EXPO 2015 Il supermercato del futuro

Si stanno riscrivendo in questi anni le rotte e ridefinendo i luoghi su cui viaggiano e impattano i capitali, per questo viviamo a ogni latitudine una sanguinosa lotta tutta interna alla classe dominante per le posizioni egemoniche internazionali e una ridefinizione degli assetti di potere anche a livello locale. Una lotta che travolge tutto e tutti, allargando le disuguaglianze sociali e generalizzando le crisi ambientali.
Nella complessità di questa scena sempre più attori del mercato globale stanno indirizzandosi verso settori descritti come le basi di un nuovo progetto capace di rinnovare dalle fondamenta l’economia capitalista grazie all’appoggio di apparati militari, influenti associazioni industriali, lobby e istituzioni statali e internazionali finanziatrici, con il beneplacito di compiacenti organismi di controllo come la European Food Safety Authority in Europa e la Food and Drugs Administration negli Stati Uniti: una impalcatura costituita da brevetti, prodotti, esseri viventi e servizi basati sulla manipolazione della materia e sull’ingegnerizzazione della vita, sulla creazione di ambienti e applicazioni tecnologicamente dialoganti con corpi umani predisposti e con appendici robotiche, cioè OGM, biotecnologie e nanotecnologie, tecnologie della comunicazione e dell’informatica, scienze cognitive e robotica.
Per garantirsi un futuro e proseguire con i suoi piani di sviluppo l’iniquo e impietoso sistema tecno-industriale utilizza questi settori per rilanciare se stesso mostrandosi nuovo, portatore di ricchezza, ecologicamente sostenibile, attento alla salute delle persone e all’inquinamento e vicino alla scoperta di soluzioni energetiche naturali e post-petrolifere. In questo modo per l’ennesima volta viene raccontata una storia sentita e subita più volte: c’era una volta un sistema creatore di un mondo nuovo, verde e blu, abitato da creature in pace e benessere che si rivelò essere caratterizzato da un diffuso stato di distruzione, assoggettamento e biocidio. I paladini di questa scienza e di questo mercato sono in azione da tempo, protési alla ricerca di legittimità e consenso perché venga conferito al sistema che incarnano il ruolo di deus ex machina, salvatore del mondo e paladino nella ricerca e nell’ottenimento di soluzioni a tutti quei fenomeni considerati dalla classe al potere come “i problemi odierni e di domani”.

 E’ in questo quadro che vogliamo inserire il ragionamento e la critica a EXPO2015. Una esposizione -titolata “Nutrire il pianeta, energia per la vita”- asservita a questi settori, che non aprirà il primo maggio e non chiuderà i cancelli il trentuno di ottobre e che neppure avrà avuto inizio nel 2008, anno in cui la città di Milano si comprò la possibilità di ospitare una simile manifestazione: le trame che lo sostengono e lo caratterizzano -scientifiche, politiche, economiche, sociali- sono in azione da anni e si comprendono in quanto scelte di politiche neoliberiste scritte in un quadro di riposizionamento di assetti globali e alla luce di crisi sociali, economiche e ambientali.
EXPO2015 è in questo momento storico il principale dispositivo utilizzato in Italia e in Europa per dare una accelerazione verso una rinnovata legittimazione politica delle istituzioni e per rinsaldare un nuovo patto tra ricerche, tecnologie industriali e opinione pubblica, società civile, pubblico dei mass-media, turisti, elettori e consumatori, sotto l’egida degli argomenti della pacificazione sociale in nome del made in Italy e dell’uscita dalla crisi economica e ambientale. A breve termine l’obiettivo di questo evento è stato ed è la spartizione dei bandi, delle opere infrastrutturali e l’ottenimento di “riforme” politiche in senso ulteriormente liberticida; quello a medio-lungo termine punta a sdoganare e legittimare culturalmente ed economicamente, attraverso una massiccia opera di educazione sociale, ciò che finora è stato affrontato da una ampia popolazione con contrarietà e legittime resistenze perchè consapevole delle nocività e dei ricatti delle multinazionali: prodotti, esseri viventi e servizi basati su OGM, biotecnologie e nanotecnologie.

 Poiché tutto ciò che possiede un alto contenuto tecnologico -dai sistemi di controllo agli artefatti, dalla robotica alle forme viventi con geni modificati, dai farmaci di ultima ingegnerizzazione alla produzione di bio-carburanti- è ormai spesso incomprensibile nei suoi elementi chiave per chi non ha effettuato specifici studi o per chi è esterno alle “comunità scientifiche”, EXPO2015 si appresta ad annullare le paure e a conquistare le opinioni e le abitudini della platea mettendo questo veleno altamente tecnologico direttamente nella filiera del cibo e nei piatti dei visitatori, cercando di rassicurare i commensali con parole quali “progresso ecosostenibile”, “sicurezza alimentare”, “innovazione tecnologica” e “qualità della vita e della salute”. Parole e campi semantici vuoti o ingannevoli, che si trasformano in concrete manifestazioni del claim “Nutrire il pianeta, energia per la vita”: saranno cibo e alimentazione -la prima metà di questo slogan- le colonne portanti dei discorsi e delle situazioni con cui si cercherà di imbonire i dubbiosi e portare i già favorevoli a esserne testimonial nella vita quotidiana.
Facendo anche leva su quella grande mole di lavoro svolto in questi anni da tutti i programmi televisivi e radiofonici e da tutte le pubblicazioni sul cibo, EXPO2015 si muoverà cercando e indirizzando il coinvolgimento della dimensione emotiva ed esperienziale di scellerati collaboratori, corresponsabili visitatori e tristi lavoranti a pagamento o gratuitamente. In altre parole questo perverso luna-park di scienze applicate, in cui esseri umani e animali si troveranno in un immenso laboratorio a cielo aperto, sarà fruibile attraverso un intrattenimento incentrato su sensi eccitati e commercialmente orientati, in primis il gusto, dal primo maggio 2015. Le prove generali sono però in atto già da tempo, gli attori sono in azione e non si fermeranno il trentuno di ottobre.
Solo facendoci carico di una diffusione massiva di forme di conflittualità e di autonomia dal sistema potremo pensare che i cancelli di questi stratagemmi neoliberisti si chiudano per sempre. O meglio ancora, non si aprano mai.

