Paradossi delle politiche d’identità

Paradossi delle politiche d’identità

“La politica dell’identità non è liberatoria, ma riformista. Non è altro che un terreno fertile per aspiranti politici dell’identità borghese. La loro visione a lungo termine è la piena integrazione dei gruppi tradizionalmente oppressi nel sistema sociale gerarchico e competitivo che è il capitalismo, piuttosto che la distruzione di quel sistema. Il risultato finale è Rainbow Capitalism – una forma più efficiente e sofisticata di controllo sociale in cui ognuno ha la possibilità di recitare una parte!” [1]

Le categorie di razza, genere, nazionalità, sessualità sono servite come giustificazioni per schiavizzare, reprimere, escludere, normalizzare, psichiatrizzare, incarcerare ed è comprensibile che coloro che hanno subito tali discriminazioni e violenze si siano uniti con il desiderio di sradicarle. Ma su cosa si fonda questa unità? Non sulla volontà di combattere il sistema, ma sull’identità categoriale che è servita a giustificare queste discriminazioni. Si sceglie di unirsi non come nemici di un sistema che si vorrebbe distruggere, ma come vittime di un sistema al quale si chiede riconoscimento e diritti andando a omologarsi ai suoi stessi valori.
“Il personale è politico” originariamente indicava la necessità di politicizzare la sfera della vita privata, con il passare del tempo e la fine di una diffusa politica militante, questo approccio si è incancrenito. L’individuo si è chiuso in sè stesso e ha soffocato il proprio agire in una dimensione personale credendo che il cambiamento sociale si possa raggiungere attraverso un cambiamento individuale. Di fatto è più facile avere uno sguardo che si chiude all’interno identificando il problema in sè stesse/i, invece che allargarlo al di fuori e identificando il problema nel sistema, con una conseguente azione verso l’esterno e contro di esso. L’agire è stato progressivamente sostituito da una protesta che fa della testimonianza individuale il proprio centro. Una caleidoscopica frammentazione dell’azione politica nei mille rivoli di un attivismo il cui campo di intervento non esce più da ciò che i singoli fanno nella propria quotidianità, affermando la propria identità. Il personale ha così fagocitato il politico.
Non bisognerebbe farsi abbagliare davanti a contesti apparentemente più radicali anarco-queer e dal nuovo colorato e alternativo attivismo transfemminista [2]. Le identità queer e trans diventano di per sè rivoluzionarie, in grado di scardinare le norme, ma siamo davvero sicure che non siano in realtà in sintonia con questo sistema?
Una pseudo sovversione che in realtà è un’omologazione ai valori del biomercato e del transumanesimo: tutto è in vendita, tutto è mercificabile e tutto è possibile perchè non esistono limiti; la parola acquisisce più significato della realtà materiale dei corpi e la riscrive stravolgendo significati e distruggendo dei punti fermi come il fatto che nasciamo da donna; nella teoria queer i corpi si dissolvono e si fluidificano ed essere donna non ha più niente a che vedere con la realtà dei corpi, basta nominarsi tale per esserlo. In tutto questo la modificazione genetica attira, le mutazioni genetiche causate dalla tossicità rimandano alla modificazione dei corpi e le nuove tecnologie, in particolare le “biotecnologie per la mutazione del corpo trans” [3] e le tecnologie di riproduzione artificiale sono viste positivamente come liberatorie. Biotecnologie che “proprio perché bio – sono il corpo stesso” [4] con una pericolosa sovrapposizione che rinforza il paradigma tecnoscientifico con le sue aspirazioni postumane. Le mutazioni genetiche rappresentano “ambiguità, variabilità, mutevolezza” [5]: in altre parole, una fonte di ispirazione. Gli effetti dei perturbatori endocrini come benzene, diossina, PCB… rientrerebbero in “un’ontologia malleabile della vita”: una “queerness tossica” [6]. Una neolingua per nascondere quel sotteso sempre presente di adorazione per le manipolazioni genetiche. Lo xeno-cyborg-queer-transfemminismo non ha bisogno della natura perchè nella sua premessa l’ha già sostituita con la biologia sintetica, i semi che si appresta a diffondere sono come quelli terminator della Monsanto [7].

