Tecnologia, seme del dominio

La natura della critica

Prima di partire occorre guardare cosa abbiamo dentro lo zaino, per evitare di portarci inutili zavorre che ci rallentano, rischiando invece di dimenticare l’indispensabile. Già perché finora eravamo nostro malgrado trascinati e chissà dove, dagli eventi, dai capi, dalle macchine, ma ora, nel processo rivoluzionario, si fa sul serio, e siamo noi a dover scegliere con che strumenti imbarcarci e questa scelta sarà determinante per il prosieguo dello scontro. La scienza odierna ci ha messi di fronte a un’infinità di conoscenze e applicazioni altrimenti impensabili; durante il processo rivoluzionario cosa dobbiamo farne di questo mastodonte tecnologico?

Come dobbiamo trattare la tecnoscienza durante il processo rivoluzionario (e fin da subito)? Come un’arma in mano al nemico, quindi utilizzabile anche dal suo antagonista, come un’arma propria del nemico, quindi inadatta all’uso per il suo antagonista (per ignoranza e incapacità), oppure come un elemento stesso del dominio, quindi inutilizzabile perché in qualsiasi verso la si adoperi produce comunque dominio? Nel primo caso si tratta di vedere nella tecnoscienza un semplice strumento, in questo momento in uso presso il potere, ma utilizzabile anche dagli oppressi per i propri scopi, senza preclusioni di sorta: è uno strumento che si adatta a qualsiasi fine venga proposto dal suo utilizzatore. Nel secondo caso la tecnoscienza è considerata come un oggetto frutto del lavoro e dell’organizzazione del potere, dunque predisposto per funzionare bene nelle mani del potere, e quindi, per questioni di difficoltà tecniche e conoscitive, si rende inutilizzabile alla classe sfruttata: i codici utilizzati per il funzionamento degli apparecchi tecnologici, la strumentazione per produrre apparecchi e la strumentazione ed i laboratori per sviluppare nuovi apparecchi non sono nelle mani degli sfruttati e anche se lo divenissero, solo con enormi difficoltà questi ultimi potrebbero accaparrarsi le conoscenze utili al loro funzionamento. Nel terzo caso, quello che interessa la critica rivoluzionaria, la tecnoscienza è considerata, non come uno strumento, non come un semplice oggetto, ma come un vero soggetto che, non solo contribuisce e collabora al progetto del potere, ma che col suo stesso funzionamento produce dominio.

Una ancora ingenua critica di classe alla tecnologia la indicherebbe come uno strumento nelle mani della classe dominante per difendersi dagli attacchi e garantirsi i privilegi. Troppo semplice considerare l’apparato tecnoscientifico come un organo utile solo al sistema industriale (o eventualmente a quello militare) in una visione funzionalista, senza vederlo invece come la negazione della possibilità di una conoscenza diretta e reciproca tra le persone e col mondo. Allora a ben guardare c’è qualcosa di più: la tecnoscienza non può intendersi mai come un semplice mezzo (che ha come verso un fine), ma oggi svolge la funzione del dominio in maniera sempre più attenta e approfondita, anche perché è diventato chiaro che è sparito il fine specifico da perseguire nei confronti del quale occorrerebbe approntare i mezzi necessari, poiché è sparito perfino l’oggetto della conoscenza (dietro la manipolazione e l’approfondimento estremo) ed il soggetto della conoscenza ne è ormai stato sopraffatto.

