Il Green New Deal e l’ecologismo di Stato: la trappola della sostenibilità

Il Green New Deal e l’ecologismo di Stato: la trappola della sostenibilità

Negli ultimi anni abbiamo visto un cambiamento e una trasformazione radicale all’interno dei sistemi economici più avanzati, non solo al Nord, ma anche in tanti paesi del “Sud del mondo”. Questo cambiamento non è stato solo nel loro modo di procedere ma piuttosto in un continuo livellamento e aggiustamento della loro propaganda per giustificare lo sfruttamento e la depredazione continua del pianeta.
Da una parte l’industria, anche quella tra le più inquinanti al mondo, si è rifatta un’immagine sostenibile con politiche verdi. Un esempio tra i più significativi è stato il proporre di contrastare il cambiamento climatico con lo scambio e la compravendita di emissioni di CO2. Dall’altra parte proliferano nuovi ambientalismi impegnati a cogestire con i poteri dello stato il mantenimento degli stessi livelli di sfruttamento della natura: siano questi di natura chimica, genetica o altro.
Più recentemente si sta diffondendo un ambientalismo internazionale, come quello ispirato alla giovane svedese Greta Thunberg con il nome di Friday for Future accolto e cullato favorevolmente in ogni dove: dalle piazze al Vaticano, per arrivare fino a Davos. Un ambientalismo senza contenuto e soprattutto senza più nessuna conflittualità, senza una controparte con delle responsabilità precise: soltanto la denuncia di gravi problemi ambientali che si trasformano in emozioni collettive, come se bastasse prendere coscienza di un qualcosa per far sì che questo cambi.
Se fino a qualche anno fa la propaganda in difesa della natura portata avanti dal sistema industriale era quasi solo una retorica traballante, in tempi recenti siamo di fronte alla nascita di una vera e propria impresa: tutte le industrie, soprattutto quelle più inquinanti e nocive, hanno al proprio interno dipartimenti specifici su tematiche ambientali. Ogni loro discorso passa preliminarmente da una questione ambientale da affiancare ai propri processi produttivi, tanto che poi spesso questi divengono il frutto di vere e proprie economie e mercati verdi, anche se di verde vi era solo la pubblicità e la retorica nel ciclo di produzione.
Se tutto si è fatto più verde anche dove c’è chimica, cemento, silicio, manipolazioni genetiche, questo è stato a scapito della natura, sempre più degradata e distrutta in ogni parte del mondo. A farne le spese di questi processi è stata anche l’ormai risicata autonomia degli individui, spogliati prima materialmente e poi anche nella loro possibilità di dare senso alle cose, quest’ultimo aspetto è ormai prerogativa del potere e dei suoi cogestori e specialisti sparpagliati nei territori.
Il conservazionismo e l’ambientalismo di stato è riuscito a preservare una piccolissima parte di mondo naturale, per poter permettere di depredare il rimanente, nella sua protezione limitata e in gran parte esclusiva a particolari habitat e specie ha distorto il senso di cos’è un ambiente naturale e qual’è il nostro posto in questa natura che ci circonda. È stato soprattutto in nome della conservazione e protezione che è stato permesso di far sfruttare tutto il resto continuando a parlare di biodiversità. Ma la diversità della vita selvatica non può convivere con una società industriale sempre più tecnologica, come non vi può essere una vera libertà e autonomia in una società sempre più atomizzata, dove per natura si intende il parco cittadino o quelle pseudo campagne dove i contadini non esistono più da molto tempo. La campagna bucolica e il parco inteso come luogo di conservazione torneranno per descrivere l’andamento del mondo, anche se probabilmente non ancora per molto, visto che l’industria dell’alta tecnologia è andata ancora oltre e sembra essersi emancipata dal discorso sulla natura, perchè adesso conta di mandare avanti la propria di natura, quella che viene dal laboratorio e ha bisogno di un mondo laboratorio per sopravvivere. Più il sistema parla di natura e più questa viene distrutta e allo stesso tempo manipolata finchè è possibile o addirittura sostituita. Ma dove il sistema vorrebbe scordarsi della natura è questa che torna a ricordargli la sua esistenza restituendo erosione del suolo, acidificazione dei mari, degradazione della biodiversità e soprattutto un clima sempre più alterato.