La presenza dentro Padiglione Italia -una serie di edifici e spazi che hanno l’ardire di mostrare lo stato dell’economia nazionale legata al claim– della mostra “Fab Food – La fabbrica del gusto italiano” voluta da Confindustria con le indicazioni decisive del Museo nazionale della scienza e della tecnica di Milano, di FederChimica e AssoBioTec, articolandosi tra educazione, intrattenimento e circuizione, avrà il compito di mostrare quella che viene descritta entusiasticamente come la rivoluzione in atto. Una rivoluzione che, come detto, trova nel cibo il punto di contatto “ecologico” tra produzione e consumo e nell’atto del consumare la chiusura di un cerchio destinato a ripetersi all’infinito. La presentazione ufficiale di questo luogo è già un manifesto di sviluppo economico tra i più pericolosi:
“Obiettivo della mostra è far conoscere ai visitatori di Padiglione Italia come sia possibile ottenere, rispettando l’ambiente e le risorse del mondo, prodotti alimentari sicuri, di qualità, a prezzi accessibili e in quantità sufficiente per tutti grazie all’industria e alle sue tecnologie.
In un ambiente divertente, il progetto proporrà, con attrazioni creative, ma puntuali, le articolazioni e le connessioni della filiera agro-alimentare italiana. In un percorso di 10 sale si vedrà come nasce il cibo, dal seme nel campo ai prodotti consumati a tavola, e si spiegherà cosa significano e come si riescono a presentare concetti determinanti come “food safety” e “food security”, senza perdere il gusto delle buone cose della tavola italiana. Lo spazio, studiato soprattutto per accogliere giovani, scuole e famiglie insieme al pubblico internazionale, accompagnerà i visitatori in un percorso interattivo ed emozionale verso la consapevolezza che le scelte che gli abitanti della terra faranno oggi, influenzeranno il cibo di domani”
Di fondamentale importanza è anche riportare la chiusura estrapolata dai materiali distribuiti alla conferenza stampa della presentazione di questa mostra (13 marzo 2015): Questa la proposta di “Fab Food – La fabbrica del gusto italiano” per aiutare le giovani generazioni e le famiglie ad accogliere in modo più consapevole una cultura non ideologica sull’alimentazione sostenibile, dove ognuno faccia la sua parte, senza soluzioni facili, ma con la piena fiducia nella scienza e nelle istituzioni.

 

Il senso di questa irreversibile proposta di delega e questo discorso normalizzante non possono passare inosservati: state tranquilli, genitori, fidatevi di noi e fate la vostra parte (non smettete di consumare e, quando ve lo permettono, di votare). Anche i vostri figli sono dalla nostra parte, non vedete come si divertono? Avete visto quanto hanno “imparato”? Andiamo verso un pianeta migliore grazie a una scienza buona e neutra, non-ideologica, sorretta da istituzioni lungimiranti. Brindisi al cianuro per questa retorica mefitica.

Altrettanto interessante è leggere quanto dichiara in materia di “ricerca biotecnologica verso nuove risorse per la nutrizione” il Gruppo di lavoro di biotecnologie alimentari di AssoBioTec, uno dei più coinvolti nella progettazione della mostra “Fab food – La fabbrica del gusto italiano”: “Il settore delle biotecnologie agro-alimentari, all’interno del più vasto campo delle biotecnologie industriali, rappresenta un settore strategico importante per il nostro Paese, che potrebbe consentire di recuperare la capacità di orientamento del sistema produttivo italiano verso assetti più compatibili con l’evoluzione degli scenari competitivi internazionali, già fortemente influenzati dalla ricerca di prodotti eco-sostenibili e da processi più selettivi con minore, o nullo, impatto ambientale”.
In altre parole: finanziate e sostenete il settore delle biotecnologie, nello specifico quello agro-alimentare, perché è la bussola da seguire per ri-orientare tutto il sistema produttivo e recuperare il gap con l’estero. Un’indicazione che, in toto o in parte, sta venendo seguita dall’evento milanese, dato l’enorme spazio di movimento lasciato a questi settori e ai loro interpreti.
In questo senso suonano ridicole le affermazioni pubblicate nel “Rapporto 2014 sulle biotecnologie in Italia” che, ricorrendo alla retorica del “si è sempre fatto così” in materia di natura, incroci e pratiche di modificazione, dichiarano: Trascurare gli OGM significa non comprendere il futuro dell’alimentazione e ignorare i mercati mondiali dai quali importiamo il 30% delle proteine che consumiamo.
L’Unione Europea ha investito 100 milioni di euro per studiare, in laboratori pubblici, la sicurezza degli OGM; il risultato sono centinaia di pubblicazioni e di documenti che certificano che gli OGM sono sicuri per l’ambiente e la salute. Insomma, si è finanziata la migliore ricerca e se ne ignorano i risultati. E se l’Europa ha compreso che l’opposizione politica e mediatica agli OGM costituisce un grave danno all’economia, l’Italia corre il rischio di escludere da un evento mondiale, quale Expo 2015, non solo le tecnologie OGM ma la stessa innovazione in agricoltura. Una posizione illogica, espressione di una cultura antiscientifica sempre più radicata nel nostro Paese.”