L’infinita scansione di identità oppresse è del tutto interna all’ideologia liberale e politically correct. Questo sistema è inclusivo, c’è posto per tutte e tutti nel carro del libero mercato, tutte/i possono essere dei potenziali consumatori e sostenitori entusiasti delle nuove tecnologie. Nessuno ne vorrà rimanere indietro, tutte/i si affannano a salire, anche accademici e attivisti critici, tutte/i con un posto assicurato e con una bella vista sulla direzione intrapresa dalla corsa. Noi, dal canto nostro, siamo consapevoli che non basta sperare che il carro si fermi da solo, ma bisognerà adoperarsi per bloccarne la corsa.
Le varie eccentricità si rivelano soggettività pienamente coerenti con il sistema dominante e la politica delle identità si poggia su individui svuotati da ogni contenuto, da ogni valore, parola ormai superata e considerata come un abominio essenzialista, per essere poi riempiti da desideri e bisogni perfettamente in linea con il biomercato e il transumanesimo. L’arcobaleno è in realtà il monocromatismo assoluto del biomercato che finge di valorizzare le varie identità ma le neutralizza rendendole di fatto neutre e omologate per un nuovo modello antropologico che assume la forma di una mutazione antropologica: atomi individuali, ibridi infinitamente e illimitatamente manipolabili, una centrifugazione dell’individuo in una fluidità che lo rende fluido come le merci, una cancellazione della diversità tra uomo e donna per l’ideologia del medesimo: solo atomi di consumo, un neutrum oeconomicum di cui già trent’anni fa Ivan Illich ne preconizzava la venuta.
La postmodernizzazione delle coscienze e la frammentazione del soggetto portano alla creazione di schiavi ideali, a una massa arcobaleno pacifica del totalitarismo glamour del libero mercato. Uno schiavo ideale che agisce per soddisfare i bisogni indotti dal sistema rendendoli propri.
Il soggetto prima si frantuma in una miriade di identità e poi viene disgregato nella dissoluzione post-moderna e ricostruito nel rapporto con le tecno-scienze. Un essere umano indeterminato che si co-costruisce con la tecnologia, un’indeterminazione che è ibridazione tecnica, che distrugge i confini tra soggetto e oggetto, tra natura e tecnica, tra vivente e macchina. Tutto, dalla natura attorno a noi, ai nostri corpi diventa un artefatto. Se c’è l’uomo è solo perchè una tecnica lo ha prodotto ed è essa ciò che crea l’uomo: dalla Haraway al filosofo Sloterdijk le basi teoriche di una concezione antropotecnica e cyborg dell’essere umano che non permette di sviluppare una critica al paradigma biotecnologico e che atrofizza la capacità di percepirci profondamente altro da una macchina. Il sistema ringrazia la scuola di Deleuze e Guattari per cui l’emancipazione si realizzerà “con la mercificazione totale delle macchine desideranti che noi siamo.”

