Per ricominciare dalla natura

Noi esseri umani, indubbiamente un elemento della Natura, ci poniamo questioni su di essa da millenni. Per molto tempo e per molte società una costante della riflessione umana sulla Natura è stata quella di sottolineare la separazione e la distanza reciproca basandosi su questa o quella specificità dell’Homo sapiens, o la volontà di questo o quel dio, in modo da giustificare con le idee quello che avveniva sul piano materiale: l’oppressione e lo sfruttamento di tutto quello che è opprimibile e sfruttabile, la distruzione di ciò che era considerato di volta in volta ostile o nocivo: animali, ambienti o popolazioni “diverse”.

Questa bella logica è ancora in vigore, non è la logica solo del capitalismo, o del colonialismo, o del nazismo… è la logica della civiltà sin dalla sua origine. Detto in modo semplicistico, la logica di chi si sentì padrone di un pezzo di terra invece che sentirsene una parte tra le tante.

Solo negli ultimi decenni queste concezioni arbitrarie sono state messe in discussione da varie correnti di pensiero e d’azione. Si può dire che la liberazione animale – antispecismo, l’ecologismo radicale e il primitivismo abbiano attaccato la logica antropocentrica ponendo l’attenzione più su un aspetto che su un altro, a seconda delle priorità sentite; che fossero il destino delle masse enormi di animali allevati dall’industria o quello delle masse umane alienate instupidite nelle metropoli velenose del mondo contemporaneo. La crescita di queste voci di critica radicale, al di là del contributo del singolo pensatore o del singolo guerriero, è legata a precise condizioni materiali all’interno della società umana.

La potenza tecnica del sistema consente alle attività di sfruttamento di raggiungere livelli parossistici, e così quello che aveva dei limiti, che era condotto a livello “artigianale” diventa inquietante agli occhi di sempre più persone quando non sembra avere più limiti. Due esempi su due diversi “campi” di osservazione: per quanto riguarda lo sfruttamento animale non si tratta più solo dell’addomesticamento o dell’uccisone di individui senzienti per l’alimentazione, ma della trasformazione di individui in merce a produzione industriale, costretti a vivere nelle ben note condizioni e a morire ammazzati a miliardi. Per la distruzione dell’ambiente: i danni delle attività umane mettono ormai a rischio la sopravvivenza della nostra stessa società; cambiamenti climatici, deforestazione e desertificazione, inquinamento delle acque, delle terre e dell’aria, estinzione quotidiana di specie e la bomba demografica che impedisce di affrontare o anche solo gestire questi fenomeni con provvedimenti a misura di sistema. Più queste cose si aggraveranno, più scaveranno conflitti all’interno della società umana. Quelli che vogliono attaccare l’antropocentrismo non concluderanno gran chè se questo attacco sarà parziale e prenderà le mosse della critica ad un solo settore nel quale l’antropocentrismo si materializza. Bisogna affrontare la questione della Natura, cioè bisogna dare tutta l’importanza che merita alla lotta per difendere gli habitat, tutti gli ambienti selvaggi che compongono il nostro pianeta, la nostra casa. Per quanto l’uomo abbia distrutto e costruito e distrutto ancora e ricostruito, per quanto abbia selezionato o plasmato molte specie di animali e varietà di piante, paesaggi, per quanto abbia fatto tutto ciò che ha fatto, la gran parte della Terra e la gran parte degli esseri viventi vivono senza prestare grande attenzione alle sue mire di dominio. Fino a quando non arriva la fucilata, le motoseghe, l’automobile, la spruzzata di erbicida o la colata di cemento, queste miriadi di nostri fratelli animali tirano avanti… liberi. Potevo dire secondo Natura, ma questa seconda opzione di termini forse non sarebbe stata accolta nello stesso modo nei nostri circoli così presi dalle discussioni teoriche. Nel mondo reale non fa differenza, nel nostro mondo certe volte sì.

So che parlare di Natura condanna alla parzialità, alla contraddizione magari, ma non avendo alcun sistema da costruire la cosa non mi turba. Tra le tante battaglie da combattere c’è anche quella di non dimenticare da dove veniamo, per mantenere con i piedi ben saldi sulla terra e poter affrontare battaglie ben più dure che chiamano con sempre maggior urgenza. Non mi interessa la semantica, disquisire sulle definizioni, citare quelle di altri, allargarle o restringerle per arrivare dove si vuole arrivare. No, non mi interessa definire, usare gli strumenti dell’intelletto e della cultura per manipolare, astrarre, studiare a tavolino un oggetto staccato da se stessi (quando so che sto parlando pure di me). Questo modo di procedere me ne ricorda vagamente altri. I modi del nemico; spesso crudeli nelle loro concretizzazioni, sempre ridicoli e presuntuosi.

Sento invece di condividere qualcosa con tutto quanto è vivo, di essere un’infinitesima parte di una continuità, di un flusso ininterrotto e cangiante che si dipana da centinaia di milioni di anni con risultati sempre diversi: meravigliosi, divertenti, spaventosi… certe volte incomprensibili, incredibili. Comunque irrimediabilmente destinati a passare. Questo sentire non deriva da filosofie new age, sento ciò che sono; è passato più di un secolo e mezzo da quando un razionalissimo studioso europeo di nome Charles Darwin ha intuito e spiegato almeno parzialmente i meccanismi di questo divenire (dando così un colpo micidiale a tutte le religioni), questo è ora riconosciuto da tutto l’apparato accademico che si occupa di scienze naturali.