Questa continua concezione e “depredazione controllata” della natura è la stessa che ha spianato negli anni, e soprattutto nei tempi attuali, l’attacco ai nostri stessi corpi come lo erano già da molto tempo prima i corpi degli altri animali: prima addomesticati e resi docili e successivamente schiavizzati nelle moderne linee di smontaggio zootecniche. L’obiettivo mai come adesso è stato chiaro: distruggere prima la natura fuori e dopo quella che è dentro di noi.
L’assordante coro che è iniziato con il movimento verde conservazionista protezionista e anche antispecista si affanna a parlare di ecosostenibilità: ma può esistere qualcosa di sostenibile all’interno dei paradigmi industriali e iper-tecnologici?
Il discorso stesso della sostenibilità è un prodotto del linguaggio che gli stati e le grandi multinazionali utilizzano quando si interrogano sulle strategie per salvare i loro profitti e sul mantenimento dei loro privilegi, soprattutto trovandosi in un’epoca di importanti rivolgimenti nelle fonti energetiche.
La sostenibilità non è un tipo di discussione che si presti benissimo a un’avvio di una trattazione di temi etici, almeno che questa etica non sia già diventata un involucro vuoto. L’idea stessa di sostenere qualcosa si lega strettamente all’idea che “esistere” significhi “andare sempre avanti” lasciando più o meno tutto in una condizione inalterata. Quello che supporteremmo con l’avvallo di questa sostenibilità non sono altro che le forze oppressive. Ogni volta che una grande compagnia tira fuori questo termine, si pensa che questa si stia riferendo al sostegno verso le forme di vita minacciate, ma le grandi compagnie stanno in realtà discutendo su come sostenere se stesse. Se a parlare di ecosostenibilità sono gli stati la questione non cambia, anzi la peggiora nettamente perchè serve a mantenere inalterata la situazione. La stessa proliferazione atomica ha avuto il suo massimo sviluppo grazie a impegni in campo civile e quindi pubblico: un’unica produzione per una doppia filiera, da una parte l’energia per mandare avanti questo sistema e dall’altro le bombe atomiche.
Lo stato moderno per lo meno nei paesi occidentali rappresenta l’interfaccia tra il sistema economico e la natura, è l’organismo che regola l’uso delle condizioni di produzione affinchè queste possano essere sfruttate con il massimo profitto e per il maggior tempo possibile dallo stesso sistema. Senza questa interfaccia, la natura consegnata alla tecno-industria moderna sarebbe stata rapidamente distrutta nella sua totalità.
Soffermarsi verso le conseguenze ultime ambientali, non solo è controproducente ma permette la perpetuazione degli attuali livelli di sfruttamento continuamente rinnovati e ampliati con le tecnoscienze. Di fatto quando parliamo delle produzioni industriali siamo di fronte ad un avvelenamento controllato o come avviene per molte sostanze, come ad esempio l’asbesto o la diossina, questo avvelenamento è solo rimandato. Chi regola questi flussi tossici, quando regola vi è, sono sempre quei consorzi verdi ormai indispensabili e inseparabili dal potere, dove in un mercanteggio di soglie di tolleranza, si imbastiscono schiere di specialisti e nuovi specialismi. Nuovi tecnici sempre più all’avanguardia con i tempi, che spesso superano gli stessi tempi, come per esempio per le nanotecnologie dove si intravedono già le gravi conseguenze prossime e si corre ai ripari; l’importante di fatto è che tutto resti com’è, ma che vi sia una percezione che qualcuno, con le competenze per esserlo, ha la situazione sotto controllo, un pò come il ruolo che era stato dato a quei poveri tecnici disperati a cui era stato consegnato in mano la sicurezza del reattore di Fukuschima dopo il disastro. Ovviamente una sicurezza impossibile da dare, ma per il potere era fondamentale dare quell’immagine di situazione sotto controllo, nessuno avrebbe potuto smentirli e nessuno si ricorderà più di loro dopo qualche anno, quando arriveranno inesorabili le conseguenze mortifere dell’irradiamento radioattivo.
