François Kepes razionalizzatore delle macchine viventi – Parte prima

Il numero di giugno 2014 della rivista scientifica francese « Pour la Science » ha intitolato la sua copertina “Reinventare il vivente, quali sfide per la biologia sintetica?” la quale annuncia il dossier [1] dedicato a questa nuova tecnoscienza. L’illustrazione in copertina è rappresentata da una molecola di DNA costituita di circuiti elettronici…

L’articolo più interessante è senz’altro quello del genetista François Képès [2] intitolato “La biologia sintetica: verso un’ingegneria del vivente”.
Ma Francois Képès è, prima di tutto, un ingegnere e, per quel che riguarda la biologia di sintesi, sa ciò che vuole: fare del vivente – per il momento soprattutto i batteri più elementari – la nuova macchina utensile dell’industria biotecnologica.

 Ingegneria razionale
Ricordando che “all’ inizio degli anni sessanta, l’invenzione dei circuiti integrati ha trasformato l’ingegneria elettronica” (frase che ha manifestamente ispirato l’illustrazione della copertina della rivista), tesse l’analogia: “E se una tale combinazione di tecniche e di metodi fossero trasponibili in biologia? Se fosse possibile, anche in biologia, di disporre di una banca di utensili e di regole razionali che, combinate a seconda dei bisogni, aiuterebbero a capire il vivente fabbricandolo o a concepire e produrre secondo richiesta nuove funzioni biologiche che non esistono in natura? Da qualche anno, quest’idea si fa strada tra i biologi. Riuniti sotto il nome di biologia di sintesi, i loro approcci si costruiscono nell’interfaccia tra biologia e ingegneria, con apporti di chimica, di fisica, di matematica e di informatica. Hanno per obiettivo di iniettare nella biologia i principi che fondano ogni ingegneria. Di cosa si tratta? Quali sono le ambizioni della biologia di sintesi? Cosa permette oggi? Quali sono le sue prospettive e i suoi limiti? Queste sono le domande che esamineremo qui. “ (PLS)
Per poi proporre una definizione chiara e precisa: “La biologia di sintesi è l’ingegneria razionale della biologia. In altri termini, essa mira alla concezione razionale e all’ingegneria di sistemi complessi fondati sul vivente o ispirati dal vivente e dotati di funzione assenti in natura.” (PLS)
Per mettere in opera questa « ingegneria razionale », occorrono basi solide: “Cosa significa? Gli ingegneri dei sistemi elettronici o meccanici necessitano di quadri ben stabiliti per gestire la complessità, di utensili affidabili per manipolare gli stati del sistema e di piattaforme di test. La biotecnologia, al contrario, è ancora sprovvista di tali quadri, utensili e piattaforme.”  (PLS)
Ora, come l’aveva già constatato nel 2012 Geneviève Fioraso [3] nel suo Rapporto sulle sfide della biologia di sintesi: “La complessità del vivente: una catena da levare per la biologia di sintesi”. [4] È quindi necessario semplificare tutto ciò, al fine di fare in modo che il vivente, troppo instabile, variabile e imprevedibile, si comporti finalmente come una macchina utensile regolare, affidabile e prevedibile. È su questo che termina il suo articolo: “Una barriera, infine, è la grandezza limite dei circuiti biochimici che riusciamo a costruire. […] Come superare questa soglia per costruire dei circuiti biochimici più complessi e aumentare altrettanto le possibilità della biologia di sintesi? Da una parte, questa soglia è dovuta alla nostra incapacità di concepire un genoma completo. Per aumentare fortemente la grandezza e la complessità dei circuiti, bisognerebbe poter introdurre un numero arbitrario di geni che coopererebbero in modo ottimale seguendo un capitolato degli oneri fissato in anticipo. […]
Alcune équipe si sono così avviate in ricerche mirando a sintetizzare o a ridurre dei genomi completi di organismi unicellulari. È il caso, ad esempio, dell’équipe dell’Istituto J. Craig Venter, a Rockville negli Stati Uniti, e di quella di Fred Blattner, dell’università del Wisconsin, a Madison, per i batteri, o ancora di quella di Jef Boeke e Joël Bader, dell’università Johns Hopkins, a Baltimora, per il lievito. […]
Nella mia équipe, cerchiamo precisamente di sfruttare le costrizioni conosciute dei genomi di micro-organismi per la concezione ab initio di genomi portatori di grandi circuiti di sintesi.” (PLS)
La « concezione ab initio di un genoma » significa in realtà cercare qual’è il “genoma minimo – un genoma che comprenderebbe soltanto i geni necessari al funzionamento della cellula” e che servirebbe quindi da “piattaforma“ alla quale potrebbero essere aggiunte delle “estensioni”, delle “costruzioni genetiche” più o meno complesse sarebbero trapiantate al fine di produrre le molecole o realizzare le funzioni biologiche desiderate.