C’è una corrispondenza tra l’uso di certi apparecchi e il manifestarsi di forme sempre nuove e approfondite di dominio. Se fino ad un certo momento la correlazione si esprimeva dal dominio verso la tecnologia oggi il corso si è invertito.  Non a caso oggi si parla di controllo pervasivo, perché la diffusione dei mezzi di indagine e di controllo della realtà si riferisce ad aree, piuttosto che a corpi (a differenza del controllo invasivo) e viene messa in pratica attraverso i campi e le reti (la nuova struttura della realtà) capaci di riflettere la densità e la qualità della materia piuttosto che solamente la sua forma e superficie. Ogni nuova applicazione che entri in funzione, dunque, svolge oltre alle funzioni manifeste, cioè quelle positivamente pubblicizzate, quella latente del controllo. Allora se l’apparecchio, ed in particolare l’apparecchio in mezzo agli altri apparecchi, è portatore del seme del dominio (e lo fa con una convinzione tutta sua, in maniera del tutto gratuita, perché inventa ogni giorno nuove ed inesplorate forme di oppressione dell’uomo), l’asserto “la tecnologia è uno strumento, tra gli altri, nelle mani della classe dominante” è del tutto insufficiente. La tecnoscienza fa qualcosa di più che garantire la strumentazione adatta ad un modo di produzione rinnovato, perché le garanzie che offre al potere sono incomparabilmente più elevate rispetto alle vecchie forme di autorità che si riferivano alla personalità, al carisma, alla tradizione o all’organizzazione burocratica, proprio perché si basano sulla totale impersonalità, la capillarità e la diffusione del controllo nel territorio e fin nell’intimo della persona. Non c’è servitù più ligia, né lavoro più preciso di quello che svolge la tecnologia in questo campo, tant’è che a volte si rivela addirittura più avanzata rispetto alle richieste del potere, provocando delle modificazioni inaspettate nella società ma perfettamente congruenti col progetto di controllo.

La tecnoscienza

Qual’è dunque il ruolo della tecnoscienza oggi? La tecnoscienza è stata definita come quella scienza che ha come ambiente naturale, non più la materia ed il “vecchio” mondo, ma l’esperimento tecnologico con strumentazione e laboratori sofisticati; quel sistema di conoscenze derivate dalla sperimentazione in cui la prassi supera per importanza di gran lunga la teoria. Perciò il suo prodotto, la tecnologia, si allontana dalla tecnica e dalle tecniche, che sono state il modo sperimentato nel tempo per raggiungere un fine, che affinandosi e collettivizzandosi diventano infine arti. La dimensione collettiva della conoscenza segna il confine tra la scienza buona e quella in mano ai pochi, quindi inserita in un contesto autoritario. La definizione di tecnologia come “l’applicazione sistematica di conoscenze scientifiche avanzate al fine raggiungere risultati pratici in maniera efficiente” entra in vigore solo dopo la Rivoluzione Industriale, infatti è solo nel Settecento che il termine non viene più utilizzato nell’accezione greca di technologhìa, cioè discorso sulle arti e i mestieri, ma come miglioramento razionale dei mestieri. E solo tra la prima e la seconda Guerra Mondiale il termine arriva a designare le tecniche di punta adottate nei campi scientifici strategici: nucleare, elettronica, fisica, chimica. Per tecnica si deve invece intendere il semplice uso di una maniera riconosciuta dalla collettività per ottenere una cosa. Il campo d’azione della tecnica, la sua operabilità e la sua capacità di venir trasmessa, la differenziano dalla tecnologia. La tecnologia dal canto proprio, intesa come prodotto delle tecnoscienze, si innesta già su una base tecnica avanzata, che si serve di tutte le innovazioni precedenti sia per pervenire ad una qualche forma di conoscenza sia per giungere a delle applicazioni di una qualche utilità sul mercato.