“Si agganciano al loro statuto vittimario e minoritario, sempre più fittizio, come ad una rendita di situazione, per esigere l’immunità critica e spingere le loro strade ovunque essi possano. E lo possono ovunque; il capitalismo tecnologico, che lo si chiami società dello Spettacolo, società dei consumi, società post-industriale, post-moderna, è tutto tranne che razzista, sessista, xenofobo, omofobo, etc. Al contrario, quella di essere inclusivo, aperto, egualitario quanto più possibile verso le identità di genere, di sesso, di etnia, di religione è una condizione propria della sua prosperità. È la condizione affinché si esprimano dei desideri che troveranno la loro soddisfazione commerciale grazie alla ricerca e all’innovazione. Il queer è buono per la crescita ed il consumo come è testimoniato dalla sua ubiquità nelle rappresentazioni pubblicitarie e le pletore delle pubblicità nei media queer friendly, come ad esempio Le Monde Magazine. […]. Questa ‘molteplicità di generi e dei modelli familiari’ non è altro che il sequenziamento marketing dei ‘socio-stili’, delle pseudo tribù e delle comunità di cui Benetton aveva annunciato, fin dagli anni Ottanta, le immagini più trasgressive e ‘ribelli’. Siamo lontani dalle geremiadi sugli esclusi e i maledetti, esaltate dalla teoria Queer […] Vi è in questo capitalismo del desiderio accoppiato alla tecnologia un giacimento di crescita e di profitto infinito che si nutre di un conformismo fanatico e ingenuo dalle virtù emancipatrici, ‘rivoluzionarie’, della trasgressione e della mancanza di limiti infinita.” [8]

I membri di interi gruppi – bianchi, maschi, occidentali, eterossesuali e per le tendenze contemporanee anche donne e cis-gender (nuovo termine della neolingua che rappresenta un insulto) – sono considerati privilegiati/e. Il privilegio è contestato nonostante sia causato dal sistema piuttosto che delle proprie azioni e volontà. Questo porta a considerare che l’individuo privilegiato è un diretto oppressore dell’individuo oppresso [9].
L’attenzione si sposta alla persona identificata come privilegiata che deve ammettere e identificarsi con il proprio privilegio. Lo sguardo reclina ancora all’interno di sè stesse/i con una ricerca infinita dell’oppressione principalmente dentro di noi; l’azione diventa autoanalisi ed espiazione di gruppo piuttosto che essere diretta verso i diretti responsabili dell’oppressione e il sistema stesso. Di fatto un non agire che è meno faticoso, più semplice e sicuramente più sicuro di un reale impegno speso e profuso nelle relazioni, nella vita e nelle lotte.
Assistiamo a una gara a chi racchiude in sé più oppressioni, trans nera sex worker è oggi il biglietto da visita migliore per avere aperta ogni porta dei movimenti. Ma per la maggior parte dei casi è una mera adesione ideologica superficiale e confusa di ragazze e ragazzi che fanno gli alternativi con abiti strappati e il bancomat dei genitori che usano anche se disprezzano la famiglia.
Tutto viene diviso in due raggruppamenti: l’indiscutibile, intoccabile, incriticabile oppresso e l’innato privilegiato da guardare con sospetto che deve espiare le sue colpe. La solidarietà viene richiesta in modo ridondante e patetico, compare in ogni dove come vuoto slogan, circondando di sospette discriminazioni chi non include il solito ritornello di solidarietà alle identità oppresse.
In qualsiasi momento è possibile interrompere il dibattito accusando di privilegio un uomo bianco dai capelli grigi, segno di una certa età e automaticamente autorità, o un pò troppo muscoloso, segno del suo macismo, o una donna bianca e cis, un pò troppo nei canoni femminili perchè non obesa e non con i capelli fuksia e rasati. Da notare che chi accusa un’altra di essere bianca e occidentale come privilegio in realtà lo è anche lei. Questi approcci servono per non confrontarsi davvero con le critiche poste e per spostare continuamente il piano dalle posizioni e rivendicazioni politiche criticate a un piagnisteo sulla propria sofferenza volendo generare un senso di colpa con un vittimismo strisciante. Una cultura del piagnisteo dove occorre tributare un culto alla vittima in modo lacrimevole e mai in forma rivoluzionaria.
Interi spazi e iniziative vengono totalmente occupati, la discussione viene stroncata, il non essere d’accordo con chi si definisce queer o trans è fascista, il non accentrare tutto attorno ai loro bisogni personali è transfobico. Avviene la creazione di uno status di intoccabilità, chiunque critichi e metta in discussione le loro rivendicazioni e posizioni, quindi sempre il piano politico, chi mette in luce che queste sono fuorviate da bisogni e interessi personali senza la comprensione delle conseguenze sull’intera società sarà sicuramente queerfobica, transfobica, Terf (trans-exclusionary radical feminist) reazionaria, fascista.