Le grandi organizzazioni ambientaliste svolgono per il sistema industriale lo stesso lavoro che i sindacati portano avanti per il mondo del lavoro: ammortizzano ogni possibile tensione e reale possibilità di scontro e conflitto. Tutto arriva sempre ad una mediazione che per il Pianeta significa sempre altro sfruttamento, perchè nella società industriale l’esigenza primaria è sempre l’accaparramento di risorse naturali, non vi è cambiamento climatico che possa fare la differenza.
Spesso queste organizzazioni, di cui in tempi pià recenti possiamo anche aggiungerci quelle antispeciste sono vere e proprie costole del sistema: lo rappresentano benissimo facendone le veci dove occorre. In molti paesi del sud del mondo questi organismi inaugurano anche nuove forme inedite di razzismo ambientale che si traduce nel promuovere la deportazione di intere popolazioni locali, per far posto a riserve e parchi o per proteggere singole specie animali in molti casi armando veri e propri eserciti di protezionisti della natura. Si proteggono gli scimpanzè in Africa ma non si pensa all’ecosistema nel suo insieme dove essi vivono. Queste multinazionali verdi come il WWF non solo si arricchiscono ma soprattutto permettono una gestione e uno sfruttamento di territori impossibile senza la loro presenza, il tutto ammantato dalla tanto decantata ecosostenibilità.
Per il sistema la crisi ecologica oltre a rappresentare una grossa minaccia ormai di dimensione planetaria questa è anche una grande possibilità. Questa possibilità non è solo di natura economica, permette tutta una ristrutturazione al prezzo di libertà, corpi, natura che si perdono o si trasformano irrimediabilmente sotto i colpi delle tecnoscienze. Da qui l’idea avanzata da alcuni storici secondo cui l’ecologia, e lo stesso concetto moderno di natura, trova una delle sue origini nella colonizzazione e nel controllo delle regioni colonizzate. Questo controllo presuppone che le risorse siano sottratte dalle mani degli autoctoni, giustificando il discorso “paternalista” che afferma la loro incapacità a prendersene cura. L’imperialismo ecologico e l’imperialismo culturale trovano qui il loro punto di fusione.
Sarebbe impensabile in tempi di normalità ottenere quello che il sistema può ottenere in tempi di crisi. Una situazione di emergenza accellera ogni processo che poco prima era impensabile, tanto che non vi è il tempo a livello sociale di digerire un cambiamento che già ne arrivano altri e altri ancora. In questo senso la tecnologia con i suoi tempi che non consentono pause e mirano ad una senpre maggiore velocità e connessione ci stanno predisponendo benissimo a questa situazione. Il cambiamento climatico è destinato a restare nel nostro “spam mentale” come qualcosa di indesiderato, che si spera di eliminare al più presto. Con un linguaggio nuovo e performante che non sarà più solamente preso in prestito dalle tecno scienze ma che diventerà il nostro stesso linguaggio.
Il sistema tecno-scientifico nei suoi sviluppi più evoluti è sempre oltre a quello che attualmente il contesto sociale è pronto ad accettare. Nei laboratori vi è molto di più di quello che può avere un’applicazione immediata: il piano è cambiato. Non è più solo l’industria che guarda la ricerca scientifica, ma è quest’ultima che muove e trasforma l’industria fattasi tecno-scientifica con una tale sintonia che non è più possibile farne una separazione e affrontarle singolarmente come ancora spesso avviene soprattutto per ricercare una qualche forma di indipendenza scientifica ormai impossibile.

L’ambientalismo va alla guerra
Il moltiplicarsi delle catastrofi naturali comporta, in primo luogo, che le forze armate saranno sempre di più sollecitate a venire in aiuto e allo stesso tempo dovranno “pacificare” le popolazioni coinvolte. La sciagura dell’uragano Katrina nel suo essere stato anche un colossale disastro economico ha consentito l’espulsione e la messa a profitto di interi quartieri popolari poco redditizi e sicuramente problematici per i nuovi assesti urbanistici previsti nei programmi di aiuto. Inoltre nel rinnovamento in corso sono stati privatizzati e concessi alle corporazioni interi settori pubblici tra cui ovviamente anche le scuole.