Pericolose e, ripetiamo, ridicole: almeno due dei massimi player del settore OGM e della chimica di sintesi saranno presenti a Milano con i palesi obiettivi di mettere in vetrina la bontà ecologica e salutista dei loro prodotti e i vantaggi delle loro ricerche e delle loro applicazioni, aspettando che il trattato TTIP abbatta qualunque barriera normativa e protezionistica per il loro ingresso in Europa. Sono Pioneer DuPont come finanziatore del Padiglione USA, in attesa di poter coltivare e commerciare già da subito in Europa il mais OGM 1507, e Monsanto, presente già in incontri sponsorizzati EXPO2015 sotto le vesti di AIGACOS (Associazione Italiana per la Gestione Agronomica e Conservativa del Suolo) nel progetto “Agricoltura blu – 100 km blu” che, come dicono, sarebbe “un progetto di cooperazione scientifica, tecnologica e di sviluppo internazionale per attivare un processo virtuoso di accumulo nel suolo di CO2 prodotta dalle aree metropolitane, mitigare gli effetti del cambiamento climatico, integrati ad una agricoltura efficiente e sostenibile a livello economico”. Come fare? Tra le tecniche suggerite troviamo la “semina su sodo”, che “non implicherebbe nessuna preventiva lavorazione per la preparazione del letto di semina, realizzata con specifiche seminatrici a dischi o a falcioni. Il controllo delle infestanti è realizzato con Roundup prima della semina”. Dunque come fattore necessario per garantire questo processo troviamo il mortifero Roundup, diserbante a base di glifosato, colpevole di tumori, malattie neurodegenerative, biocidio e avvelenatore di suoli e falde acquifere, agente di azione preventiva verso qualunque forma di vita considerata “infestante”. Nel ballo delle mistificazioni scrivere semplicemente “qualunque forma di vita” -senza specifiche- sarebbe tristemente più corretto.

Cibo e alimentazione, con tutto quello che comportano, non verranno “solo” messi in mostra, ma verranno anche cucinati, assaggiati, comprati. Al di là dei punti ristoro sparsi tra i padiglioni degli stati nazione, delle multinazionali e degli organismi internazionali, il luogo scelto per effettuare questo esperimento scientifico-sensoriale di massa e per sdoganare questi elementi fondanti l’ideologia tecno-industriale ha un nome e una posizione precisa nell’area dell’evento: il Future Food Distict. Sarà un “supermercato del futuro”, per usare le parole di chi al progetto sta lavorando da tempo: COOP Italia, marchio della grande distribuzione che commissiona direttamente ai suoi fornitori ordini in materia di ricerche sul cibo che poi vende coi suoi brand; Massachussets Institute of Technology di Boston, da decenni luogo votato alla ricerca tecnologica finanziata da apparati militari e industriali; Merieux NutriSciences, multinazionale che lavora e sperimenta ciò che riguarda la sicurezza alimentare, le ricerche su prodotti e il marketing sensoriale legato a pratiche di consumo.
Questo luogo si appresta dunque a essere un ambiente studiato nei minimi dettagli, dove i pensieri, i comportamenti e le scelte delle persone saranno prevedibili e monitorati, indirizzati dal design delle strutture e dalle tecnologie che le irroreranno.
Rendering, comunicati stampa e alcuni video mostrano ciò che dovrebbe accadere in questo Future Food District: consumatori che sperimenteranno -e che a loro volta saranno tracciati nei movimenti e nelle scelte- pratiche di consumo attraverso la cosiddetta “realtà aumentata”, cioè una esperienza dell’ambiente mediata e manipolata da strumenti elettronici quali smartphone, tablet, guanti, auricolari o telecamere che si aggiungono ai sensi biologici e alle informazioni già possedute; in tutto questo gli acquisti verranno effettuati con le immancabili carte di credito o con i telefoni cellulari, interfacciandosi a schermi e a robot e utilizzando carrelli informatizzati e costruiti per diventare “ponti di contatto” con altri consumatori-clienti-turisti tramite tecnologie che ricordano gli strumenti a radio-frequenza RFID in un oceanico “internet delle cose”.
L’uso della “realtà aumentata” è un fenomeno particolarmente pericoloso perché va ad insinuarsi nei processi psicologici e sensoriali dell’individuo. Quella che inizialmente appare come una espansione dell’esperienza ordinaria, in realtà non è altro che una privazione della percezione individuale di ogni senso umano. Il giudizio personale attraverso i nostri sensi -quel poco che ancora rimane per quanto riguarda i prodotti alimentari industriali, colorati e confezionati già all’origine per orientare sensazioni, pensieri e reazioni- nel processo della realtà aumentata verrà quasi completamente annullato per concentrare l’attenzione su un’unica immagine filtrata dai pixel e applicazioni e, più in generale, su rappresentazioni tecnologiche del mondo esterno. Non solo attraverso tablet e smartphone l’individuo non avrà più esperienza dell’odore, della sensazione tattile o del colore reale, ma l’esperienza fornita attraverso il dispositivo elettronico verrà confezionata da esperti di psicologia e marketing che lavorano affiancati all’interno del settore pubblicitario delle corporation. In sintesi, questa è la descrizione di un’esperienza della rappresentazione della realtà attraverso passaggi tecnologici, non della realtà diretta. Una rappresentazione, tra l’altro, su cui l’utente finale non ha modo di indagare e che trova già data, nel senso che le informazioni che vengono convogliate tra le due macchine, nel processo input-output di dati inviati-ricevuti, sono scelte e impacchettate a monte dai produttori stessi. Si ripete quindi la medesima operazione di selezione già in corso sin dalla nascita del cibo inteso come merce da supermercato: così come i prodotti valutati antieconomici o inadatti agli scaffali spariscono e vengono confinati nella marginalità del mercato, allo stesso modo informazioni inadatte alla vendita o alla narrazione scelta dai produttori restano escluse dallo scambio di pacchetti di dati tra macchine.
Sono in atto due fenomeni da non sottovalutare nella loro pervasiva pericolosità: da un lato si delega ad altri -individui o macchine- il piacere, il potere e la responsabilità della conoscenza, dall’altro la diffusione e l’abitudine a questa fruizione della realtà vengono sfruttate da soggetti del mercato per farne operazioni di marketing, che promettono di godere di forme di esperienza e di apprendimento attraverso l’atto dell’acquisto.
Questo modello in miniatura di un mondo soggiogato alle macchine e di una quotidianità brutalizzata chiamato Future Food District, per come lo prospettano istituzioni e partner commerciali riuniti in EXPO2015 assolve un altro degli obiettivi degli organizzatori: esso è infatti un elemento fondamentale per la politica economica scritta dal Comune di Milano e da Regione Lombardia da una decina di anni che, usandolo come trampolino di lancio e adattandolo al contesto metropolitano, vogliono fare della città una smart city da vendere alle prossime fiere del turismo, ovvero uno spazio in cui vivere e praticare la “realtà aumentata”. Il risultato di queste scelte sarà una città pensata per turisti, un’area urbana disegnata per esperienze fugaci mediate da una tecnologia sempre più invasiva e un ambiente asservito alle esigenze della comunicazione informatica.
Tutto questo è particolarmente indigesto per chiunque sia consapevole delle conseguenze che questa mole di portati tecnologici applicati alla vita e all’ambiente porta con sé: maggiore potere in mano a multinazionali e lobby che indirizzano costantemente scelte politico-istituzionali e che regolano ambiti e spazi tra pubblico e privato; maggiore presenza di meccanismi di delega a un corpo sociale formato da autoproclamati “esperti”, scienziati, imprenditori e azionisti a scapito di tutta una serie di pratiche di libertà e saperi; maggiore sfruttamento della vita, in tutte le sue forme, intesa come fenomeno su cui sperimentare in modo indiscriminato, appellandosi all’idea di scienza neutra e al servizio del progresso; maggiore legittimità data a pratiche di ricerca, estrazione e produzione che, quando sdoganate, allargano le loro aree d’influenza e di concreta presenza ovunque, dal pasto quotidiano nelle nostre case alle aree non civilizzate, integre e selvagge della terra e dei mari.