“Ci stupisce anche che non si vedano ovvi paralleli con la politica di destra, nel modo in cui le femministe sono liquidate come ‘femminaziste’, che si riflette nell’attuale uso della parola ‘fascista’ contro le femministe radicali da parte di attivisti per i diritti dei trans, oltre agli slogan che chiedono che le ‘Terfs’ vengano uccise negli spazi anarchici sia online che nel mondo reale. È sconvolgente che la violenza di questa misoginia venga celebrata, non condannata.” [10]

Sull’intersezionalità
“La politica diventa un riflesso del proprio privato. Il vegano, da questo punto di vista, non ha l’esclusiva della purezza morale. Il consumatore critico lo accuserà di rifornirsi dalla grande distribuzione che foraggia gli interessi delle multinazionali. Il decrescente che si dedica all’autoproduzione li accuserà entrambi di non mettere sufficientemente in questione l’ideale sviluppista. Il primitivista, dal canto suo, li accuserà tutti di fare ancora troppo affidamento alla tecnologia che è la vera radice di ogni alienazione. La femminista osserverà che tutti questi problemi, dal modello sociale ed economico alla tecnologia, non vengono adeguatamente compresi se non sono messi in rapporto con l’imporsi del patriarcato. Finché qualche teorica queer non le farà notare che anche il patriarcato è un falso problema, perché dovremmo occuparci piuttosto del “dispositivo binario” che istituisce i due generi eteronormativi. Ma a questo punto rientra in scena il vegano che osserverà come il “dispositivo binario” si fonda in realtà sull’opposizione uomo-animale e così il ciclo di accuse reciproche può ricominciare spostandosi di piano.” [11]

Le variegate identità che caratterizzano il movimento possono trovare delle forme di convergenza politica, in quella forma di fragile unione che è l’intersezionalità. Probabilmente torneranno a dividersi e contrapporsi, poiché i rispettivi progetti politici si fondano su istanze particolari e poco dopo quello che emergerà non saranno gli aspetti che potrebbero unire, ma quelli contrapposti.
Il termine intersezionalità significa che, a seconda dell’individuo, si incrocino corrispondenti “sistemi di oppressione” o corrispondenti “privilegi”. La conseguenza di questo è che l’oppressione non è causata da un unico “sistema di oppressione” identificabile nel sistema, ma come l’intersezione di molti diversi “sistemi oppressivi” con uno sguardo che ancora si sposta dentro di sè.
In molte attiviste e attivisti queste singole identità possono convivere, ma dalla somma di diversi identitarismi non può nascere una visione e una prospettiva politica globale. Inoltre si creeranno microlotte in orizzontale tra gli ultimi, un’orizontalizzazione del conflitto funzionale al potere che ha tutti gli interessi a non permettere il conflitto dal basso verso l’alto, l’unione nel combattere chi in alto domina senza un continuo confliggere nell’orizzontalità della schiavitù.
Alcune lotte che sono state all’origine di numerosi movimenti di liberazione hanno avuto al proprio interno, fino a un certo momento, una componente di classe che successivamente è stata annacquata e rimossa. Secondo i teorici dell’intersezione, la classe non ha peso ed è considerata riduttiva perchè nasconde caratteristiche particolari di particolari gruppi. Sicuramente non è solo una questione di classe, ma affermare che il potere “ci attraversa tutti” appiattisce e cancella le effettive responsabilità: il rischio è che una donna capitalista o biotecnologa sia vista solo come una donna oppressa da un sistema patriarcale, non prendendo in considerazione le sue responsabilità nel mantenere e sostenere questo sistema. Si dirà che avrà interiorizzato le logiche patriarcali che non le appartengono, ma questo non cambia la realtà e porta al non considerarla, per il suo ruolo, dall’altra parte. Da sempre esiste una linea, non siamo noi a tracciarla, esiste già, è la linea tra chi decide di essere complice con questo stato di cose e che invece si opporrà sempre ad esse.
L’interpretazione del potere come trama di micro-relazioni gerarchiche solo all’apparenza è un’analisi più concreta, in realtà rende il potere astratto e inafferrabile perchè essendo ovunque non è più da nessuna parte. Così non si riescono più a individuare le diramazioni e connessioni del potere nelle sue strutture e nei centri che lo alimentano, che lo sviluppano e che lo rafforzano.
Con queste analisi le uniche dinamiche di potere che mutano sono quelle delle relazioni personali ma senza un’impatto sulla società nel suo insieme cancellando quella che dovrebbe essere la dimensione, non privata, del conflitto.