Un tempo forse tutti gli esseri umani sentivano questa cosa e certo in modo più immediato e concreto di quanto possa toccare a noi civilizzati. Anche qui molti studi di antropologia haanno dato qualche suggerimento a chi ha voluto indagare le realtà delle popolazioni non addomesticate dalla civiltà. Ma insomma, dove voglio arrivare? Voglio affermare che non c’è niente di reazionario nella Natura, anzi essa è il regno della spontaneità, della diversità, delle possibilità innumerevoli e sempre in movimento.

Cercare di conoscere praticamente le infinite sue meraviglie può solo aiutare nella lotta contro tutto l’apparato tecnologico e ideologico che sfrutta esseri umani e animali e contemporaneamente distrugge le basi ecologiche di una possibile vita libera.

Se qualcuno tra i tanti apologeti dell’oppressione nella società umana ha tentato e tenta di giustificare le pratiche di dominio con giochi di parole rifacendosi tra le altre cose a “leggi di natura”, questo non deve spingerci ad entrare nello stesso meccanismo e fare nostri i loro ragionamenti. Un esmpio, tirando in ballo di nuovo il vecchio Darwin. Egli si accorse che tutti gli organismi viventi, pur nella loro diversità, hanno una capacità di riproduzione a dir poco esplosiva, sono cioè in grado di mettere al mondo una quantità di discendenti di molto superiore alle proporzioni necessarie per la sostituzione delle generazioni. Eppure normalmente la consistenza delle popolazioni non varia granchè. Dove finiscono tutti gli altri? Muoiono… di fame, di freddo, divorati da altri esseri viventi. Quelli che sopravvivono sono coloro che si sono adatti meglio, non necessariamente tutti quanti e non sopravvivono solo perchè più adatti, il caso è importante… questa selezione opera attraverso il clima, i competitori e mille altri fattori accumulandosi nel gran numero degli individui e nel corso delle generazioni. Così le specie si adattano e si modificano. Se da questa osservazione di un dato di fatto che precede di miliardi di anni la comparsa della specie umana, qualche contemporaneo del naturalista inglese più interessato all’ordine sociale che al mondo naturale, volle tirar fuori quella accozzaglia di giustificazioni classiste note come “darwinismo sociale”. Non si può accusare di questo la Natura (nè Darwin).

Qualche erudito alla fine dell’800 volle vedere in queste rivelazioni di storia naturale una sorta di specchio della società umana, affermando che era normale che i deboli soccombessero (i poveri) e i forti prevalessero (i ricchi). Ma non era la Natura a far morire di tubercolosi i bambini che lavoravano nelle fabbriche e mendicavano nella città… erano i padroni, gli industriali, coloro che vedevano negli uomini, animali, ambienti naturali solo una possibile fonte di profitti.

Sono sempre stati i dominatori a ridurre la complessità del mondo a qualcosa di uniforme, di controllabile e prevedibile, che si tratti del mondo fisico, degli habitat e del mondo imprevedibile del comportamento degli esseri viventi.

Nel contesto atroce di questi ultimi tempi un fenomeno positivo è quello che vede crescere la consapevolezza dei legami e delle similitudini tra diverse forme di oppressione.

Molto si è scritto e qualcosa si è fatto, ma è forte la limitazione che deriva dall’angolo in cui siamo stati spinti tutti quanti, comprese la varie tipologie di critica al sistema. Viviamo prigionieri in un ambiente urbano fatto a misura neanche più degli esseri umani, ma solo di macchine e merci, nel frastuono di mille oggetti e cose inanimate che tuttavia si muovono e strepitano. Apprendiamo la realtà del mondo principalmente dai media assorbendo immagini su immagini dai video, anche quelli di denuncia e i nostri percorsi, che per molti sono percorsi obbligati, sono sempre più spesso circondati dal colore grigio quando il colore di questo pianeta sarebbe naturalmente il verde. Con questo “addestramento” è difficile dire se si fanno più danni al corpo o alla mente. Le nostre facoltà così maltrattate percepiscono solo le cose più semplici ed evidenti. Vediamo giustamente l’orrore di un allevamento di galline in batteria, ma ettari ed ettari di monocoltura tirati avanti ocn concimi e pesticidi sempre più velenosi ci sono indifferenti. Quando viene costruita una diga su un fiume o qualsiasi altra grande opera non si vede il sangue e non si sentono le urla, ma milioni di animali sono uccisi direttamente o indirettamente.

I rifiuti e i procedimenti delle ordinarie attività produttive per come sono organizzate oggi vanno a sterminare miliardi di esseri viventi, esseri che non sono degnati di nessuna attenzione per tanti motivi, ma forse semplicemente perchè non li conosciamo, non sono quella decina di specie di “animali della fattoria” con cui è facile immedesimarsi e verso i quali un essere umano decente prova empatia. Sempre più spazio è nelle mani di pochi privilegiati esseri umani che lo distruggono o lo organizzano (è la stessa cosa in molti casi) per il loro tornaconto, relegando altri esseri, umani e non in sempre meno spazio. Questo spazio è la nostra casa, con le relazioni tra esseri che vi si instaurano spontaneamente, piante, funghi, batteri, una lista infinita di organismi, questo si può chiamare Natura.

Insomma, nessuna paura a parlare di Natura e di difesa della Natura, dobbiamo farlo se vogliamo preservare la possibilità di vivere finalmente liberi dal sistema, ma anche per amore di tutto ciò che ha un valore intrinseco al di là delle vicende della storia umana. E poi c’è la Natura dentro di noi, che evidentemente non si è ancora del tutto adeguata agli imperativi della Megamacchina; che altro è, in fondo, ciò ci fa ribellare, che ci fa resistere, che urla ancora e ancora che non siamo ingranaggi, non siamo pezzi di plastica… siamo animali, in tanti casi animali da soma, ma con il desiderio mai spento di calpestare il padrone e saltare fuori da quel recinto maledetto.

Federico
Dall’Urlo della Terra, numero  5