Ciò vale anche per lo tsunami del 2004 in Asia che ha portato alla chiusura di numerose regioni costiere e prodotto l’insediamento di enormi catene commerciali. In Pakistan per il terremoto del 2005 sono intervenute le forze della Nato e durante il disastro climatico di Fukuschima ancora una volta i paesi sono stati messi sotto stretto controllo militare, gestioni che spesso soprattutto nei paesi del Sud del mondo assumono una presenza permanente.
In altri casi come in Europa nel 2003 dove un’ondata straordinaria di caldo causò la morte di oltre 35000 persone ha portato ad massiccio controllo sanitario sulla popolazione, con ancora una volta una gestione militare delle operazioni, ma questa volta in camice bianco.
L’entrata in campo della finanziarizzazione per far fronte alle catastrofi sempre più numerose dovute al cambiamento climatico si pone come soluzione alla crisi ecologica. Questi processi hanno però altri risvolti di tipo sociale che preoccupano non poco gli stati e gli investitori delle compagnie. Per questo i teatri dei luoghi dei disastri climatici, di cui New Orleans durante l’uragano Katrina è stato particolarmente significativo, diventano veri e propri laboratori dove sperimentare tecniche repressive ancora in formazione su vasta scala, in particolare con la militarizzazione di interi territori e la deportazione e carcerazione in molti casi di intere fasce di popolazione, soprattutto se questa è costituita da poveri.
Il cambiamento climatico viene preso molto seriamente da parte dei militari, tanto che in molti casi questi faticano a trovare un linguaggio comune con la politica. I primi essendo parte dell’elitè insieme alla finanza sono sicuramente in grado di pensare ad un tempo molto lungo che può essere di vari decenni, quel tempo necessario a incontrare le gravi conseguenze del cambiamento climatico. La politica invece è più legata alle proprie scadenze elettorali, quindi con tempi limitati che gli impediscono di approfondire il problema se non come mera descrizione o bieca strumentalizzazione.
La gestione da parte dello stato e delle multinazionali porta la crisi ecologica agli estremi: dopo aver consolidato un flusso finanziario pressochè continuo adesso entra in un processo di militarizzazione. Gli Stati Maggiori e tutti gli analisti dell’esercito sono consapevoli di questa situazione a cui si preparano già da anni nelle loro analisi strategiche dove inseriscono le conseguenze del cambiamento climatico. Già nel 2009 la CIA ha inaugurato un Center for Climate Change and National Security, che ha il compito di valutare gli effetti del cambiamento climatico sulla sicurezza nazionale e proprio quest’anno tra i temi dell’annuale incontro del Club Bilderberg vi era proprio il cambiamento climatico e l’etica nell’intelligenza artificiale.
Il forte interesse dell’esercito e quindi anche dell’industria della guerra verso le questioni ambientali è sicuramente un loro modo di stare al passo con i tempi, di non essere impreparati quando il peggio si presenterà. Le catastrofi naturali che di naturale hanno ben poco visto che sono causate dal processo industriale aggravano fortemente la crisi ecologica quando non ne sono la causa primaria, ad ora si contano 25 milioni di rifugiati climatici; queste catastrofi a loro volta portano fortissimi squilibri sociali indebolendo le istituzioni in carica, soprattutto nelle regioni più povere del mondo, dando così alle forze armate l’alibi per intervenire e imporre la loro presenza a tutti gli effetti come truppe di occupazione.
Le forze armate in questo scenario si apprestano a intervenire efficacemente da sole nel caos che ne deriverà, evoluzioni di questo tipo sono soprattutto attese nelle tre zone di interesse strategico dell’Unione Europea: il bacino del mediterraneo, l’Asia Sud Occidentale e l’Artico. Alcuni analisti sono arrivati ad ipotizzare che nel prossimo futuro le forze armate potrebbero esercitare la funzione di “specialisti del caos”, quale miglior clima per esercitare questo nuovo tecno-totalitarismo ammantato di difesa delle libertà e della natura.

