Dalla Francia un’importante mobilitazione contro l’industria elettronica

Acqua o chip: bisogna scegliere!
Contro lo sfruttamento delle risorse da parte delle industrie dell’elettronica e la “vita connessa”

5-6-7 Aprile 2024 Grenoble: Manifestazione, conferenze e azioni
Collettivo STopMicro

Volantino tradotto in italiano

Programma dell’incontro e della mobilitazione a Grenoble del 5-6-7 Aprile:

Demistificare la ragion tecnica – Riflessioni attorno a “Propaganda” di Jacques Ellul – Dario Stefanoni

“Una rivoluzione scientifica: gli americani lanciano la prima bomba atomica sul Giappone”. Così titolò la prima pagina di Le Monde l’8 agosto 1945, subito dopo il bombardamento di Hiroshima e alla vigilia del secondo lancio su Nagasaki. Una macabra e rivelatrice ironia vorrà che Barack Obama, una settantina d’anni dopo in visita presidenziale sui luoghi dei bombardamenti, ne avrebbe ripreso l’identica espressione, dando appena l’impressione di correggerla: “Hiroshima ci insegna che la rivoluzione scientifica va accompagnata a una rivoluzione morale.”
In quasi un secolo la retorica utile a mascherare in nome del progresso la distruttività della tecnica e della scienza moderna non è cambiata, se perfino il lessico propagandistico si ripete uguale a se stesso: per mass media e governanti di ieri e di oggi, l’ecatombe umana e la più completa devastazione sono solo effetti collaterali e secondari rispetto alla necessità e alla primazia di presunte “rivoluzioni scientifiche”. Basterà implementare queste ultime di un compensativo corollario “morale”, o sarebbe meglio dire pubblicistico, con tanto di prevedibili e assodati refrain – più sicurezza, trasparenza, controllo, innovazione: criteri nuovamente tecnici, spacciati per etici – ed ecco, subito, per l’opinione pubblica quelle stesse “rivoluzioni scientifiche” torneranno di nuovo presentabili, accettabili, replicabili.
Se ora la portata di quest’inganno si va facendo sempre più visibile e violenta, nella Francia dei primi anni ‘50 non era da tutti denunciare come, all’esatto contrario di quanto veniva propagandato dagli apologeti del “buon uso della scienza” e dai sostenitori della presunta neutralità delle tecnologie, gli scrupoli morali fossero invece del tutto incompatibili, e alla radice, con il sistema tecnico e scientifico moderno. A rompere quel silenzio e quel tabù imposto era la voce dissonante di Jacques Ellul, lucidissimo pensatore, insegnante e ricercatore dai vasti interessi (filosofia, diritto, teologia, storia medievale, sociologia, ecologia…) che proprio con le sue pionieristiche riflessioni critiche sulla moderna tecnica come inarginabile fonte di distruzione e schiavitù, condotte spesso al fianco dell’amico Bernard Charbonneau, diverrà il maestro ispiratore di fondamentali pensatori libertari quali Ivan Illich, Guy Debord e Ted Kaczsynki (nonché, più di recente, il dichiarato punto di riferimento di Serge Latouche o José Bové, che ne hanno raccolto solo in parte la radicalità critica).
Ellul ne scrive dal 1954, con il seminale La tecnica rischio del secolo (in Italia tradotto nel 1969, per Giuffré), dove già constatava come la tecnica avesse sopraffatto la scienza e ne fosse divenuta la totalizzante applicazione in ogni campo della vita, fino ad ergersi ad habitat capace di conglobare il vivente e d’innescare un profondo cambiamento antropologico, modificando le forme di vita e creando nuovi comportamenti.
Prima di tornare sull’argomento con un’ultima monografia nel 1988, Le bluff technologique (ancora inedito in Italia), Ellul aggiornò e approfondì meglio il discorso, a una ventina d’anni da quel primo testo, nel 1977, con l’ancora più decisivo Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee (trad. it. Jaca Book, 2009), dove – preconizzando l’attuale, vertiginosa convergenza delle tecnoscienze come l’odierno concetto di “singolarità tecnologica” – osservava come l’arrivo dell’informatica avesse reso ancora più autonomo, potente e pervasivo il dominio tecnico, elevato appunto a “sistema” capace di autogenerarsi e di imporsi sull’intera società umana: fenomeno sempre più centrale e determinante, poteva plasmare economia e politica, annientare culture, distruggere democrazie e prosciugare risorse, facendosi passo a passo sempre più incontrollabile e irreversibile.