Ma c’è da notare anche dell’altro. La possibilità di autogestirsi è minacciata dalla tecnologia anche da un punto di vista più eminentemente antropologico: se ogni produzione tecnica sviluppa alcune possibilità umane (fisiche e mentali) è altrettanto vero che inibisce altre facoltà: l’utilizzo di tasti e tastiere e tastierini e poi schermi a tatto ha certamente affinato la sensibilità e la velocità e l’accuratezza di certi gesti peraltro piuttosto meccanici, ma ha sicuramente incancrenito la possibilità di condensare, tirare fuori e utilizzare l’intera forza di un braccio; il limite di potenza si è indubbiamente abbassato. Ogni innovazione tecnologica produce un mutamento nella fisiologia umana, mutando anche le possibilità storiche dell’uomo. Occorre tenerlo sempre ben presente per non giungere infine ad un individuo incapace anche solo di reggersi in piedi.  Dunque? La lucidità per distinguere i passi fatali in un progresso altrimenti indistinto della tecnologia, quei passaggi capaci di chiudere l’uomo in una gabbia infrangibile; l’attenzione all’irreversibile, che ridisegna i limiti della libertà, al cospetto del quale nemmeno l’evasione ha poi alcun potere; la soppressione della tecnologia per mezzo di un costante combattimento contro i suoi elementi salienti e abominevoli per affermare le facoltà umane più interessanti e in accordo con un mondo privo di autorità.

Tecnologia e controllo

La tecnologia odierna ci ha messi di fronte ad una interminabile serie di strumenti dalle infinite potenzialità, ma questa ingombrante megamacchina ci è d’utilità davvero o piuttosto d’intralcio? La scienza odierna si è specializzata in un’infinità di rami fino a convergere per aumentare di nuovo le proprie possibilità evolutive, ma qualsiasi ramo scientifico va coltivato e mantenuto o piuttosto di alcuni ce ne dobbiamo liberare e altri fin d’ora combattere, operando una “selezione” di ciò che è utile e di ciò che è dannoso? Per dare una risposta occorre innanzitutto considerare di nuovo la funzione della tecnoscienza e del suo prodotto, la tecnologia, nella società, per delinearne infine il suo intimo progetto.

I prodotti delle tecnoscienze, nel loro complesso, svolgono una funzione di controllo capillare nella società: in maniera diretta, indiretta e organizzativa.1) Il controllo diretto attraverso la tecnologia avviene facilmente ed in maniera diffusa e capillare mediante le tecniche di intercettazione, sorveglianza, localizzazione, schedatura delle impronte digitali, della silhouette e del DNA. Questo tipo di controllo permette la verifica del comportamento (e la prevenzione della devianza) da parte delle agenzie di sicurezza, e facilita e permette operazioni strettamente militari, in cui per operare con armi a distanza si rende necessaria la visualizzazione immediata o contestuale del nemico. Queste tecnologie sono sempre in sviluppo e approfondimento e le ricerche sulle nanotecnologie, la  microelettronica e le scienze cognitive hanno aperto nuovi campi di invasione per un controllo sempre più approfondito e generalizzato: la scienza dei microchip (quelli sottopelle, quelli presenti nel passaporto e quelli aderenti ai prodotti che compriamo) garantisce l’identificazione e la localizzazione di tutti gli elementi presenti in un cosiddetto “scenario”, la rappresentazione del contesto in cui fisicamente si collocano. Dal punto di vista strettamente militare il controllo della persona, dei luoghi e degli oggetti permette a polizia e militari un intervento sempre più intrusivo e chirurgico: il controllo satellitare, quello per mezzo di droni e della videosorveglianza è oggi imprescindibile per certe operazioni militari e di polizia. 2) Il controllo indiretto avviene attraverso la modificazione dei comportamenti di chi è esposto alla tecnologia, volente o nolente: cambiano le forme di socialità, i luoghi, l’atteggiamento verso l’altro, verso l’azione, gli spostamenti, la loro velocità, la lingua, le parole e il valore stesso della parola, in buona parte senza che ne accorgiamo o l’avessimo preventivato, così per lo più da allentare i legami sociali e disgregare i gruppi, ottenendo un individuo che si comporta in maniera piuttosto preordinata e facilmente verificabile. Nemmeno con un grande sforzo e una grande consapevolezza si può fare un uso “liberato” di certi apparecchi: l’uso coscienzioso di tali aggeggi resta un mito progressista ed è puntualmente vanificato dalla complessità della tecnologia (l’interdipendenza di tutti i suoi elementi) che si configura come mondo e non come singolo prodotto. Proprio per questa complessità è del tutto illusorio parlare di scelta (possibilità di accettare o rifiutare un apparecchio) e quindi di stili di vita. 3) Il controllo nell’organizzazione si verifica per il fatto che la tecnologia odierna è sostanzialmente sconosciuta e inconoscibile ai suoi stessi utilizzatori, perché rifugge la sfera sensoriale e perché utilizza codici non simbolici, accessibili solo ai tecnici: dunque la delega nei confronti della categoria dei tecnici è costante: l’organizzazione sociale propende sempre più verso l’aumento del potere e della fiducia cieca nei confronti della ristretta cerchia dei possessori di conoscenze e strumentazioni tecnologiche. Ancora: il rischio e l’imprevedibilità di eventi catastrofici risultanti dall’uso di tecnologie avanzate, come costante della vita di tutti, rende d’obbligo l’utilizzo dello stato d’emergenza, del periodico intervento militare nella vita civile, della periodica restrizione delle cosiddette libertà. Rischio costante ed emergenza intensificano l’organizzazione militare del territorio e della società.