Scioperare per il clima
Sicuramente è ancora presto per dire a cosa siamo di fronte, qualcosa di nuovo all’orizzonte c’è ma si fatica a capire che cosa sia. La novità è senza dubbio che si torna o si inizia a parlare di cambiamento climatico in una prospettiva di mobilitazione addirittura internazionale. In tutto il mondo tantissimi giovani sono scesi in piazza chiedendo genericamente che venisse fatto qualcosa per il clima del pianeta.
In senso quantitativo la protesta è sicuramente riuscita considerando l’altissimo numero di adesioni soprattutto da studenti che hanno scioperato le giornate di scuola per essere presenti in piazza; molto del lavoro di organizzazione delle proteste è partito proprio da dentro le scuole seppur poi negli appelli compaiono anche associazioni ambientaliste come WWF o Greenpeace che non hanno mai creduto in nessun movimento che partisse dal basso, lasciando sempre allo Stato o alle
multinazionali la possibilità di fare qualcosa per l’ambiente.
In senso qualitativo queste proteste sono figlie di questi tempi moderni virtuali dove si manifesta a “chiamata” dopo un martellante lavoro fatto sui social, dove sempre gli stessi brevi e rapidi messaggi “invitano ad esserci”. Queste mobilitazioni più che esprimere una protesta e un sano conflitto esprimono “un’emozione condivisa” che non parte da alcun percorso o progettualità che sempre accompagna ogni lotta. In queste mobilitazioni può non esserci alcuna progettualità perché non vi sono contenuti o analisi seppur preliminari che vadano nella direzione di costruirla.
Una qualsiasi protesta o lotta per definirsi tale necessita per forza di cose di una controparte a cui rivolgersi. Il cambiamento climatico non è qualcosa di astratto ma è molto concreto e necessita di interventi altrettanto concreti per provare a contrastarlo. Che cosa significa ridurre i responsabili della devastazione della Terra e ogni rivendicazione di liberazione ad una mera astrazione? Sicuramente questo comporta una totale inoffensività di questi movimenti: si sciopera e si scende in piazza, ma di fatto non si pretende niente. Un fattore positivo è che per la prima volta si è creata una mobilitazione internazionale su un tema a carattere ambientale come appunto il cambiamento climatico, ma è come se questa fosse arrivata troppo tardi o troppo presto a seconda dello sguardo che vogliamo dargli. Dai social network le proteste sono arrivate a concretizzarsi in piazza, una cosa rara di questi tempi, ma un tema centrale come il cambiamento climatico può soltanto perdersi in un simile contesto per la profondità e ampiezza di problematicità che non saranno mai indagate.
Nell’ultima assemblea molto partecipata che si è tenuta a Milano il movimento Friday for Future Italia ha provato a fare chiarezza soprattutto in un report successivo all’incontro. L’obiettivo condiviso è quello di far rispettare dai governi gli accordi presi a Parigi nel 2015, per far si che questi intervengano per mettere in atto provvedimenti che incidano in maniera tangibile sulle emissioni di CO2. Tra i punti principali è stato detto che “l’istruzione e la ricerca pubblica devono proporre modelli alternativi di sviluppo. I miliardi di finanziamenti pubblici ad attività inquinanti vanno spostati sull’istruzione, la ricerca e un piano di investimenti per la riconversione ecologica e la democrazia energetica”. Il movimento che nasce quasi interamente come studentesco, sia universitario che di scuola inferiore, si appresta quindi a proporsi come megafono per quegli scienziati che denunciano il prossimo disastro climatico. Quindi espressione ma soprattutto legittimazione verrà data a coloro che sono causa del problema, che ne rappresentano l’essenza stessa. Arrivare a parlare di democrazia energetica nel mentre la proliferazione delle armi atomiche raggiunge i suoi maggiori picchi proprio per accaparrarsi fonti energetiche e le ultime risorse naturali, sembra una vera fesseria. Ma nel campo dell’astrazione tutto è permesso, soprattutto quando si parla di mancanze o errori da parte del sistema industriale.