Rivoluzione industriale
François Képès vuole quindi, con la sua « ingegneria razionale » applicata alla biologia di sintesi, fare ciò che gli ingegneri del XIX secolo hanno realizzato nella concezione delle macchine che sono state il vettore della rivoluzione industriale: standardizzare le misure e le dimensioni per rendere possibile l’intercambiabilità dei pezzi e razionalizzare la concezione delle macchine.
Questo è un aspetto della rivoluzione industriale che è spesso dimenticato: si presenta correntemente l’invenzione della macchina a vapore come l’atto fondatore di questo periodo; e non è certo completamente falso. Perché occorre un motore indipendente dagli elementi naturali [5] per animare in modo regolare e continuo un gran numero di macchine impegnate in una produzione di massa [6]. Ma questa rivoluzione nella produzione riposa prima di tutto sulla generalizzazione dell’uso delle macchine; macchine che devono quindi essere prodotte in grande quantità, in massa, cioè in una maniera che sia essa stessa industriale.
Prima della rivoluzione industriale, tutte le macchine, dalle più semplici alle più complesse (gli orologi e i mulini a vento, per evocare soltanto quelle più diffuse dal XIII secolo al XVIII secolo) erano prodotte in modo artigianale. Un laboratorio non produceva in serie un pezzo per poi farlo assemblare da un altro laboratorio. Un artigiano e i suoi operai fabbricavano loro stessi tutti i pezzi di una macchina e li adeguavano gli uni con gli altri per farla funzionare. Ogni macchina era quindi unica; di conseguenza il pezzo di una macchina non poteva servire a sostituire un pezzo difettoso di un’altra macchina. È soltanto alla fine del XVIII secolo nell’orologeria (industria di lusso all’epoca) che delle dimensioni standardizzate saranno adottate per realizzare gli ingranaggi e le viti, al fine di facilitare una produzione che era ancora totalmente artigianale.
L’idea dell’intercambiabilità dei pezzi di una macchina risale all’invenzione dei caratteri mobili per la tipografia, ma non è mai stata veramente estesa ad altre meccaniche, probabilmente a causa della difficoltà a fondere i metalli altri da quelli duttili (oro, argento, ottone, piombo). All’inizio del XVIII secolo, Guillaume Deschamps propone un fucile di cui i pezzi sono intercambiabili e realizza una dimostrazione davanti al Re di Francia nel 1726 prima di creare una fabbrica che fornirà 12 000 fucili alla marina. Tutti i pezzi di questo fucile sono realizzati da artigiani, ciò che fa dire ad un commentatore: “L’idea di fare convenire tutti i pezzi degli acciarini, gli uni con gli altri, è ingegnosamente immaginata, ma quelli che conoscono l’uso della forgia, sanno che non può formare questi pezzi alla perfezione, che può soltanto disporli e che non è che la lima che li può appropriare al modello, così il tempo impiegato è di gran spesa.”
In altri termini, è difficile e costoso cercare di produrre dei pezzi intercambiabili in modo interamente artigianale, ed è per questo che la consegna alla marina non avrà seguito. [7] Però, il maestro archibugiere Honoré Blanc (1736-1801) nel 1777 propone al Re di Francia e poi allo Stato nato dalla Rivoluzione francese, un nuovo modello di fucile dai pezzi intercambiabili. [8] Per lui, la soluzione risiede nella standardizzazione. In un “regolamento”, precisa le dimensioni di tutti i pezzi del suo nuovo modello.
“L’intercambiabilità implica che la precisione della fabbricazione dei pezzi di un prodotto dato sia tale che il loro montaggio non necessiti nessun aggiustamento finale. Al suo livello, il metodo di Blanc raggiunge quest’ideale: mette a punto delle matrici per sostituire la forgiatura dei pezzi, inventa delle sagome per piallarli e delle macchine perforatrici per lavorarli, fabbrica dei calibri per verificare che i pezzi si aggiustino secondo un margine di tolleranza. Ben che questo processo sia messo in opera con l’aiuto di utensili manuali, l’esecuzione dipende in principio da guide meccaniche. Ogni operaio è obbligato a fare dei pezzi che si aggiustano perfettamente durante il montaggio finale.