Tecnoscienza e comprensione

Ancora due parole sul linguaggio della tecnoscienza. Quando un operatore umano spinge un tasto, aziona un meccanismo più o meno complesso (dotato di interdipendenze con altri elementi, tanti o pochi) e più o meno complicato (dotato di una certa difficoltà di venirne a capo, alta o bassa), fatto per lo più di segnali elettronici che si sostituiscono o si integrano agli ormai obsoleti ingranaggi meccanici. Del resto lo stesso azionamento (il moto con cui si avvia il meccanismo di un dispositivo) è stato superato, arrivando all’affermazione di macchine capaci di sostituire vere e proprie operazioni mentali tipicamente umane (ad esempio il web semantico). Venire a capo di questo tecnomondo è ormai impossibile finanche per il tecnoscienziato che conosce solo la minima fetta del complesso mondo che abita (e solo se dotato della strumentazione adeguata). Tutte le conoscenze ottenute attraverso la manipolazione sofisticata della materia sfuggono ai sensi, dunque alla percezione, così per loro natura non possono essere né interpretate né comprese dallo sguardo umano (pare così che non abbiano rapporto col mondo perché si basano sulla dismisura, sull’infinitamente grande o sull’infinitamente piccolo). Così la tecnoscienza allontana l’uomo dalla comprensione del mondo, e l’uomo si trova così ad abitare un mondo che non solo non conosce ma che non può conoscere per definizione, se la sola conoscenza è quella indiretta e specialistica della tecnoscienza. L’incapacità crescente di interpretare la realtà provoca delle modificazioni anche nel campo della volontà. Se l’individuo è ormai sottomesso e trasportato dalla tecnologia, l’eteronomia della macchina evidentemente riduce l’autonomia dell’individuo. Non che eteronomia e potere siano fatti nuovi, ma fino a poco tempo fa la sospensione dell’iniziativa individuale doveva ascriversi a una qualche forma di autorità cui delegare le scelte (e questa autorità era sempre corrispondente a un tipo di comunità, fosse essa primordiale, patriarcale o moderna). Ora invece l’azione individuale è eterodiretta anche e soprattutto a causa della forza della tecnologia. S’impone un comportamento adatto all’apparecchio. L’azione, quella miscela spettacolare di limiti e possibilità, che scaturisce dalla volontà, la sua vera motivazione, non è più in grado di afferrare il proprio senso. L’automazione e l’incomprensione del mondo riducono l’uomo a comportarsi piuttosto che agire. Ora l’azione è il solo strumento indispensabile che abbiamo per rivoltare questo mondo; senza di essa non prenderemo mai possesso del mondo, dunque occorre coltivarla ed eliminare ciò che pian piano la sta sopprimendo. È solo attraverso l’azione che verremo a capo del tecnomondo: affinare le abilità proprie e di gruppo, essere in grado di coordinarsi è la sfida per recuperare quello che stiamo perdendo. Nel processo rivoluzionario il momento dell’iniziativa individuale è fondamentale, così come per la completa affermazione dell’iniziativa individuale è necessario il processo rivoluzionario.