A questi e ad altri suoi testi di spiazzante lungimiranza, si aggiunge ora anche la prima traduzione italiana di un altro dei libri fondamentali di Ellul, datato 1962, e senz’altro tra i più impressionanti e sistematici di tutta la sua bibliografia: si tratta di Propaganda. Come si formano i comportamenti degli uomini, tradotto dalla pastora valdese Elisabetta Ribet e appena edito per Piano B. Manuale poderoso e di attualità sconcertante, traccia un’impeccabile diagnosi della propaganda nella sua essenza complessa e multiforme, considerata quale necessario complemento psichico e culturale della tecnica stessa. Per comprendere meglio entrambe, vale la pena precisare meglio la concezione elluliana di quest’ultima, da intendersi insieme come un modo di procedere e un sistema di potere autosufficiente, in cui l’efficienza e l’efficacia hanno soppiantato ogni preliminare questione etica o veritativa. Un’espropriazione del senso e del senno che possiamo osservare anche in tempi di decostruzionismo coatto e di sedicente “post-verità”, al punto che si è sempre meno incoraggiati a riflettere su cosa sia giusto e cosa sbagliato, cosa vero e cosa falso: a contare sono gli effetti e la loro misurabilità, la macchinale riduzione di tutto al risultato, alla performatività, all’operatività.
Sulla scia delle riflessioni di Ellul – secondo il quale la prima rivoluzione industriale aveva sostituito i muscoli dell’uomo, la seconda il cervello, la terza la società stessa con un sistema capace di svilupparsi da sé e per sé – si comprende la progressione con cui la quarta rivoluzione industriale minaccia ora di violare corpi e spiriti per insediarvi anche all’interno quello stesso ambiente tecnico così compiutamente formato, per la piena e definitiva automazione dell’umano. Totalitaria e metastatica, come un cancro, la tecnica non conosce limite e nella sua progressione inarrestabile richiede unanimità d’adesione, riflessi pavloviani, resilienza metallurgica, obbedienza cieca e accettazione incondizionata.
Sono queste le stesse condizioni della propaganda, ed Ellul – in risposta a chi già al suo tempo la sminuiva con noncuranza a pseudoscienza, sottovalutandone efficacia e reale pericolosità (come oggi le influenti teorie e pratiche transumaniste sono derubricate dai più ad improbabili fantasie cyberpunk) – si preoccupa subito di chiarire come questa sia una disciplina scientifica a tutti gli effetti e anzi sappia rinforzare i postulati psicologici e sociologici fondamentali: essa poggia su basi di psicologia sociale, psicologia del profondo, behaviourismo, sociologia dei gruppi e dell’opinione pubblica… non è un’aberrazione collaterale della scienza moderna, ma un suo prodotto logicamente conseguente e perfettamente integrato. Del resto, basterebbe una scorsa agli scritti del padre della propaganda moderna, il pubblicitario Edward Bernays (nipote di Freud, ispiratore della propaganda nazista di Goebbels), per notare l’insistenza su quanto questa nuova propaganda dovesse alla tecnica e alla scienza, prima che alla politica (da cui Bernays riuscì anzi a emanciparla): checché ne possano dire scientisti e umanisti convinti che basti opporsi a un “cattivo uso della scienza” per evitarne le connaturate e intrinseche degenerazioni, nella sua costituzione come nel suo funzionamento di base la propaganda è scientifica o non è. Come dice Ellul, uno scienziato sa di vivere in un mondo in cui le sue scoperte saranno utilizzate, anche nella manipolazione delle coscienze.
Altro snodo per lui cruciale è il primato dei mezzi sui fini tipico della società moderna: l’ampiezza di disponibilità dei primi difatti cambia i fini, perché la tecnica (compresa la tecnica della propaganda) richiede di utilizzare tutti i mezzi a disposizione – e lo vediamo bene anche oggi, dove la possibilità di nuove tecnologie diventa imperativo sociale, causa di esclusione, obbligo sistemico e universale.