Il processo di fabbricazione controlla il lavoro dell’artigiano e, da questo punto di vista, l’aggiustamento finale del prodotto testimonia del rigore con il quale l’ordine sociale è disciplinato. […]
Nel 1777, [il capo dell’artiglieria Jean-Baptiste de] Gribeauval e i suoi sostenitori introducono così non soltanto un nuovo modello di fucile, ma anche nuovi rapporti di inquadramento con gli armaioli [che sono artigiani indipendenti]. Per la prima volta, invece di comprare i prodotti finiti, lo Stato fissa i prezzi dei pezzi staccati che, sottolineiamolo, non sono ancora intercambiabili. I test di qualità sono rinforzati e nuove tecniche di produzione sono introdotte. Honoré Blanc è incaricato di fare in modo che “siano provvisti i diversi utensili e strumenti necessari per assicurare l’uniformità nelle tre manifatture”.”
Ma ciò non si fa senza difficoltà, perché in un primo tempo, la fabbricazione dei pezzi standardizzati è affidata a artigiani qualificati, supervisionati e rigorosamente controllati da ispettori militari: “Poiché il pezzo di un artigiano è accettato soltanto se si aggiusta con quelli dei suoi compagni di laboratorio, si è tentati di interpretare l’obiettività del prodotto fabbricato come il risultato di un insieme di regole sempre più elaborate destinate a soffocare le rivolte potenziali degli artigiani. Quest’obiettività apparente non mette però fine a tutti i conflitti. Per convincersene, basta vedere come la città di Saint-Etienne ha reagito di fronte a questa volontà di razionalizzazione della fabbricazione… […]
[poiché] questa perfezione ha un prezzo. Il numero di platine rifiutati aumenta in modo significativo a partire del 1777, così come la carica di lavoro per i fabbricanti. Gli armaioli aumentano i loro costi. Sono numerosi ad abbandonare la produzione militare a profitto di un mercato civile che, sotto la forte domanda dei rivoluzionari americani, è singolarmente florido. […] Disperato, l’ispettore Agoult decreta che gli armaioli saranno sottomessi alla disciplina militare. Decine tra di loro sono incarcerati con l’accusa di violazione delle regole di procedure di lavoro. Questi uomini non sono né soldati, né operai giornalieri, ma artigiani d’élite. Il consiglio comunale, urtato, prende le loro parti. […]
[Il capo dell’artiglieria Jean-Baptiste de Gribeauval] propone una soluzione tecnica che elimina semplicemente il bisogno di operai qualificati: la fabbricazione di pezzi intercambiabili !”
Ma è solo dopo la Rivoluzione francese che Honoré Blanc si lancia come imprenditore privato nella fabbricazione di fucili dai pezzi standardizzati e intercambiabili, realizzati da una mano d’opera non qualificata: “Grazie ai suoi appoggi all’interno dell’artiglieria, Blanc ottiene diversi favori: riceve una sovvenzione che rappresenta il 27% del suo costo di produzione, è autorizzato ad utilizzare la mano d’opera delle reclute e ottiene bassi tassi di interesse. […] Nel settembre 1797, produce circa 4 000 fucili a platine (tipo di fucile da caccia a un colpo che porta sulle sue placche di metallo amovibile e piane il meccanismo di percussione) a Roanne. Nel 1800, raggiunge gli 11 500. Dopo la sua morte nel 1802, la produzione continua al ritmo di 10 000 fucili all’anno. […] Ma le competenze artigianali rimangono ancora essenziali nel processo di produzione e la fabbrica di Blanc non raggiunge mai la soglia di redditività. I fucili di Roanne sono il 20% più cari di quelli prodotti dalla regione di Saint-Etienne.”
Per questa ragione, e per altri motivi di ordine politico, la manifattura di Honoré Blanc chiede nel 1807. Ed è soltanto negli anni 1850 che l’Europa scopre il sistema americano di fabbricazione dei pezzi intercambiabili, applicato a numerose altre macchine, poiché Honoré Blanc aveva ricevuto nel 1785 la visita di un certo Thomas Jefferson (1743-1826), allora ambasciatore americano in Francia, prima di diventare presidente degli Stati Uniti…