Toccando temi quali “produzione alimentare, esperienze di consumo, tecnologie applicate e risorse energetiche”,  EXPO2015 si posiziona come fenomeno-principe della green-economy, cioè di quell’economia neoliberista che assorbe i concetti di “limite” ed “esauribilità” applicandoli a quelle che considera risorse -acqua, minerali, foreste, esseri viventi e habitat in genere- per riutilizzarli nei laboratori, nel marketing, nella geopolitica nazionale e internazionale. Un sistema che deve dichiararsi “sostenibile” per provare a nascondere quanto non lo sia e per spingere verso una millantata “rivoluzione verde”. E’ in questa area semantica che trova adeguata collocazione la seconda metà del claim “Nutrire il pianeta, energia per la vita”, anche se finora ha faticato a posizionarsi nella retorica dell’evento alla stessa altezza della questione alimentare, nonostante la massiccia presenza di capitali elargiti da ENEL ed ENI; altrettanto vero è però che nell’economia quotidiana di molte persone i discorsi sul cibo sono meno importanti dei discorsi sulle fonti energetiche per la casa, per le proprie appendici tecnologiche e per la propria autovettura. Seguendo quest’ultimo ragionamento -causa ed effetto di supposti bisogni individuali- come un grimaldello per camuffare le necessità di un intero sistema tecno-industriale sempre più energivoro e incatenante come quello in cui viviamo, i settori biotecnologici e i loro finanziatori pubblici e privati stanno investendo enormi quantità di denaro in ricerche sulla possibilità di utilizzare fonti che non siano di provenienza fossile, ma provengano dall’azione di microrganismi ed enzimi sviluppati in laboratorio e da alghe e scarti di origine vegetale, cioè sulle cosiddette biomasse, ettari e quintali di colture coltivati ad hoc, estirpati o accaparrati come prodotti di scarto. E poiché nel processo che lega biomasse e bioraffinerie è basilare avere delle terre a disposizione su cui coltivare, si aprono ulteriori foschi scenari che parlano di deforestazione, di accaparramento di terre, di nuovi latifondi, di implosione sociale, di esodi di massa, di evaporazione di culture e legami. Il mondo già violentato da secoli di antropizzazione non si accorge di quanto accade altrove se non nelle forme delle migrazioni e nelle persone dei migranti e lo fa perlopiù attraverso mass-media che ulteriormente sviliscono e distorcono la realtà dei fatti, soffiando sul fuoco della paura, della sicurezza, del razzismo.
La composizione del nostro corpo e le necessità di natura portano il mercato a tematizzare anche l’acqua nei termini di energia, di risorsa esauribile e di “carburante della vita”, cercando di accaparrarsi in modo privatistico questo bene primario e bisogno reale. Dunque non meraviglia, ma neppure deve trovarci impreparati, che l’apparato tecnologico in formazione provi a spingere questa “rivoluzione verde” anche in questo senso: sono molte le multinazionali che lavorano sullo sviluppo di filtri biotech e nanotech con l’intento di presentare nuovi trovati della tecnica come necessari al mantenimento degli standard di utilizzo, depurazione e bevibilità dell’acqua. Un processo che, così descritto, mostra ancora una volta come non ci si curi di modificare alla radice il processo agricolo e tecno-industriale che inquina e corrompe le acque e l’ambiente tutto; il sistema si auto-assolve e lascia ai medesimi soggetti la possibilità di elencare i problemi di oggi, proporre le soluzioni e immetterle nel mercato domani.
Anche in tema di “energia per la vita”, qualunque sia la sua forma e i suoi sbocchi, la politica comunicativa e il disegno di formazione sociale ascritti a questa impossibile rivoluzione tecno-eco-sostenibile sono pericolosissimi e inducono a pensare come anche la partita dell’energia atomica e del nucleare -utilizzando nuovi materiali nano e biotech in lavorazione, proiettandosi oltre EXPO2015- sia potenzialmente riconducibile in un alveo di contrattazione e riaccensione.