Paradossi dell’antispecismo
Pochi di noi reagirebbero indifferentemente alla carneficina di un macello. La nostra reazione a questo non dovrebbe fondarsi solo sulla sofferenza e sul pensare di porre fine a quella sofferenza.
L’antispecismo per la liberazione animale, definirò così l’approccio radicale e anarchico alla questione animale, dalla reazione emotiva arriva a un’analisi critica al sistema di smembramento dei corpi animali. Un’analisi che si contraddistingue da quella meramente etica e compassionevole, che dietro la bandiera del “benessere animale”, con richieste di allargamenti di gabbie, allevamenti a terra, uccisioni indolori, anestesie prima delle torture della vivisezione, non fa altro che rafforzare questo sistema.
L’antispecismo per la liberazione animale si distingue anche da quella parte di movimento che rivendica una scelta di consumo alternativo “cruelty-free” mettendo al centro la scelta vegana.
Le contraddizioni dell’etica vegana diventano dolorosamente e materialmente evidenti quando guardiamo alle origini di tutti i prodotti nella nostra società. L’affermazione secondo cui i prodotti vegani non hanno contribuito direttamente all’uccisione di animali è una delle tante illusioni commercializzate promosse dalle aziende che traggono profitto da questo mercato di nicchia, dal momento in cui la produzione capitalista richiede un’enorme quantità di risorse che vengono estratte dalla Terra con la conseguente distruzione degli habitat e uccisioni di animali.
Lo stile di vita vegano porta con sè l’idea che la scelta individuale è il cardine per creare un cambiamento sociale, ma credere che basta cambiare stile di vita per cambiare il mondo è utile solo a farci andare a letto con la coscienza tranquilla nell’illusione di aver fatto anche noi qualcosa. Il veganesimo presenta una falsa alternativa, non cambia e non potrà mai cambiare le cose per gli altri animali, per noi e per il pianeta.
Ma da quale prospettiva si guarda lo smembramento dei corpi animali? E l’intero sistema è davvero messo in discussione dall’analisi antispecista e dalle pratiche radicali di questo contesto?
La “strada per la vittoria” che molti attivisti animalisti, anche radicali, celebrano è una serie di concessioni emesse dal sistema. Il capitalismo è abbastanza flessibile da riformarsi concedendo quello che non lo mette in crisi e quello che gli può essere funzionale e tutte le istanze per gli animali e per l’ambiente possono essere perfettamente recuperate. Non è da escludere che nei circhi saranno vietati gli animali e anche che la produzione di carne sarà sempre più sostituita da produzione di carne sintetica.
Il radicalismo diventa semplicemente un termine oppositivo usato per differenziarsi da altri metodi considerati riformisti. Ma ogni lotta se non porta una critica e un’opposizione al sistema nella sua totalità è e rimarrà una semplice rivendicazione riformista anche se ha metodi radicali. Un radicale può benissimo non avere una chiara prospettiva realmente radicale.
Il radicalismo si presenta come un’alternativa alle tendenze riformiste delle grandi associazioni, ma una parte del movimento per la liberazione animale segue queste stesse tendenze presentandole come radicali semplicemente per i metodi scelti. PETA e SHAC volevano principalmente raggiungere gli stessi obiettivi, usavano solo tattiche e strategie diverse. Per entrambe il loro obiettivo a breve termine era quello di salvare il maggior numero possibile di animali e l’obiettivo a lungo termine era quello di porre fine alla sofferenza degli animali mettendo le industrie di animali fuori mercato.
Le pratiche radicali non dovrebbero essere confuse con obiettivi radicali. Alcune azioni di liberazioni e di sabotaggio verso luoghi di sfruttamento animale rimangono confinate in una prospettiva che si preoccupa solo degli animali. Un’azione di liberazione apre uno squarcio nel mondo di sfruttamento che si cela dietro agli animali imprigionati, ma dovrebbe andare oltre all’immediato salvare delle vite. Alcuni comunicati di incursioni nei laboratori di vivisezione si concentrano esclusivamente sulla sofferenza degli animali con un approccio moralista o che fa leva sul senso di pietà ed empatia nei confronti di alcune specie animali come i cani, ignorando quali sono le ricerche portate avanti in quel laboratorio. La prospettiva si autolimita non ponendosi verso l’intero sistema che trasforma gli animali in merci e in oggetti da esperimento, così il potenziale di queste azioni è ridotto e non viene messo in luce il mondo della ricerca, i legami che intercorrono tra le forme di sfruttamento e i rapporti di dominio all’interno di questa società.