 Che cos’e’ una macchina ?
Questa storia è vecchia di 200 anni, ma contiene già tutti gli aspetti propri allo sviluppo tecnico al suo stadio capitalista e industriale; aspetti che ritroviamo attualmente, come François Képès ne darà più avanti l’illustrazione.
I problemi economici e, in contraccolpo, politici che ha incontrato Honoré Blanc nella realizzazione di pezzi di fucile standardizzati e intercambiabili hanno ugualmente un’origine tecnica che gli storici non sembrano avere percepito.
Se si vogliono produrre in serie dei pezzi metallici tutti identici, secondo un modello, con regolarità, precisione e in modo economico, non ci si deve rivolgere ad artigiani che lavorano a mano, anche se fossero qualificati e abili, piuttosto a una fabbrica attrezzata di macchine utensili pilotate da operai specializzati. Ciò ci sembra, oggi, un’evidenza. Ma quando tali macchine non esistevano, era molto più difficile immaginare di poter servirsene! Detto in un altro modo, prima di buttarsi nella produzione di pezzi standardizzati e intercambiabili, occorreva produrre le macchine utensili capaci di modellarli con la regolarità, la precisione e l’economia che un tale progetto tecnico esigeva.
Al museo delle Arti e Mestieri di Parigi, è esposta una macchina utensile tagliatrice di ingranaggi, lei stessa composta da ingranaggi. La prima macchina tagliatrice di ingranaggi è certamente stata costruita da un artigiano, che ha modellato a mano i suoi ingranaggi e a adeguato i suoi pezzi gli uni con gli altri, come per qualsiasi macchina realizzata a l’epoca. A partire da questo, la produzione di pezzi staccati per costruire ogni tipo di meccaniche ha potuto iniziare.
La produzione di pezzi staccati, standardizzati e intercambiabili implica un nuovo sistema tecnico, totalmente inedito, proprio alla produzione industriale. La macchina utensile, lei stessa costituita di tali pezzi, è l’unica a permetterne la produzione in un modo sufficientemente preciso e regolare per rendere l’insieme valido, sia a livello di funzionamento meccanico che dell’economia della produzione. In realtà, la produzione industriale implica per primo e, prima di tutto, la realizzazione di macchine utensili, base di ogni produzione regolare di oggetti identici.
È dunque possibile distinguere tre principali categorie di macchine (categorie che non sono strettamente ermetiche):