Se un tempo le tecnologie preindustriali erano davvero un mezzo per raggiungere uno scopo, e non cambiavano molto di generazione in generazione restando stabili e perfino ereditabili, la vorticosa instabilità e mutevolezza delle tecnologie odierne – si veda l’obsolescenza programmata e poi del tutto forsennata di dispositivi meccanici, elettronici e informatici – rivelano ancora una volta che da tempo non sono più gli esseri umani a dominare i mezzi, ma ne sono semmai dominati (con Thoreau, gli uomini sono sempre più “strumenti dei loro strumenti”). Sono i mezzi a dettare i propri tempi, e a sovrastare i fini anche in politica, dove Ellul già segnalava come la dimensione tecnocratica prevalesse su quella etica, e a gestire, preparare e circondare i politici fossero sempre più tecnici e burocrati. Questa sorta di aristocrazia di tecnici postasi già al tempo di Ellul al di sopra delle istituzioni, capaci di modificare le strutture dello Stato e di rinsaldare la separazione tra governo e masse (secondo quanto rilevato più nel dettaglio decenni dopo da un altro sociologo profetico e geniale quale Christopher Lasch, specie nel postumo La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia), certifica così anche l’inverarsi della previsione svolta da Hannah Arendt nel classico Le origini del totalitarismo: dopo i precedenti del nazismo e stalinismo, un nuovo totalitarismo “raffinato” – e oggi pienamente affermatosi – sarà guidato da tecnici e burocrati (nonché, per Ellul, contraddistinto dalla tecnicizzazione forzata di chiunque, con la mansione generalizzata di assicurare efficienza all’organismo: se anche l’operaio diventa un tecnico, sarà più conformista e potrà accogliere meglio la propaganda).
Da questo presupposto muove ad esempio uno degli studi più compiuti e sintetici sulla tirannia in corso, il recente La psicologia del totalitarismo dell’accademico belga Mattias Desmet (La Linea, 2022), che ha il pregio di riconoscere nel presente e di dimostrare su un piano psicologico quanto già in Propaganda di Ellul ravvisava tanto della tecnica quanto della propaganda: la loro mancanza del senso del limite e la loro conseguente incontrollabilità.
Se per la tecnica preindustriale potevano esservi, come osserva Ellul, idee religiose e credenze popolari che ancora ne limitavano o ne regolamentavano l’uso (la ruota era già conosciuta dagli Egizi ma non veniva usata perché ricordando la sacra circolarità dello zodiaco non poteva essere piegata a motivi materiali, come poi si sarebbe vietato l’utilizzo di aratri di ferro per non ferire la Madre Terra), venuti a cadere questi limiti – anche oppressivi e irragionevoli – a seguito dell’ “uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole”, ovvero – nelle parole di Kant – dell’Illuminismo e della scienza moderna, proprio nel nome di quest’ultima si sottometterà l’uomo a un nuovo giogo: quello della tecnica, appunto, che a differenza della religione, riconoscerà sempre meno il concetto di limite, smantellando progressivamente anche gli argini etici.
Col passare dei secoli, i sacerdoti di questa nuova fede – nota Ellul – ancor meno degli officianti precedenti sopporteranno di essere giudicati su quello che fanno. Con la loro influenza illimitata, essi riflettono semmai la dismisura della stessa società tecnica, divenuta in sé eliminazione dei limiti, priva dell’intenzione come della possibilità di fermare i processi stessi che vi avvengono. Ne deriva un’incontrollabilità sistemica: più cresce il progresso, più ne aumentano gli effetti indomabili. Ellul snuda così alla radice la follia – in nuce già allora – di pretendere di risolvere i problemi con gli stessi mezzi e con la stessa ideologia che li hanno procurati, i quali rischiano semmai di avviare quella stessa spirale distruttiva e autoalimentantesi che oggi vediamo riprodursi in ogni campo tecnoscientifico, dalle nanotecnologie all’ingegneria genetica (proprio nell’ingovernabile autosostentamento e autopotenziamento delle tecniche possiamo riconoscere un principio metodologico e costitutivo di base, dalle reazioni a catena nucleari alle gain of function virologiche), il tutto “in un mondo che ancora prima di capire l’atomo l’ha fatto esplodere, e ancor prima di capire il Dna ne ha tagliato dei pezzetti usandoli per bombardare altri frammenti di Dna” (J-L. Porquet, Jacques Ellul: l’uomo che aveva previsto (quasi) tutto, Jaca Book 2008).