Non soffermiamoci sulla pratica in sè, ma andiamo oltre, guardando quello che esprime e quello che vuole ottenere. Una pratica non è di per sè rivoluzionaria, rivoluzionario è il senso, il significato e lo scopo.
Un topo nudo transgenico non potrà mai essere nè semplicemente un “povero animale” nè un nuovo soggetto sovversivo, è solo un’aberrazione della ricerca genetica. La sperimentazione animale fa parte della ricerca scientifica, asse portante del sistema tecno-scientifico. Questo esercita un controllo, gestione e manipolazione del vivente sempre più totale in cui l’unica dimensione che si sta delineando è quella di un mondo artificiale per un individuo infinitamente manipolabile e adattabile. Non è possibile estrapolare la questione della liberazione animale da tutto questo.
Senza dubbio questo è un sistema di smembramento di corpi animali, con una carneficina muta, incommensurabile e non paragorabile con altre per il suo continuo e sistematico riprodurre, smembrare e uccidere corpi animali e lo specismo è l’ideologia che serve per legittimare, naturalizzare, giustificare tutte queste pratiche. Ma l’antispecismo oggi non può bastare per una comprensione della complessità della realtà attorno a noi e della posta in gioco. I tempi di oggi, tempi di editing genetico e di smart city, ci chiamano verso altre considerazioni e verso altre urgenze.
La storia della zootecnia ci insegna che tutto ciò che viene sperimentato sugli altri animali verrà trasportato sull’uomo, ma se questa comprensione dell’origine e dello sviluppo di alcune pratiche non si collega a ciò che queste rappresentano e alle conseguenze sull’intera società e sul vivente rimane una comprensione monca.
Si è sempre pensato che l’antropocentrismo fosse un fondamento di questo sistema e se smantellato avrebbe fatto cadere l’intero edificio sacrificale, un grattacielo a più piani, dove negli scantinati c’è la carneficina degli altri animali. Ma lo stravolgimento del paradigma tecno-scientifico non verrà dallo smantellamento dello specismo, dal crollo dell’industria della carne o dell’industria delle pellicce. Questo paradigma prevede la possibilità di sostituire o ricostruire artificialmente la materia prima che il sistema trae dai nostri corpi, dai corpi degli altri animali e da interi ecosistemi naturali di cui ha costantemente bisogno. Un’artificializzazione per far fronte alla finitudine, ai limiti, alla distruzione del vivente. L’antispecismo non presuppone una reale indisponibilità dei corpi e del vivente, se questi possono essere modificati. All’interno della cornice post-moderna di questi tempi un animale transgenico e una mutazione genetica rappresentano una sovversione da norme e normalità andando a costruire e rafforzare la normalità tossica e transgenica di questo sistema.
Se non saremo in grado di proteggere i nostri corpi dall’introduzione del potere della scienza come pensiamo sia possibile pensare di salvare quelli degli altri animali? Se l’uomo sarà lui stesso trasformato in un uomo macchina in un mondo macchina non ci sarà più niente da fare per noi stessi e per il pianeta. Gli sviluppi delle nano-bio tecnologie, all’avvento dell'”Internet delle cose”, la riproduzione artificiale dell’umano e l’artificializzazione e ingegnerizazione dell’intero vivente sono i fulcri di un’analisi sul presente. È necessario individuare delle priorità, sentendo nel profondo un’urgenza d’agire, ma per agire serve un’attenta e lucida comprensione della realtà attorno a noi. Per contrastare il sistema di dominio in un preciso momento storico e sociale dobbiamo innanzitutto comprendere come si evolve, come si trasforma e cosa va a trasformare nella società, intravederne le direzioni ancora prima che si realizzino nella totalità. Bisogna chiedersi dove si sta concentrando e dove sta puntando. Un’analisi sul presente con uno sguardo proiettato in un futuro che si avvicina sempre di più è fondamentale per capire il percorso da intraprendere, per colpire dove più può nuocere. Se non si affronterà il sistema sul suo terreno, nelle sue logiche transumaniste e nei suoi luoghi di dominio, presto ci si sveglierà bruscamente con davanti agli occhi la cruda realtà di un futuro considerato lontano che è diventato il presente.