L’affacciarsi di questo nuovo apparato, tanto ideologico quando concreto, ricorda l’azione manipolatrice dalle multinazionali dell’agro-business e della chimica applicata all’agricoltura nel corso del ‘900; questa, così come fu per quella, ha bisogno di parole d’ordine e scenari in cui mettere i suoi personaggi affinché siano credibili e legittimati ad agire. Un fenomeno che sta già accadendo: EXPO2015 si comporta come un dispositivo che dà indicazioni su precisi ordini del discorso pubblico, detta un’agenda, indirizza i dibattiti, si fa autore di racconti e mitologie e si presta a ospitare la genesi di nuove tradizioni. Un facile controllo delle cronache ci mostrerebbe come, a seconda dei periodi e dell’umore dell’opinione pubblica, i responsabili dell’evento milanese abbiano cercato di venderlo con uno sbandierato senso di orgoglio nazionalista come volano del rilancio dell’economia e dell’occupazione, così come il luogo in cui affrontare e risolvere i problemi della fame nel mondo. Hanno poi venduto e imposto i temi dell’evento su tutti i media allineati, che mentre agitano lo spettro del mostro terrorista chiamano ad un incremento della sicurezza affidato a Seles EX di Finmeccanica.
Un gigantesco e invasivo impianto ideologico i cui ambiti hanno significati, pratiche e immagini perlopiù nascosti dietro il velo della propaganda: il concetto del “benessere animale”, che parte dalla selezione genetica e arriva alle vetrine con pezzi di corpi in vendita, dentro confezioni di plastica ingegnerizzata e biotech, è un esempio di come funziona questo dispositivo.
EXPO2015 rappresenta infatti un passo ulteriore nella ricerca di legittimazione dello sfruttamento e della morte degli animali e di quelle pratiche speciste e antropocentriche che permettono la trasformazione delle loro indicibili sofferenze sotto la semplice e acritica definizione di “cibo”. Non per nulla la manifestazione internazionale degli orrori e delle crudeltà chiamata MeatTech, fiera dell’industria della carne promossa dall’Associazione industriali della carne e dei salumi e AssoFoodTec, si svolgerà accanto all’area dell’evento nel mese di maggio 2015 con i favori e la partnership di EXPO2015.
Dopo aver annusato le ultime tendenze di una fetta di consumatori sempre più consistente, che sembra interessarsi dal punto di vista etico, ambientalista e salutistico agli animali e ai derivati che fanno parte della propria dieta, le corporation hanno intrapreso una massiccia campagna marketing per adescare e indirizzare secondo i propri binari questi interessi emergenti. Quella che poteva iniziare ad affiorare come critica verso allevamenti e produzione alimentare industriale è stata prontamente intercettata, compresa e ritrasformata a vantaggio del proprio mercato. Una nuova frontiera del marketing si è quindi aperta: quella dell’animal welfare, ovvero il benessere animale.
Slow Food, Coop Italia e Eataly, partner che sostanziano il tema principale dell’evento, si sono impegnati molto per coprire la solida struttura dello sfruttamento animale su cui basano i propri guadagni e per rassicurare il consumatore della propria bontà e cura verso quei pezzi di animali in vendita sui loro banconi.
L’operazione è semplice: l’azienda si vende come attenta e compassionevole nei confronti degli animali rinchiusi nei propri allevamenti apportando minime modifiche al sistema di riproduzione e morte che ha sempre applicato al proprio business, senza però mettere in nessun dubbio l’eticità e gli interessi del sistema di sfruttamento. Da qui può iniziare una operazione retorica verso il corpo-consumatori per ricostruire un volto dell’azienda “buono, pulito e giusto” -per riprendere l’ipocrisia delle parole con cui si presenta Slow Food- e in questo modo riposizionarsi sul mercato con un valore aggiunto basato su sfruttamento e morte raccontati come elementi di una vita pubblicizzata come felice; dall’altro lato l’acquirente taciterà i suoi dubbi, si sentirà rassicurato nelle proprie pratiche alimentari e senza alcuno sforzo potrà continuare col medesimo stile di vita, sentendosi sollevato dal senso di colpa e al tempo stesso sentendosi fiero di aver finanziato un’azienda che alleva i propri animali all’interno di lager etici. Un’operazione che fa comodo a tutti gli attori del mercato e che si rivela molto insidiosa perché va a mascherare attraverso un mistificatorio apparato narrativo la realtà della condizione dello sfruttamento animale.
Dopo aver ben studiato i testi, le istanze e le parole chiave del linguaggio animalista e ambientalista, le aziende hanno iniziato ad inserirli nelle loro campagne di promozione e nei loro spot, presentandosi come amanti dei loro animali schiavi per rassicurare questa nuova fetta di mercato dal punto di vista dell’etica, della salute e del rispetto del pianeta.
Comunicati stampa, carte dei valori, statuti e pubblicità presentano ossimori di concetti in cui si parla di libertà per animali schiavi, di benessere per individui che vengono sgozzati al macello, di vita degna di essere vissuta per chi ha respirato per la prima volta l’aria fuori dai lager degli allevamenti solo nell’attimo in cui scendevano dai camion che li portava all’interno del mattatoio. Se da un lato, in alcune dichiarazioni sembra riconoscersi lo status di soggetti e individui ad animali rinchiusi e mercificati, utilizzando espressioni come “esseri senzienti”, “vita” e “bisogni etologici”, dall’altro all’interno della stessa frase o dello stesso discorso si torna a considerarli come “prodotti” e “ingredienti” in un continuo processo di reificazione.
Un pericolo ancora più sottile che risemantizza parole a cui viene fatto perdere il proprio significato primario in modo che possano essere usate all’interno di contesti opposti.
Un intervento che anestetizza prontamente il senso critico del consumatore e che pericolosamente cancella sbarre e mattatoi dai pensieri levandoli dalla vista dell’acquirente, attraverso la costruzione di una tradizione e di un immaginario di animali che razzolano nei prati e si rincorrono felici. Bastano piccoli accorgimenti nel linguaggio usato, nelle immagini delle pubblicità e nel mostrare bollini e premi conferiti da pseudo associazioni animaliste conniventi, che il pezzo di animale presentato nel bancone riesce a rassicurare il consumatore sulla sua vita felice se aveva dubbi etici, sulla sua salubrità se le preoccupazioni erano di tipo salutistico, e sul totale rispetto del pianeta se nutriva preoccupazioni sulla produzione di gas serra durante la sua breve vita.
Tutto questo viene amplificato da premi e sostegni di associazioni come Compassion In World Farming (CIWF), che elargiscono premi alle aziende che rispondono ai loro parametri arbitrari, in cui, tra l’altro, si parla di animali in chilogrammi e nemmeno in numero di individui.
Basta allargare di qualche centimetro la gabbia delle galline ovaiole o di mettere un posatoio nel capannone dei polli che finiranno congelati e le corporation del dolore potranno vantare tutto l’amore per i loro schiavi mostrandolo sul cellophane che impacchetta pezzi e corpi di animali e i prodotti delle loro sofferenze.
L’arroganza di questo mercato delle certificazioni e dell’animal welfare può essere racchiusa in una frase beffarda in cui CIWF enfatizza il proprio lavoro a favore degli animali in cui dichiara che i veri vincitori dei premi non sono le aziende che li ricevono, ma gli oltre 337 milioni di animali da allevamento che traggono beneficio dalle modifiche da loro suggerite per adeguarsi ai loro ridicoli parametri.

