produzione in scala industriale:
“Si tratta di standardizzare non soltanto i componenti, ma anche i dispositivi e la produzione biologica, senza dimenticare i sistemi ibridi che combinano nanobiologia e nanoelettronica.” (PLS)
In effetti, François Képès deplora amaramente il fatto che la mano dell’uomo mette ancora i piedi nella biologia sintetica: “Oggi, è ancora lo specialista umano che stabilisce questo nodo tra risultati sperimentali e concepimento dell’esperimento seguente. […] Malgrado qualche passo avanti, il concepimento e la fabbricazione di circuiti biochimici sintetici che realizzano le funzionalità desiderate rimane un artigianato specializzato. Come per ogni rivoluzione industriale, la situazione cambierà soltanto quando questa base concettuale e metodologica lascerà la torre d’avorio di alcuni ricercatori molto specializzati per diventare accessibile a numerosi ingegneri.”(PLS)
Sogna il giorno in cui un ingegnere riuscirà a concepire un “circuito metabollico” senza sporcarsi le mani, rimanendo davanti al suo schermo di computer: “Ad esempio, per caratterizzare i suoi micro organismi, [la start-up americana] Gingko Bioworks ha automatizzato il processo completo –una scommessa, in quanto il processo fa intervenire una successione di robot incompatibili. […] Il risultato è un numero ridotto di errori e un migliore controllo della qualità.
Eppure, importanti profitti sono prevedibili se fosse sviluppato un ambiente di concepimento che non soltanto fornirebbe un’interfaccia di alto livello che comanda i robot biomolecolari, ma anche analizzerebbe automaticamente i risultati delle esperienze e la loro riproducibilità. Questa analisi servirebbe a migliorare il prossimo piano sperimentale, anch’esso numerizzato.” (PLS)
Questa standardizzazione industriale del processo di produzione implica ugualmente numerosi progressi nella “modellizzazione matematico-informatica” del comportamento dei sistemi viventi affinché  la concezione teorica dei “circuiti metabolici” possa diventare effettiva.  Qui come altrove nella scienza attuale, ciò che si intende con teoria non ha nulla a vedere con una comprensione dei meccanismi propri al vivente.
L’articolo che precede quello di François Képès in questo dossier ce lo ricordava: si tratta di compilare tutti gli articoli scientifici sui processi fisico-chimici all’opera nella cellula vivente al fine di elaborare un modello matematico che permette una simulazione informatica del suo comportamento. [12]