Silvia Guerini, dal giornale L’Urlo della Terra, num.7, luglio 2019

[1] Wokeanarchists, “Against Anarcho-Liberalism and the curse of identity politics”, 2019, wokeanarchists.wordpress.com, tra. it in: “Contro l’anarco-liberismo e la maledizione delle politiche di identità”, www.resistenzealnanomondo.org
[2]  Contesti che a volte strumentalizzano le stesse persone transessuali, queste non sono il soggetto delle mie riflessioni che sono incentrate sulle rivendicazioni, posizioni politiche e approcci di questi contesti.
[3] Cossutta, C., Greco, V., Mainardi, A., Voli, S., “Smagliature digitali, corpi, generi e tecnologie”, Agenzia X, Milano, 2018.
[4]  Cossutta, C., Greco, V., Mainardi, A., Voli, S., op. cit.
[5] Hester, H., “Xenofeminism”, Polity books, 2018; tr. it Xenofemminismo, Nero, Roma, 2018.
[6] Hester, H., op. cit.
[7] Per approfondimenti: S. Guerini, “Xenofemminismo. L’aberrazione è già qui”, 2019, www.resistentenzealnanomondo.org
S. Guerini, “Riflessioni sp arse leggendo il libro ‘Smagliature digitali’”, 2019, www.resistentenzealnanomondo.org
[8] Pièces et main d’œuvre, “Ceci n’est pas une femme (à propos des tordus queer)”, 2014, www.piecesetmaindoeuvre.com
[9] Certamente in alcuni casi è così, ma non sto considerando il capitalista, o la capitalista, sto prendendo in considerazione tutti e tutte noi che rientriamo, più o meno, in quei gruppi che ho prima menzionato.
[10] Wokeanarchists, op. cit.
[11] Marco Maurizi, “Il personale, il politico e il capitale. Perché essere ecologista, femminista, queer, antirazzista, antispecista ecc. non fa di te un anticapitalista”, 2017, marcomaurizi74.files.wordpress.com

 

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