  • Il motore è una macchina primaria, nel senso che è lui che anima tutte le altre macchine; per molto tempo furono gli elementi naturali e sociali: acqua, vento, animali domestici, forza muscolare umana, che non sono per l’esattezza delle macchine ma vengono impiegate come strumenti per una finalità esterna a loro stessi.
  • La macchina utensile è una macchina intermedia, nel senso che è capace di modellare con precisione e regolarità dei pezzi standardizzati e intercambiabili per altre macchine, o di partecipare alla realizzazione di prodotti finiti.
  • Le macchine terminali sono dei prodotti finiti, operazionali e efficaci, pronte a realizzare la funzione specializzata per la quale l’«ingegneria razionale» le ha concepite: possono essere un fucile, un’automobile, una fabbrica automatizzata di produzione di panelli di particelle, una centrale nucleare (lei stessa motore per altre macchine), ecc.

Abbiamo segnalato che gli esseri viventi non sono per l’esattezza delle macchine. Pur tuttavia, François Képès, lungo tutto il suo articolo, fa come se non soltanto i batteri fossero impiegati come strumenti [9] ma, soprattutto, come se potessero essere effettivamente ridotti ad essere soltanto delle macchine e, più particolarmente, delle macchine utensili in un processo di produzione industriale di molecole. Si tratta di un’ambizione tutta nuova che il nostro ingegnere ci fa intravedere ma che non cerca neanche per un instante di esaminare da più vicino.
Perché che cos’è un essere vivente? Che cos’è una macchina? Ecco delle domande che occorrerebbe porsi al fine di sapere se è possibile trasformare il primo nella seconda, e a quale prezzo.[10] Ma queste domande troppo filosofiche non sembrano interessare il nostro ingegnere che riapprova l’ignoranza e l’incoscienza di tutta la biologia moderna per quanto riguarda la natura degli esseri viventi: per questa scienza -che non sa cosa è un essere vivente e che non vuole saperlo– gli esseri viventi sono delle macchine biochimiche molto complesse; per la biologia sintetica, sono delle macchine troppo complesse, che bisogna quindi semplificare.
Una macchina è costituita da diversi elementi che hanno dei rapporti fissi e determinati una volta per tutte in modo da trasformare i flussi di materia che la attraversano. Cioè quasi l’opposto di un essere vivente, costituito da diversi elementi che hanno dei rapporti che cambiano e che variano in modo da potere non soltanto trasformare ma, soprattutto, da poter incorporarsi a essi stessi, assimilare la materia che attingono nell’ambiente.
La biologia di sintesi vorrebbe così realizzare la quadratura del cerchio: conservare la regolarità e la prevedibilità della macchina avendo in più le capacità di trasformazione e di assimilazione del vivente. La vita sarebbe il motore di questi “sistemi viventi”, la molecola di DNA la macchina utensile di questa “fabbrica biochimica” che è la cellula, e le molecole di interesse industriale il loro prodotto più o meno finito.
La famosa reinvenzione del vivente che vantano è quindi, in realtà, la sua semplificazione, il suo impoverimento, la sua disinvenzione attraverso la sua riduzione –necessariamente mortifera- al funzionamento di una stupida e disciplinata macchina; cioè non a qualcosa di nuovo, ma soltanto a ciò che conosciamo già e incontriamo ovunque nella società capitalista e industriale.

 Standardizzazione industriale
Nel suo articolo, François Képès dettaglia ciò che bisognerebbe razionalizzare e standardizzare per trasformare gli esseri viventi in sistemi viventi secondo i “principi fondatori di ogni ingegneria”. Molto chiaramente, si tratta di creare un nuovo sistema tecnico proprio alla biologia, così trasformata completamente in una tecno scienza.

  • Il “disaccoppiamento della concezione e della fabbricazione” (PLS)

Per il momento, la fabbricazione e la messa a punto dei “circuiti metabolici” –il processo tramite il quale i geni inseriti in un batterio producono poi una molecola desiderata- rimane largamente empirico. I biotecnologi [11] procedono per prove e correzione di errori fino ad ottenere il risultato desiderato.
François Képès ci dice che questo è dovuto a “l’imperfezione dei modelli” applicati a batteri ancora troppo diversificati, come lo vedremo più in avanti. Detto in un altro modo, contrariamente a ciò che gli ingegneri fanno con le macchine ordinarie a partire dalle loro conoscenze delle proprietà fisiche della materia, per far produrre ad un batterio una molecola data, non esiste un modello teorico affidabile che potrebbe indicare, anche vagamente, il modo in cui operare.
La biologia moderna, non sapendo cosa è un essere vivente- qual è la sua specificità in rapporto agli oggetti inanimati che studia la fisica e in confronto alle macchine che questa stessa fisica permette di costruire-, non ha, logicamente, nessun tipo di teoria su ciò che è l’organismo, il come e il perché del suo funzionamento. Le manipolazioni di laboratorio sono quindi in gran parte del bricolage: quando funziona, è per fortuna e, quando non funziona, non si sa nemmeno il perché; i biotecnologi avanzano quindi a tentoni verso ciò che pretendono però essere la loro “padronanza del vivente”.

  • L’”indipendenza del contesto o ortogonalità” (PLS).