Ellul descrive così anche la stessa propaganda nel segno di un’endemica incontrollabilità e inarrestabilità (“si è a quel punto costretti a procedere nel senso indicato dalla propaganda: azione chiama azione”), come di un diffuso rischio di auto-intossicazione che vale perfino per gli stessi propagandisti (sviluppata nello studio di Desmet come auto-ipnosi): “La propaganda è come il radio, e si sa cosa succede ai radiologi.” C’è, insomma, un livello oltre il quale anche la propaganda non dipende più dalla volontà umana e dalla sua decisione, diventa un fenomeno sempre più ingestibile, determinato e condotto dallo stesso apparato tecnologico che la produce, l’amplifica e ci sovrasta.
Infine, altro passaggio rivelatore è quello in cui Ellul accenna alla militarizzazione costante operata dalla propaganda moderna, tema sviluppato anche nel breve profilo storico del fenomeno che seguirà nel 1967, Storia della propaganda (trad. it. Edizioni Scientifiche Italiane, 1983): a partire dalla Rivoluzione Bolscevica, con la necessità di promuovere la guerra tra classi interna alla società, la propaganda non sarà più occasionale (per campagne singole e accidentali), ma permanente. Del resto, anche poi, con la privatizzazione e la tecnicizzazione “scientifica” promossa da Bernays,
l’adozione sistematica nelle dittature nazifasciste e nel dopoguerra con il regime pubblicitario-consumistico delle democrazie liberali, la propaganda, nella continuità della sua pratica, non smetterà mai di sostanziare uno dei principali bracci armati e invisibili del totalitarismo tecnico, ossia la guerra psicologica.
Di nuovo Ellul: “La propaganda è di per sé uno stato di guerra. (…) Esige l’unanimità della nazione realizzata in modo artificiale e l’esclusione di opposizioni e minoranze”. Come vedremo meglio poi, secondo Ellul la propaganda può avere effetto solo quando è di lunga durata e per quanto possibile ininterrotta. Anche oggi, il precipitato di eventi del 2020/21 che hanno accelerato e reso visibile un più vasto e in precedenza meno percettibile processo di manipolazione e riprogrammazione dell’umano, dalle carcerazioni di massa dei lockdown all’obbligo generalizzato di prestarsi a esperimenti di ingegneria genetica, fino alle successive e tuttora persistenti retoriche belliciste in piena regola, con minacce di razionamento e di regimi emergenziali, non fa che rivelare meglio e in via definitiva l’ininterrotta militarizzazione della nostra vita quotidiana.
Anche e soprattutto attraverso lo stesso apparato tecnologico a cui ricorriamo abitualmente, di cui dovremmo tenere a mente le origini storiche e le funzionalità eminentemente militari, a partire da Internet: armi di distrazione di massa, non semplicemente tecnoscandagli per sorvegliare, violare privacy od estrarre dati, ma strumenti utili a contenere, paralizzare, alienare, reclutare e riplasmare coscienze e corpi, nel contesto di un totalitarismo antropotecnico che sempre più mira a gestire integralmente la vita umana, letteralmente dalla nascita alla morte, con la progressiva e parallela promozione di eugenetica e eutanasia (pratiche che dietro nomi alati – εὐ in greco, sta per “bene”, “buono” – esemplificano l’assalto definitivo a cui tende il necrocapitalismo transumanista, quando qualcuno – o qualcosa – potrà decidere chi vive e chi muore).