 Non capire niente, ma asservire
La modellizzazione informatica è l’unico approccio teorico di cui oggi vogliono sentire parlare i scientifici, qualunque sia il loro campo: quella che permette di calcolare e di prevedere. Evita di dover pensare il proprio oggetto nella sua specificità e, quindi, di capire veramente ciò che è e, in seguito, ciò che se ne fa.
Eppure, i nostri biotecnologi non mancano mai di sottolineare che l’approccio che promuove la biologia sintetica “aiuterebbe a capire il vivente fabbricandolo” (PLS): “Costruire un sistema biologico che funziona come previsto è un modo di assicurarsi che si sono compresi i fenomeni sottostanti. In questo senso, la biologia sintetica permette di fare progredire le conoscenze sul mondo vivente.” (PLS)
Ma come sperare di capire qualcosa negando l’esistenza, sopprimendo, distruggendo proprio ciò che si tratta appunto di capire? perché ridurre il vivente a una macchina, è farne qualcosa che conosciamo: qualcosa che funziona “come previsto”, che produce l’effetto che ci si aspetta; e nient’altro. Allorchè ciò che si tratta di capire nel vivente, è precisamente il suo carattere dinamico, imprevedibile e capriccioso; in breve, ciò di cui non sarà mai provvista una macchina, ossia la sua attività autonoma.
Se i biotecnologi come François Képès riusciranno un giorno a fabbricare un “sistema vivente” secondo “i principi fondamentali dell’ingegneria razionale”, non è ad una migliore conoscenza e comprensione del “mondo vivente” che giungeranno, poiché fanno di tutto per semplificarlo, impoverirlo e ridurlo ad una macchina, ma soltanto ad un miglior modo di asservirlo agli imperativi del rendimento industriale e della redditività economica.
In realtà, l’idea che “si capisce meglio ciò che si sa fabbricare” viene dal metodo delle scienze, sviluppato da e per la fisica, lo studio degli oggetti considerati come inerti e morti, e del suo legame molto stretto con la tecnica. Questo metodo ha in effetti come scopo di scoprire le regolarità nei fenomeni della natura, e per questo costruisce dei dispositivi sperimentali che con la misura delle reazioni che comportano e l’analisi matematica permettono di enunciare, in seguito, delle “leggi della natura”.
Ma l’applicazione del metodo scientifico allo studio del vivente genera “l’inadeguatezza cronica dell’essere vivente al suo quadro di investigazione” [13]. Il metodo delle scienze raggiunge qui i suoi limiti: l’essere vivente è troppo complesso e turbolento in tutte le sue innumerevoli forme e manifestazioni per un metodo che reclama l’isolamento e la stabilità dell’oggetto, la riproducibilità delle esperienze, la quantificazione e la matematizzazione dei risultati come condizione di studio e di conoscenza. Occorrerebbe un metodo adeguato allo strano oggetto della biologia che sono gli esseri viventi, ossia un metodo sviluppato a partire da una conoscenza della loro specificità in confronto agli oggetti inanimati studiati dalla fisica e in confronto alle macchine che questa stessa fisica permette di costruire. Ne siamo molto lontani.
Perché la biologia sintetica non cerca assolutamente di capire il vivente così come esiste da 3,5 miliardi di anni, tutto l’articolo di François Képès dimostra bene che si tratta piuttosto di costringerlo a rientrare nei ranghi delle macchine al fine di farlo marciare al passo dell’apparecchio di produzione industriale e dell’economia capitalista.
Quest’idea che “si capisce meglio ciò che si sa fabbricare” è quindi certamente del tutto valida per le macchine ordinarie che sono costruite secondo i principi della fisica, ma occorre ricordare che è stata enunciata in un’epoca in cui lo studioso spesso era lui stesso a volte un po’ artigiano, sia perché le sue ricerche erano condotte da amatore illuminato sia perché era spesso capace di costruire lui stesso i suoi dispositivi sperimentali e le sue macchine, allora molto più semplici e rudimentali di quelle presenti oggi nei laboratori. Era all’epoca in cui la scienza non era ancora della “big science” né una tecnoscienza, cioè un’epoca passata…
È particolarmente comico vedere quest’idea ripresa oggi da un François Képès che esalta un’automatizzazione avanzata della messa a punto dei “circuiti metabolici” e della produzione delle sostanze: quando i biotecnici sono dietro ai loro schermi e che le macchine automatiche fanno tutto il lavoro, cosa rimane alla persona comune in materia di “fabbricazione” e di “comprensione”? Ovviamente niente.
Le macchine, come diceva Marx, sono del « lavoro morto”, vale a dire della conoscenza fissata- nel senso fotografico del termine- nella sistemazione della materia; messa in movimento, questa materia mette in opera questo sapere, ma non lo trasmette a quelli che ne usano i risultati: chi capisce i principi fisici e biologici in gioco quando accende la luce elettrica, usa l’automobile, mangia un piatto surgelato o assorbe una medicina?
L’industria fabbrica sempre di più le cose che ci circondano, e non capiamo meglio questo mondo, tutt’al contrario. Se c’è qualcuno che “capisce fabbricando”, sono le aziende industriali che capiscono ogni giorno meglio come renderci indispensabili e necessari i prodotti che fabbricano facendo sparire le condizioni che prima permettevano di farne a meno. Lontano dal renderci “come maestri e possessori della natura”, la conoscenza scientifica oggi partecipa allo spossessamento sempre più avanzato degli individui a beneficio delle potenze dello Stato, del Mercato e dell’Industria.