Come sappiamo gli interessi di mercato e quelli politici vanno a braccetto, dunque non possiamo non evidenziare come una esposizione universale come EXPO2015 appartenga alla categoria “grandi eventi” -come un’Olimpiade o un Mondiale sportivo- posizionandosi come fiore all’occhiello dell’economia degli eventi e del turismo; questo fa sì che gli appetiti di persone e società che lavorano con bandi, fondi pubblici, infrastrutture, urbanistica e consulenze possano scatenarsi. E, parallelamente, possa scatenarsi la ricerca di visibilità e consenso -e interessi privati- da parte dei soggetti istituzionali che garantiscono a un evento come EXPO2015 di realizzarsi. Ognuno ha il proprio corpo sociale di riferimento: chi il corpo-consumatori da rassicurare e sollecitare, chi il corpo-elettorale a cui chiedere consenso e voti dopo essersi autodichiarati “politici all’altezza della gestione della crisi”. Sarà per questo che politici di ogni colore fanno a gara per ingraziarsi i settori più trendy del momento. Gli sforzi affinché questi due corpi sociali non smettano di agire secondo la loro principale funzione sono incalcolabili e continui.
La classe politica ha usato e sta usando EXPO2015 anche per altre finalità. Due ci sembrano le più evidenti: un utilizzo del grande evento come laboratorio in cui sperimentare normative di governo del territorio che traggono legittimità da situazioni valutate strumentalmente come emergenziali ed eccezionali e prevedere una estensione nel tempo e nello spazio di quei “poteri speciali” fino ad ora conferiti a una singola carica o a un soggetto terzo posizionato arbitrariamente tra istituzioni e cittadinanza; un utilizzo del grande evento per riscrivere le politiche economiche e occupazionali dei prossimi anni, basate con un evidente salto qualitativo e quantitativo rispetto al passato sempre più su logistica e turismo, infrastrutture e trasformazioni territoriali, cooperative e bracciantato. Due finalità che ritroviamo inserite con vigore nell’impianto ideologico dello “Sblocca Italia” e del Jobs Act.
In tutto questo brusìo di dichiarazioni, artifici retorici e sfilate televisive c’è sempre stata una promessa più volte esplicitata dai portavoce dell’evento: che questa grande narrazione venga scritta a più mani -asserendo di tener conto in modo concertativo di ogni parere, dalle multinazionali alle singole famiglie contadine, dalle Università partner al più giovane degli alunni arrivato in gita scolastica- perché “ne va del futuro di tutte e tutti” come viene spesso dichiarato.