Si tratta qui molto chiaramente dell’idea d’intercambiabilità (“modularità” secondo FK) dei “mattoni” genetici (biobricks) impiegati per realizzare i “circuiti metabolici”.
“Nella cellula vivente, le interazioni dei componenti sintetici e cellulari sono difficili da predire o caratterizzare. Un circuito ben caratterizzato in un batterio funzionerà diversamente in un altro ceppo, anche se è simile. […]
La fabbricazione di un oggetto fondato sulla biologia, o ispirata da essa, diventa quindi un processo gerarchico di montaggio di moduli. Idealmente, le proprietà di ogni modulo non dovrebbe dipendere dal circuito sintetico in cui è immerso.” (PLS)
Uno dei caratteri distintivi degli esseri viventi in confronto alle macchine, è la loro individualità: gli esseri viventi non sono tutti identici, nessuno reagisce esattamente nello stesso modo a una situazione per il fatto della loro storia vissuta. Eppure, anche alla scala dei batteri, quest’individualità è un ostacolo per la biologia sintetica.

  • La “standardizzazione dei componenti” (PLS).

Questa standardizzazione è il seguito logico dell’intercambiabilità: è necessaria al fine di automatizzare l’insieme del processo di produzione delle costruzioni biotecnologiche, cioè sia la loro messa a punto nei laboratori sia la loro produzione in scala industriale:
“Si tratta di standardizzare non soltanto i componenti, ma anche i dispositivi e la produzione biologica, senza dimenticare i sistemi ibridi che combinano nanobiologia e nanoelettronica.” (PLS)
In effetti, François Képès deplora amaramente il fatto che la mano dell’uomo mette ancora i piedi nella biologia sintetica: “Oggi, è ancora lo specialista umano che stabilisce questo nodo tra risultati sperimentali e concepimento dell’esperimento seguente. […] Malgrado qualche passo avanti, il concepimento e la fabbricazione di circuiti biochimici sintetici che realizzano le funzionalità desiderate rimane un artigianato specializzato. Come per ogni rivoluzione industriale, la situazione cambierà soltanto quando questa base concettuale e metodologica lascerà la torre d’avorio di alcuni ricercatori molto specializzati per diventare accessibile a numerosi ingegneri.”(PLS)
Sogna il giorno in cui un ingegnere riuscirà a concepire un “circuito metabollico” senza sporcarsi le mani, rimanendo davanti al suo schermo di computer: “Ad esempio, per caratterizzare i suoi micro organismi, [la start-up americana] Gingko Bioworks ha automatizzato il processo completo –una scommessa, in quanto il processo fa intervenire una successione di robot incompatibili. […] Il risultato è un numero ridotto di errori e un migliore controllo della qualità.
Eppure, importanti profitti sono prevedibili se fosse sviluppato un ambiente di concepimento che non soltanto fornirebbe un’interfaccia di alto livello che comanda i robot biomolecolari, ma anche analizzerebbe automaticamente i risultati delle esperienze e la loro riproducibilità. Questa analisi servirebbe a migliorare il prossimo piano sperimentale, anch’esso numerizzato.” (PLS)
Questa standardizzazione industriale del processo di produzione implica ugualmente numerosi progressi nella “modellizzazione matematico-informatica” del comportamento dei sistemi viventi affinché  la concezione teorica dei “circuiti metabolici” possa diventare effettiva.  Qui come altrove nella scienza attuale, ciò che si intende con teoria non ha nulla a vedere con una comprensione dei meccanismi propri al vivente.
L’articolo che precede quello di François Képès in questo dossier ce lo ricordava: si tratta di compilare tutti gli articoli scientifici sui processi fisico-chimici all’opera nella cellula vivente al fine di elaborare un modello matematico che permette una simulazione informatica del suo comportamento. [12]