Come proposto da un illuminante intervento di Bianca Bonavita, tenutosi alla Piralide a Bergamo il 10 ottobre 2021, assistiamo da questo punto di vista e sempre più a un momento di svolta, a un’agnizione scioccante (che dal 2022 può rispecchiarsi anche nella guerra russo- ucraina in corso), con l’avvento combinato e forzoso di 5G, Internet dei corpi, Metaverso, pseudovaccini a mRna a scoperchiare la vera natura di tecniche e tecnologie che in fondo non hanno mai smesso di essere militari: la Rete stringe e affila le sue maglie, “e i pesciolini siamo noi”.
Insieme ai caratteri così delineati della propaganda – scientificità, amoralità, incontrollabilità, nocività, militarizzazione – che la riconducono al concetto stesso di tecnica, per Ellul radice di ogni schiavitù moderna, nel suo Propaganda vi sono alcuni altri spunti di rara originalità e straordinaria finezza critica, che ancor oggi, a 61 anni dalla pubblicazione, bruciano di malsepolta verità.

Tossicità “a lenta infiltrazione”
(la propaganda secondo un sociologo eterodosso)

Già dall’Avvertimento essenziale posto in apertura del suo poderoso studio, Ellul chiarisce la peculiarità del suo approccio sociologico alla questione tortuosa e trasversale della propaganda, una prospettiva già al tempo della pubblicazione rara e minoritaria – e a sessant’anni di distanza ancora non conforme, rivelatrice e profondamente attuale. Questo suo manuale su caratteri, condizioni ed effetti della propaganda – premette quasi brutalmente Ellul – non segue le tendenze di studio più diffuse in materia: non riduce la propaganda a fenomeno psicologico, non si fa campionario pronto all’uso dei tricks propagandistici (ossia di singole tecniche di manipolazione da riconoscere e disinnescare), non si allontana nel passato a cercarne le radici remote per tracciarne un excursus storico, né si limita all’analisi dei suoi più visibili rapporti con l’opinione pubblica.
Ora, basterà un rapida scorsa alle riflessioni sull’argomento più diffuse nel nostro tempo per riconoscere che questi stessi approcci parziali e frammentari corrispondono ancor oggi ai territori più battuti dalla grande maggioranza degli studiosi. Il rifiuto di Ellul di astrarre e ridurre la prospettiva di analisi, di disincarnarla e disarmarla tra sofismi, culturalismi o tecnicismi, appare come un ulteriore segno di coraggio intellettuale in uno storico delle istituzioni e professore universitario di Diritto che avrebbe ben potuto parlarne in termini statistici, al comodo riparo del suo status accademico e della sua specifica formazione storico-giuridica. No, Ellul preferisce affrontare l’argomento come il fenomeno onnicomprensivo, concreto e tentacolare che è – nella sua epoca come nella nostra -, tracciando una contestualizzazione ad ampio raggio che la rivela come il necessario, logico complemento della deriva tecnocratica e burocratica già in nuce nei totalitarismi emersi nel primo XX secolo e dall’epoca di Ellul a oggi sempre più trionfante, tassello ineludibile di un più ampio movimento scientifico ufficiale che già allora stava minando alla radice il senso dell’umano e del vivente. Lo sguardo critico del filosofo bordolese riconosce la propaganda come centrale in ogni aspetto della società, incessante e onnipervasiva: come già detto per la Tecnica, anche la propaganda si è fatta mondo, sistema autonomo, subordinato solo alla legge dell’efficacia e all’ossessione della calcolabilità.
Un ulteriore elemento di originalità di Ellul, che tanta influenza avrà sulla concezione di Guy Debord della “società dello spettacolo”, è lo studio e la designazione di più tipi di propaganda, come rivela già il titolo originale dell’opera (Propagandes, al plurale). Così come, qualche anno dopo, l’ispiratore dell’Internazionale Situazionista distinguerà tra spettacolare concentrato (tipico delle dittature fasciste e comuniste) e spettacolare diffuso (proprio delle società liberali e consumiste), trovando nello spettacolare integrato – sintesi e mondializzazione delle precedenti – la chiave di volta per comprendere il dominio e l’alienazione del nostro tempo, Ellul riconosce la diverse e complementari modalità di propaganda in azione, con particolare attenzione a quella che definisce pre-propaganda o sub-propaganda. È questa una propaganda d’atmosfera, “a lenta infiltrazione” e in fondo ancor più autoritaria, che promuove progressivamente un dato orientamento per creare dei pre-atteggiamenti favorevoli, è l’ “aratura” – scrive Ellul – a cui seguirà la “semina” della propaganda d’azione. A differenza di quest’ultima propaganda perlopiù bianca, ovvero visibile – finalizzata nella sua evidenza a rassicurare, esaltare, aizzare – la sub-propaganda è nera, ovvero perlopiù inconscia e carsica, impercettibile e segreta come la censura.