 Note:

[1] Pour la science n°440, juin 2014. Questo dossier è composto da tre articoli. Le citazioni tratte dall’articolo di François Képès sono riferite con: (PLS)                .
[2] « François Képès è direttore di ricerca presso l’istituto di Biologia dei Sistemi e di Sintesi (ISSB, Genopole, UEVE, CNRS) e direttore del Programma d’epigenomica a Genopole, a Évry. È professore invitato permanente al Collegio Imperiale di Londra.»        
È anche l’autore dell’opuscolo di 64 pagine, che fa nella volgarizzazione abbastanza volgare, La biologie de synthèse plus forte que la nature? ed. Le Pommier, 2011. Il suo articolo per Pour la science riprende e completa alcuni punti di questo opuscolo.    
[3] Prima di diventare ministro della Ricerca e dell’Insegnamento Superiore per il governo di François Hollande. Si veda il suo ritratto al vetriolo in quanto deputata e aggiunta alla città di Grenoble “Geneviève Fioraso™, l’élue augmentée” in Le Postillon, journal de Grenoble et de sa cuvette n°14, février-mars 2012  .
[4] È il titolo di un capitolo di questo rapporto, realizzato a partire da audizioni pubbliche organizzate dall’Ufficio Parlamentare di Valutazione delle Scelte Scientifiche e Tecnologiche (OPECST) il 4 maggio 2012. Documento in due volumi disponibili in Internet.       
[5] Come possono esserlo il debito dell’acqua di un fiume, il vento o gli animali per i mulini; cf., Chris de Decker, “Des fabriques mues par le vent: histoire (et avenir) des moulins à vent”, Low-Tech Magazine, octobre 2009.  
[6] Produzione di massa che implica anche, all’interno della fabbrica, una disciplina del lavoro che piega la manodopera al ritmo delle macchine, non dimentichiamolo.
[7] Jean-Louis Peaucelle, “Du concept d’interchangeabilité à sa réalisation, le fusil des XVIIIe et XIXe siècles”, revue Gérer et comprendre n°80, juin 2005 (articolo disponible in Internet).
[8] Ken Adler, “L’amnésie des armuriers français, comment une innovation technologique majeure peut-elle tomber dans l’oubli ?”, magazine La Recherche n°308, avril 1998. Le citazioni che seguono sono tratte da questo articolo    
[9] Ciò che è già il caso da millenni nella trasformazione di numerosi alimenti da parte dell’uomo: pane, formaggio, birra, ecc.            
[10] Per una riposta a queste domande, si veda: Bertrand Louart, Le vivant, la machine et l’homme, le diagnostic historique de la biologie moderne par André Pichot et ses perspectives pour la critique de la société industrielle, 2013 (64 p.). Opuscolo disponibile su richeista e in Internet.
[11] Ragionevolmente non si possono qualificare come biologi questi “scientifici” che spesso si presentano essi stessi come dei tecnici o degli ingegneri del vivente.            
[12] Markus Covert, “Simuler une cellule vivante”, Pour la science n°440, juin 2014.     
[13] Gérard Nissim Amzallag, La raison malmenée, de l’origine des idées reçues en biologie moderne, CNRS éditions, 2002.

 

16-17-18 Maggio Bologna: tre giorni di liberazione della Terra

Sabato 16 maggio
presso il Circolo Iqbal Masih, via dei Lapidari 13/L, dalle ore 17.00

Proiezione del documentario “Un mondo senza umani”. Le scienze
convergenti in un mondo di macchine onnipresenti: non un futuro
“migliorabile”, ma un presente dove questo è già realtà. Con intervento
del collettivo Resistenze al Nanomondo.
https://www.resistenzealnanomondo.org/

Cena a buffet vegan.

Concerto punk-hc a cura BolognaxHardcore, con: Alga Kombu, Doxie, Hyle,
Stasis.

Domenica 17 maggio
presso il Circolo Iqbal Masih, via dei Lapidari 13/L, dalle ore 19.30

Buffet vegan e a seguire proiezione del documentario “If a tree falls”.
Il film racconta la straordinaria storia dell’ascesa e del declino di
una cellula dell’ELF (Earth Liberation Front – Fronte di Liberazione
della Terra), concentrandosi sulla storia di uno dei suoi membri, Daniel
McGowan.

Lunedì 18 maggio 
presso l’Aula A di Scienze Politiche, Strada Maggiore 45, dalle ore 17.00

Dibattito con Leslie Pickering, fondatore ed ex portavoce del Press
Office dell’ELF. Gli argomenti trattati saranno i seguenti: panoramica
sulle prime attività dell’ELF, repressione del Press Office, resistere
alla repressione e sostenere il Fronte di Liberazione della Terra.

3 giorni di Liberazione della Terra