 Non capire niente, ma asservire
La modellizzazione informatica è l’unico approccio teorico di cui oggi vogliono sentire parlare i scientifici, qualunque sia il loro campo: quella che permette di calcolare e di prevedere. Evita di dover pensare il proprio oggetto nella sua specificità e, quindi, di capire veramente ciò che è e, in seguito, ciò che se ne fa.
Eppure, i nostri biotecnologi non mancano mai di sottolineare che l’approccio che promuove la biologia sintetica “aiuterebbe a capire il vivente fabbricandolo” (PLS): “Costruire un sistema biologico che funziona come previsto è un modo di assicurarsi che si sono compresi i fenomeni sottostanti. In questo senso, la biologia sintetica permette di fare progredire le conoscenze sul mondo vivente.” (PLS)
Ma come sperare di capire qualcosa negando l’esistenza, sopprimendo, distruggendo proprio ciò che si tratta appunto di capire? perché ridurre il vivente a una macchina, è farne qualcosa che conosciamo: qualcosa che funziona “come previsto”, che produce l’effetto che ci si aspetta; e nient’altro. Allorchè ciò che si tratta di capire nel vivente, è precisamente il suo carattere dinamico, imprevedibile e capriccioso; in breve, ciò di cui non sarà mai provvista una macchina, ossia la sua attività autonoma.
Se i biotecnologi come François Képès riusciranno un giorno a fabbricare un “sistema vivente” secondo “i principi fondamentali dell’ingegneria razionale”, non è ad una migliore conoscenza e comprensione del “mondo vivente” che giungeranno, poiché fanno di tutto per semplificarlo, impoverirlo e ridurlo ad una macchina, ma soltanto ad un miglior modo di asservirlo agli imperativi del rendimento industriale e della redditività economica.
In realtà, l’idea che “si capisce meglio ciò che si sa fabbricare” viene dal metodo delle scienze, sviluppato da e per la fisica, lo studio degli oggetti considerati come inerti e morti, e del suo legame molto stretto con la tecnica. Questo metodo ha in effetti come scopo di scoprire le regolarità nei fenomeni della natura, e per questo costruisce dei dispositivi sperimentali che con la misura delle reazioni che comportano e l’analisi matematica permettono di enunciare, in seguito, delle “leggi della natura”.
Ma l’applicazione del metodo scientifico allo studio del vivente genera “l’inadeguatezza cronica dell’essere vivente al suo quadro di investigazione” [13]. Il metodo delle scienze raggiunge qui i suoi limiti: l’essere vivente è troppo complesso e turbolento in tutte le sue innumerevoli forme e manifestazioni per un metodo che reclama l’isolamento e la stabilità dell’oggetto, la riproducibilità delle esperienze, la quantificazione e la matematizzazione dei risultati come condizione di studio e di conoscenza. Occorrerebbe un metodo adeguato allo strano oggetto della biologia che sono gli esseri viventi, ossia un metodo sviluppato a partire da una conoscenza della loro specificità in confronto agli oggetti inanimati studiati dalla fisica e in confronto alle macchine che questa stessa fisica permette di costruire. Ne siamo molto lontani.
Perché la biologia sintetica non cerca assolutamente di capire il vivente così come esiste da 3,5 miliardi di anni, tutto l’articolo di François Képès dimostra bene che si tratta piuttosto di costringerlo a rientrare nei ranghi delle macchine al fine di farlo marciare al passo dell’apparecchio di produzione industriale e dell’economia capitalista.
Quest’idea che “si capisce meglio ciò che si sa fabbricare” è quindi certamente del tutto valida per le macchine ordinarie che sono costruite secondo i principi della fisica, ma occorre ricordare che è stata enunciata in un’epoca in cui lo studioso spesso era lui stesso a volte un po’ artigiano, sia perché le sue ricerche erano condotte da amatore illuminato sia perché era spesso capace di costruire lui stesso i suoi dispositivi sperimentali e le sue macchine, allora molto più semplici e rudimentali di quelle presenti oggi nei laboratori. Era all’epoca in cui la scienza non era ancora della “big science” né una tecnoscienza, cioè un’epoca passata…
È particolarmente comico vedere quest’idea ripresa oggi da un François Képès che esalta un’automatizzazione avanzata della messa a punto dei “circuiti metabolici” e della produzione delle sostanze: quando i biotecnici sono dietro ai loro schermi e che le macchine automatiche fanno tutto il lavoro, cosa rimane alla persona comune in materia di “fabbricazione” e di “comprensione”? Ovviamente niente.
Le macchine, come diceva Marx, sono del « lavoro morto”, vale a dire della conoscenza fissata- nel senso fotografico del termine- nella sistemazione della materia; messa in movimento, questa materia mette in opera questo sapere, ma non lo trasmette a quelli che ne usano i risultati: chi capisce i principi fisici e biologici in gioco quando accende la luce elettrica, usa l’automobile, mangia un piatto surgelato o assorbe una medicina?
L’industria fabbrica sempre di più le cose che ci circondano, e non capiamo meglio questo mondo, tutt’al contrario. Se c’è qualcuno che “capisce fabbricando”, sono le aziende industriali che capiscono ogni giorno meglio come renderci indispensabili e necessari i prodotti che fabbricano facendo sparire le condizioni che prima permettevano di farne a meno. Lontano dal renderci “come maestri e possessori della natura”, la conoscenza scientifica oggi partecipa allo spossessamento sempre più avanzato degli individui a beneficio delle potenze dello Stato, del Mercato e dell’Industria.