In questo clima di concertazione e di “occasione da non perdere” sono decine le ONG e le Onlus dell’ambientalismo, della cooperazione e del lavoro sociale a essersi fatte cooptare dentro l’evento sotto la sigla “Expo dei popoli”, un aggregato di realtà che in un manifesto di diverse pagine fa largo uso dei termini “sostenibilità”, “efficienza” e “diritti” appellandosi a Nazioni Unite e organismi internazionali, ma che non citano mai -né dunque condannano- OGM o agricoltura di sintesi, né parlano di semi o di autonomia e indipendenza contadina. Un lapsus o un’ammissione di realtà: se parlassero di indipendenza contadina anche il loro ruolo rischierebbe di saltare.
Con “Expo dei popoli” il grande evento ottiene in questo modo una più ampia legittimità agli occhi di milioni di persone che, se si indignano contro McDonald’s o altre multinazionali presenti, si rassicurano se si parla di ARCI, Legambiente, WWF, manitese, Oxfam, altromercato o simili. Dal canto loro le realtà dentro “Expo dei popoli” ottengono, più che “portare una voce critica dentro l’evento” come dichiarano in modo strumentale, la possibilità di stare accanto a soggetti economici e pubblici coi quali stipulare contratti di partenariato o accordi di vario tipo. E più EXPO2015 perde pezzi del suo racconto di sviluppo e di rilancio economico e più costringe la popolazione a scontrarsi con la concreta quotidianità che dall’evento stesso deriva, fatta di “disagi controlli indagini ritardi spreco di denaro pubblico spartizione di poltrone”, più diventa di fondamentale importanza la presenza di soggetti come quelli riuniti in “Expo dei popoli” ai fini della tenuta del consenso, della curiosità e della predisposizione all’acquisto dei biglietti d’ingresso al grande evento: sono questi soggetti infatti che potrebbero vantare un’aura di credibilità e autorevolezza ancora spendibile socialmente, almeno tra i loro dipendenti, volontari e simpatizzanti, e tra coloro che ne condividono i valori: questa aura, riverberandosi su EXPO2015, genera un subdolo e corresponsabile processo di legittimazione del grande evento. E di conseguenza su tutti i portati nocivi che esso veicola -tra cui OGM, biotech e nanotech- che restano tra i principali e al contempo i meno considerati anche da molti soggetti critici all’esposizione.

Un dispositivo che non può sedimentarsi né sostanziarsi senza l’utilizzo di programmi di formazione ed educazione sociale; per questo a tale processo partecipano le scuole, le Università e studiosi di ogni luogo che hanno definito contratti commerciali e di consulenza con la manifestazione milanese.
Un aspetto pericoloso, sottile e viscosamente inserito all’interno delle istituzioni educative sono i progetti pluriennali di EXPO2015 che ha permesso alle multinazionali sue partner di entrare all’interno della Scuola Pubblica.
EXPO2015 ha aperto il varco ad alcune corporation per salire in cattedra con il proprio brand e la propria visione del mondo mercificato attraverso convenzioni con il Ministero dell’Istruzione e progetti scolastici inseriti all’interno dell’orario disciplinare.
Una costruzione del consumatore del futuro attraverso un vero e proprio imprinting su giovani alunni col proprio marchio, veicolato per l’occasione dagli stessi insegnanti con il contributo dei genitori che approvano il progetto e che abdicano al proprio ruolo educativo per assumere quello di testimonial di un prodotto.
Come si potrebbe definire in altro modo la loro nuova funzione, dal momento in cui ritengono di poter far entrare acriticamente informazioni costruite e assemblate da una multinazionale del cibo che utilizza la classe per fare il proprio spot? Uno spot ancora più invasivo rispetto a quelli ordinari, dato che in questo caso si parla dei loro “prodotti” -così come queste aziende definiscono la trasformazione monetizzabile del dolore dei corpi degli animali- sotto una veste scientifica, oggettiva, sostenibile e salvifica per il pianeta.
In modo molto sinistro è proprio nel video della presentazione ufficiale di uno di questi progetti che si vede il subdolo utilizzo del ruolo degli insegnanti per influenzare i ragazzi, dato che, al pari dei genitori, sono qui definiti “le persone di cui si fidano di più”.
Una pratica che da tempo è stata sdoganata negli Stati Uniti, in cui le corporation sponsorizzano diversi progetti scolastici e i presidi li accettano col pretesto dell’atavica mancanza di fondi per l’educazione. Grazie ad EXPO2015 questo può diventare sistema anche in Italia. Un ulteriore spazio pubblico, questa volta la scuola, che viene conquistato riempiendosi di loghi e diventa un fresco catalogo pubblicitario delle aziende rivolto al corpo studentesco.
Per capire l’entità del processo avviato, è necessario entrare un po’ più nel dettaglio di uno dei progetti approvati e che da alcuni anni si trova all’interno delle scuole primarie e secondarie in preparazione dell’evento fieristico; una delle fette più ampie del mercato scolastico se l’è aggiudicata Rio Mare, marchio alimentare della Bolton Group. Questa multinazionale, che da anni basa i propri profitti sullo sfruttamento intensivo di animali marini e terrestri da mettere in scatolette di alluminio e su prodotti inquinanti di chimica di sintesi, è stata incoronata nel ruolo di Sponsor Unico del progetto Best Food Generation, con il pretesto di formare i giovani alunni ad avere un’alimentazione corretta e responsabile.
Dopo aver parlato nei 3 anni precedenti di varietà, scelta e spreco alimentare, quest’anno gli scolaretti e le loro famiglie si impegneranno a comporre ricette a base di tonno Rio Mare per concorrere anche quest’anno a vincere un premio, sbandierato sui giornali dal brand stesso e da EXPO2015, come un’ulteriore occasione per avere visibilità e farsi pubblicità.
Un concorso in cui, in realtà, l’unico vincitore è Rio Mare che si è aggiudicato la possibilità di farsi pubblicità nelle aule delle scuole italiane per questi 4 anni e un ulteriore premio per la sostenibilità d’impresa, proprio per la filantropia specista e l’amore devastante per l’ambiente profusi in questo progetto: “Nutrirsi correttamente per nutrire il pianeta” è uno degli slogan utilizzati per promuovere le lezioni nelle scuole.