Una questione strategica

Esiste un rapporto tra i mezzi a disposizione del dominio e la possibilità di creare delle rotture rivoluzionarie nella società: ogni nuovo sviluppo tecnologico allontana questa possibilità. Qui sta l’aspetto sia militare del conflitto, cioè che riguarda i mezzi a disposizione dell’uno e dell’altro schieramento, sia quello strategico, che riguarda l’attenzione verso l’aspetto tecnologico vista come dirimente il conflitto. Quello della tecnologia va trattato anche come un problema di ordine militare: la capillarità di alcuni strumenti unita alla chirurgia di altri offrono a polizia ed esercito una perfetta arma da guerra. Solo in questo senso la tecnologia va vista come instrumentum del potere per affermare ancora se stesso, per garantirsi nel tempo e nello spazio. Per le qualità eccezionali negli ambiti del controllo e della manipolazione della materia che è in grado di mettere in campo, la tecnoscienza è a buon diritto considerata come il campo strategico per lo sviluppo del potere. La sola quantità di investimenti in tecnoscienza dovrebbe palesare la posizione strategica che ha per il potere; l’inezia della critica pratica in termini di distruzione invece rivela la posizione periferica che la tecnologia ricopre nel discorso rivoluzionario.

Come deve disporsi il rivoluzionario nei confronti dei nuovi apparecchi e armi tecnologici? Prendendo in considerazione le fonti della conoscenza (la categoria dei tecnoscienziati che lavora all’interno di laboratori pubblici negli atenei, all’interno di laboratori privati di aziende, all’interno di progetti: maxi progetti in cui l’università collabora con le grandi aziende per sviluppare applicazioni; oppure attraverso il trasferimento tecnologico, ossia sviluppando applicazioni all’interno dell’università per poi brevettarle e lasciarle utilizzare alle aziende, oppure mettendo in piedi una piccola azienda (start up) che svolge la funzione amministrativa e distributiva dell’applicazione sviluppata dal gruppo di ricerca); i luoghi della realizzazione (i laboratori pubblici e privati, gli atenei e le aziende); i prodotti in uso (ogni realizzazione come la troviamo per strada, al lavoro, a casa); la propaganda del prodotto (i mass media nei loro articoli e servizi di promozione degli sviluppi tecnologici, nella pubblicità e nell’opera di pubblicizzazione che comprende convegni e corsi di laurea e corsi di approfondimento); la distribuzione del prodotto (i luoghi dove attingere al prodotto); l’uso del prodotto (a chi va in uso l’applicazione); la sua efficienza (il suo funzionamento, la sua operatività: il rapporto che vige tra l’applicazione e la presenza/assenza umana: ad esempio quante telecamere può controllare un sorvegliante? Dello spazio realmente sorvegliato qual’è lo spazio sotto il controllo fisico dell’elemento umano e con che velocità? Insomma il livello di eludibilità dell’applicazione tecnologica); la sua efficacia (il raggiungimento dello scopo manifesto e di quello latente); a fronte di ciò: la sua distruttibilità. Talvolta è la massa cieca e inerme che con la sola propria forza si fa beffe delle più potenti applicazioni tecnologiche e va allo sbaraglio, dimostrando che l’eludibilità di un sistema di controllo, non si dispiega solo nella coordinazione e precisione dell’azione silenziosa di chi ha studiato l’anello debole della catena, ma anche nell’azione tumultuosa, nel rivolgimento di un’intera massa in direzione di un obbiettivo in maniera quasi del tutto cieca rispetto al rischio repressivo. Questa forza istantanea e tutta furore e passione, non si dà a comando, ma va attentamente seguita proprio per la sua repentina formazione e istantanea dissoluzione. Tuttavia non è abbastanza, e questa rivolta non può basarsi solo sul farsi beffa della periodica inefficienza della tecnologia, ma per essere tale deve per forza tener d’occhio nel medio-lungo periodo quelle innovazioni che più di altre precipitano la possibilità dell’uomo di autogestirsi. Tutto ciò non per prevenire l’introduzione di un nuovo specifico elemento di oppressione (fatto che comunque può essere utile sia per dimostrare la forza delle nostre possibilità, sia per arginare il controllo repressivo), cioè la critica (di per sé illusoria) di un apparecchio piuttosto che un altro, ma per giungere infine alla soppressione complessiva della tecnoscienza, non come realizzazione di questo o quel prodotto più o meno utili alla vita (quale vita? quella del fluire capitalista?), ma come maniera di conoscere, scoprire e rapportarsi al mondo, cioè di nuovo come possibilità di autogestirsi. L’utilità specifica di avversare un progetto piuttosto che un altro (la diffusione degli OGM, le nanotecnologie), si unisce alla possibilità di rovesciare il potere tecnoscientifico per intero, potere che è sia la sudditanza dell’individuo nei confronti della macchina, sia la sudditanza della classe nei confronti dei tecnici.