Il movimento di Friday for Future si rivolge a tutta la società, proprio tutta, tanto che trova consenso praticamente ovunque. Come se dall’altra parte, quella controparte che si fatica a vedere, avesse solo una disattenzione su com’è la situazione attuale o peggio che sia questione di aggiungere ancora altre voci al coro scientifico. Sfugge, o forse non si vuole cercare il nodo centrale del problema.
Una cosa che attira l’attenzione in tutti i vari slogan scanditi nella maggior parte delle piazze nel mondo durante gli scioperi del clima è quella di rivolgersi sicuramente alle istituzioni, ma anche alla “vecchia generazione”: voi siete responsabili di questa situazione, che ovviamente non abbiamo costruito noi, sta a voi quindi porvi rimedio. Ancora una volta come in passato entrano in gioco la delega, ma con queste nuove mobilitazioni si è ancora oltre perchè è una delega in bianco. Un tempo si chiedevano degli impegni per l’ambiente e dopo in un certo senso si vigilava che questi impegni venissero rispettati. L’impegno di cui abbiamo testimonianza oggi è un disimpegno e una deresponsabilizzazione totale da qualsiasi cosa. Almeno in Italia fino a non troppi anni fa la ribellione giovanile partiva da casa, verso quella società costruita o almeno rappresentata dai genitori, una società odiata dai giovani ribelli. Ma la gran parte dei giovani e giovanissimi soprattutto che compongono questi fenomeni collettivi di adesso indicano il problema la fuori ma dopo guardano razionalmente ai loro studi, in attesa di avere quelle competenze e soprattutto quei titoli, che permetterà poi anche a loro di diventare parte del problema più avanti. La cosa peggiore è che di questo ne fanno pure una rivendicazione.
La responsabilità è diventata individuale, gli appelli si rivolgono spesso alle singole persone: dopo averle scioccate con dati su dati di rinomati e sicuramente indipendenti scienziati si invita ad usare meno l’auto, a non prendere l’aereo, a riciclare… Si vittimizza quindi il singolo individuo sempre più atomizzato, dandogli però tutta una serie di poteri nuovi per gestire e cogestire la propria miseria di consumatore consapevole.
Il movimento Friday for Future si dichiara senza partiti e senza bandiere, pacifista e per la disobbedienza civile. Quindi astratto a livello teorico come a livello di prassi organizzativa. Cosa significa infatti nei tempi attuali essere per la disobbedienza civile? A quale tradizione si fa riferimento? Si potrebbe infatti pensare alle dure lotte dei diritti civili o alle ridicole contestazioni dei disobbedienti contemporanei che alzano sempre le mani anche se non hanno una pistola puntata contro. Nei tempi attuali definirsi pacifisti fa parte della coreografia dell’attivista coscienzioso e credibile, in genere non vi è in questi contesti un vero e proprio spirito consapevole non violento.
Qualsiasi tipo di trasformazione sociale di una qualche rilevanza è sempre passata da strade mai semplici e mai indolori. La questione sociale e quella della natura non avranno mai il loro senso e nessun significato verrà mai veramente indagato all’interno di un paradigma di potere che è il primo responsabile dell’attuale situazione, in cui come era prevedibile la degradazione della Terra sta raggiungendo anche i corpi e le chimere dei laboratori trovano sempre più nuovi interpreti.
Essere contro il cambiamento climatico significa disfarsi di questo sistema tecno industriale e di tutti i suoi sostenitori ambientalisti, di tutti coloro che pensano di riformarlo o sostituire qualche sua parte magari con pali eoliche o che non si rendono conto di come il sistema tecno-industriale può solo sopravvivere con gli attuali livelli di sviluppo a cui non rinuncerà se non obbligato da lotte o “disastri naturali” che non tarderanno ad arrivare nel prossimo futuro soprattutto per gli sconvolgimenti climatici. Oppure siamo di fronte ancora una volta a chi in nome della trappola dell’ecosostenibilità sta sognando nuove tecnologie verdi, ma queste rappresentano solo la chiusura del cerchio e nel cerchio ci siamo noi.

Costantino Ragusa, dal giornale L’Urlo della Terra, num. 7, luglio 2019

 

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