Al di là delle imprescindibili considerazioni fatte in precedenza, il progetto appare ancora più impresentabile visto che questa multinazionale basa la propria ricchezza non solo sulla pesca, un’attività che da decenni ha devastato i mari di tutto il globo, ma addirittura su una specie sull’orlo dell’estinzione come è il tonno. Inutile sottolineare in questo passaggio l’ennesima contraddizione di EXPO2015, ma quello che salta agli occhi è come possa entrare nella Scuola Pubblica non solo un brand, ma addirittura la sponsorizzazione di un’abitudine alimentare che ha messo al collasso migliaia di specie marine. Quali informazioni potranno passare sulla condizione disperata dei mari, devastati da decenni dalla pratica dall’overfishing portata avanti da aziende come la stessa che ha scritto e promosso il progetto nella scuola?
Una contraddizione talmente evidente e insostenibile, che sulla pagina del sito di EXPO2015 dedicato ai progetti scolastici si trova un video che parla della pesca al collasso e sconsiglia l’alimentazione attraverso grandi pesci predatori, come appunto il tonno, in quanto “insostenibile” per il pianeta e si fa quindi un ”Elogio dell’acciuga”, che è il titolo del video.
In tutto questo, ancora una volta, l’insegnamento scolastico sottolinea il suo specismo incarnato nei libri e nelle parole.
Il tonno del progetto, deriso ancora una volta nelle sue rappresentazioni antropomorfizzate come un animale sorridente e felice di entrare nella scatoletta, verrà chiamato “ingrediente” e “prodotto”; si parlerà dei suoi valori nutrizionali e delle sue qualità organolettiche e non si aprirà nessuno spazio per le sue sofferenze, per il sangue, per il soffocamento nelle reti insieme ad altre specie che hanno condiviso la sua stessa tragica fine e per la sua specie che viene sterminata nella corsa delle diverse multinazionali della pesca per accaparrarsi gli ultimi esemplari prima che spariscano per sempre.
Senza dilungarsi in altri progetti simili ma neppure tacendoli, per denunciare come la cultura del consumo e la commercializzazione dell’infanzia stiano entrando prepotentemente nella scuola grazie a EXPO2015, un altro intervento che in questo momento si sta svolgendo nelle scuole primarie è dedicato all’acqua ed è targato San Pellegrino, marchio della Nestlé: ne ha promosso tutti gli aspetti, dai video e dalle schede al materiale da lasciare agli alunni e alle famiglie. In ogni sua parte campeggia il marchio San Pellegrino e la sua rassicurante stellina affinché negli anni a venire si crei nei supermercati quella fidelizzazione nata un giorno sui banchi di scuola.

Quanto detto sin qui non può avere solo un fine informativo, seppur importante che sia; quanto detto sin qui deve saper mobilitare una serie di azioni che traggano le mosse da una strategia conflittuale e consapevole circa lo “stato di salute” del problema e circa la galassia di nocività che da esso si propagano, partendo da quelle maggiormente subdole, invisibili e quotidiane. Non possiamo né dobbiamo permetterci di sottostimare le maglie sempre più strette che, usando le giornate milanesi come laboratorio e strumento di lancio, si stenderanno a livello globale su tutti gli ambienti, già antropizzati o ancora inviolati, con un maggior controllo tecnologico, biologico, educativo, burocratico e militare. E se abbiamo compreso che EXPO2015 è una rappresentazione di una trama già in atto, rivendicare e agire forme di conflittualità esclusivamente il giorno di apertura dei cancelli o nei sei mesi della sua formale durata sarà un segnale di vitalità necessario ma insufficiente, comprensione parziale del problema e dunque lotta destinata al fallimento, conseguenza di una incapacità a sganciarsi dall’attuale realtà per immaginarne e crearne una differente. Se l’oggetto-nemico è già in azione nelle sue molteplici forme, altrettanto molteplici e indipendenti dal calendario dovranno essere le risposte e dovranno saper essere anche frutto di una riflessione in materia di autonomia dal sistema vigente e di costruzione di relazioni tessute nella complicità, nella solidarietà e nella prospettiva progettuale di vedere qualcosa e qualcuno -selvaggiamente umano e animale- dentro e oltre le macerie dell’esistente.

Aprile 2015, rondoni in volo