 Note:

[1] Pour la science n°440, juin 2014. Questo dossier è composto da tre articoli. Le citazioni tratte dall’articolo di François Képès sono riferite con: (PLS)                .
[2] « François Képès è direttore di ricerca presso l’istituto di Biologia dei Sistemi e di Sintesi (ISSB, Genopole, UEVE, CNRS) e direttore del Programma d’epigenomica a Genopole, a Évry. È professore invitato permanente al Collegio Imperiale di Londra.»        
È anche l’autore dell’opuscolo di 64 pagine, che fa nella volgarizzazione abbastanza volgare, La biologie de synthèse plus forte que la nature? ed. Le Pommier, 2011. Il suo articolo per Pour la science riprende e completa alcuni punti di questo opuscolo.    
[3] Prima di diventare ministro della Ricerca e dell’Insegnamento Superiore per il governo di François Hollande. Si veda il suo ritratto al vetriolo in quanto deputata e aggiunta alla città di Grenoble “Geneviève Fioraso™, l’élue augmentée” in Le Postillon, journal de Grenoble et de sa cuvette n°14, février-mars 2012  .
[4] È il titolo di un capitolo di questo rapporto, realizzato a partire da audizioni pubbliche organizzate dall’Ufficio Parlamentare di Valutazione delle Scelte Scientifiche e Tecnologiche (OPECST) il 4 maggio 2012. Documento in due volumi disponibili in Internet.       
[5] Come possono esserlo il debito dell’acqua di un fiume, il vento o gli animali per i mulini; cf., Chris de Decker, “Des fabriques mues par le vent: histoire (et avenir) des moulins à vent”, Low-Tech Magazine, octobre 2009.  
[6] Produzione di massa che implica anche, all’interno della fabbrica, una disciplina del lavoro che piega la manodopera al ritmo delle macchine, non dimentichiamolo.
[7] Jean-Louis Peaucelle, “Du concept d’interchangeabilité à sa réalisation, le fusil des XVIIIe et XIXe siècles”, revue Gérer et comprendre n°80, juin 2005 (articolo disponible in Internet).
[8] Ken Adler, “L’amnésie des armuriers français, comment une innovation technologique majeure peut-elle tomber dans l’oubli ?”, magazine La Recherche n°308, avril 1998. Le citazioni che seguono sono tratte da questo articolo    
[9] Ciò che è già il caso da millenni nella trasformazione di numerosi alimenti da parte dell’uomo: pane, formaggio, birra, ecc.            
[10] Per una riposta a queste domande, si veda: Bertrand Louart, Le vivant, la machine et l’homme, le diagnostic historique de la biologie moderne par André Pichot et ses perspectives pour la critique de la société industrielle, 2013 (64 p.). Opuscolo disponibile su richeista e in Internet.
[11] Ragionevolmente non si possono qualificare come biologi questi “scientifici” che spesso si presentano essi stessi come dei tecnici o degli ingegneri del vivente.            
[12] Markus Covert, “Simuler une cellule vivante”, Pour la science n°440, juin 2014.     
[13] Gérard Nissim Amzallag, La raison malmenée, de l’origine des idées reçues en biologie moderne, CNRS éditions, 2002.