Il disinteresse dell’oppresso e il compito del rivoluzionario

In tutta questa storia c’è anche un problema di ordine strategico. Il disinteresse dell’oppresso è connaturato alla tecnoscienza, e questo è un elemento a vantaggio del dominio e a svantaggio del suo rovesciamento. Ma c’è un discorso sbagliato che naviga tra le bocche sempre spalancate dell’uomo della strada che va smascherato: che la tecnologia sia in definitiva una rovina per quel mondo che credevamo di conoscere (il “caro vecchio mondo”), che finisce per suonare così: “si stava meglio quando si stava peggio”. Un problema di immaginazione che gli stessi odierni sviluppi tecnologici rendono chiaro. Questi indicano un evidente ridisegnamento dei termini della libertà individuale e delle possibilità individuali (ma, e qui si sbaglia l’uomo della strada, non in meglio o peggio, opzioni di fronte cui è possibile scegliere distintamente, assegnando al mondo del futuro un voto negativo e a quello del passato un segno positivo, ma in maniera irreversibile in termini di volontà e potenza e immaginazione, e ciò ha più espressamente a che fare con l’idea di libertà): quello che parrebbe un autentico scioglimento dei legami collettivi in favore dell’autonomia individuale, l’ausilio tecnologico,  si rivela invece l’intensificarsi del legame-catena con gli apparecchi e ciò finisce per ridefinire anche i limiti della libertà, intesa non più come rapporto sociale, ma come questione privata, avviluppando l’oppresso in una spirale di inazione e divertimento. Solo l’azione, che si verifica unicamente in un contesto di conoscenza diretta col mondo, riabilita l’oppresso verso l’autentica possibilità di organizzare se stesso e la propria vita. Se il processo di rivolta contro le tecnoscienze è ostacolato dal generale disinteresse degli sfruttati nei confronti del mondo ormai incomprensibile che sono costretti ad abitare, ci sono alcune particolarità non del tutto insignificanti su cui è invece il caso di insistere: il progresso scientifico è costellato da un’enormità di catastrofi e devastazioni oltre che dalla consueta imprevedibilità e rischio di annientamento che dobbiamo subire ogni giorno, di fronte al quale poco vale il discorso postumanista del magnifico mondo di integrazione uomo-macchina che verrà. Questa favola, certo, va smascherata coi fatti della critica rivoluzionaria. Pare che l’interesse dell’oppresso nei confronti degli sviluppi tecnologici emerga unicamente in corrispondenza della nocività, ossia dell’evidente deterioramento fisico o psichico della popolazione o più generalmente del territorio abitato. Senz’altro il concetto di nocività aiuta lo sfruttato a comprendere il proprio posto nel mondo e nei confronti del dominio, ma non necessariamente è abbastanza stimolante per una rivolta contro la tecnoscienza. Se questo stato di incoscienza perdura il terreno d’azione continua a restringersi, allora spetta solo al rivoluzionario dimostrare coi fatti che la distruttibilità del sistema può aprire alla solidarietà, al rapporto diretto col mondo che abitiamo, all’autogestione.

I recenti sviluppi della tecnoscienza

Oggi pare troppo bonaria l’ipotesi di un mondo governato dalla tecnoscienza come una nave guidata da un timoniere ubriaco, che per l’ebrezza porta a naufragio la barca con tutto l’equipaggio, perché in fondo non ha il controllo delle proprie azioni, dunque degli effetti sul mondo. Ciò è vero non perché la scienza si sia liberata dalla potenza di produrre catastrofi immense, ma perché il suo attuale progetto è quello di approfondire il controllo della materia. Se fino a poco tempo addietro si è disegnato il percorso della scienza come in crescente ramificazione e specializzazione occorre ora prendere atto della nuova tendenza alla convergenza dei vari rami. Convergenza che ha ben poco a che fare coi vecchi lavori multidisciplinari, gli studi in cui i differenti rami scientifici erano tenuti insieme dall’oggetto della ricerca ma producevano solo sguardi differenti e incommensurabili di un unico campo, e si basa invece su una “naturale” tendenza all’integrazione. L’oggetto nelle sue microscopiche fattezze appare molto più manipolabile di un tempo ed è appunto nell’azione conoscitiva della manipolazione che si devono integrare le tecnologie fisiche con quelle biologiche e cognitive e informatiche. A questo punto la scienza all’avanguardia è ramificata in una miriade di specializzazioni ma converge in progetti comuni sulla base dell’integrabilità che la tecnologia, come piattaforma materiale, le consente. È vero, al progresso indefinito e pericoloso si stanno sostituendo progetti concreti, non perché sia cessata la superstizione nella tecnologia o l’infatuazione per il tecnomondo, ma perché l’intersecarsi di rami differenti della scienza ne moltiplica la possibilità di intrusione nella materia e così moltiplica i suoi effetti.

Se la convergenza delle tecnoscienze mette a nudo gli aspetti salienti del dominio, quelli su cui si investirà, proprio qui, in questo campo, occorrerà presto insistere. L’utilità, per giungere alla distruzione quanto più feroce e repentina, è ovviamente il criterio guida che seleziona le conoscenze di cui i rivoluzionari debbono dotarsi; e non sarà un criterio striminzito qualora i fini specifici siano ben presenti e ben determinati. In tutti gli altri casi l’accaparramento rivoluzionario delle conoscenze sarà controproducente e andrà nel senso di tenere in vita la macchina statale. Se il mondo si è informatizzato non significa che dobbiamo a tutti i costi scendere su quel terreno da gioco per operare un cambiamento significativo (con l’ingegneria informatica e l’hackeraggio); ma è altrettanto vero che sarà, oltre che ben accetto, in alcuni momenti decisivo, il contributo di quanti lavorano in quel campo (per quanto riguarda il reperimento di informazioni e la comprensione della struttura tecnoscientifica e del suo funzionamento). Facendo dunque attenzione che il processo rivoluzionario non si trasformi nell’adozione di mere tecniche, il cui fine rimane distante dalla nostra immaginazione; e attenzione affinché l’azione di distruzione sia quanto più intellegibile possibile; facendo insomma attenzione a non riempire il nostro zaino di quelle conoscenze approfondite e sofisticate che però lasciano intatta la macchina tecnica dello Stato, al posto di utilizzarle sommariamente per sopprimerla. Cosicché, nel momento susseguente, una volta che ci saremo liberati dalla tecnoscienza, la “selezione” delle discipline e dei campi di ricerca sarà vagliata sulla base della possibilità di ognuno di essi di formularsi in termini di tecnica e infine di arte.

Dalla rivista anarchica: I giorni e le notti, numero 1
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