Questa preparazione sociologica e culturale del terreno, individuata da Ellul decenni prima che il sociologo americano Overton la teorizzasse come l’omonima “finestra” di ingegneria sociale utile a creare accettazione popolare con progressione graduale ma implacabile, è “prodotta in un lasso di tempo lungo e suppone un’impregnazione lenta e costante.”
Come lo Spettacolo, sorta di placenta artificiale collettiva imposta dall’industria culturale, la propaganda di Ellul è dunque e anzitutto la creazione di un ambiente che tutto fagocita e da cui non vi è possibilità d’uscita, bolla totalitaria da dove non sono più visibili riferimenti esterni o altre verità: facendo leva non sul “singolo stimulus che scompare subito”, ma su “impulsi e shock in successione”, il sistema della propaganda ingoia progressivamente l’intera realtà intossicandola di uno stato di agitazione continua.
Basta oggi vedere l’inefficacia propagandistica di singole tornate elettorali nel breve termine di fronte alla forza con cui si è inesorabilmente imposta l’accettazione dei peggiori abusi tecnoscientisti insieme a un clima di apocalisse permanente, accelerata a suon di emergenze provocate: la vera propaganda, come osservato da Ellul, procede solo apparentemente con singoli colpi, ma si rivela meglio nei loro presupposti, nella continuità sottaciuta, nella pluralità dei mezzi a disposizione, nel sapiente accumularsi nel tempo. Così come ridurla al dettaglio immediato e all’attualità delle singole campagne è a suo avviso un errore di metodo che non ne permette l’obiettiva visione d’insieme, lo stesso può dirsi per la diffusa tendenza a psicologizzare questo profondo lavorìo sulle menti e sulle società umane.
Come lucidamente trattato nel recente La strategia dell’emozione di Anne-Cécile Robert (Eleuthera, 2019), pamphlet sull’estinzione dello spirito critico ad opera di un controllo sociale fondato anche sullo sfruttamento di emozioni e sentimenti, per certi versi limitarsi a psicologizzare l’analisi equivale già a manipolare e promuovere la sottomissione: anche per Ellul guardare alla propaganda solo attraverso la lente della manipolazione di simboli o dell’imposizione d’idee equivale a depotenziarla e intellettualizzarla.Certo, per il suo buon funzionamento è necessario provocare pseudo-bisogni e condizionare le reazioni a partire da miti collettivi oggi condivisi pressoché da tutti (il progresso, la tecnica, la convinzione che tutto sia materia) ma la propaganda, avendo il fondamentale scopo di dirigere concretamente gli uomini verso l’accettazione di precise riforme, richiede poi di organizzarsi razionalmente e capillarmente anche nella realtà fisica, necessita della partecipazione attiva del propagandato e comporta sensibili trasformazioni economiche e politiche. Non implica solo sommovimenti emotivi o cambiamenti dell’opinione pubblica secondo una narrazione che ci riduce a spettatori ipnotizzati, ma mira di fatto a condizionarci e mobilitarci nella vita quotidiana, a farci partecipare attivamente al dominio e ottenere da noi atti concreti – che siano acquistare dispositivi tecnologici sempre più invasivi o sottoporsi a iniezioni di sieri genici sperimentali. Così che a muoverci siano sempre riflessi e mai riflessioni.
A questo proposito, Ellul è ancora più netto sulla posizione del destinatario: a suo avviso, egli è sempre complice della propaganda a cui si sottomette. “Invoca egli stesso l’azione psicologica, e non solo le si presta, ma trova in essa la propria soddisfazione. Certo, è ben influenzato, manipolato, ma è perfettamente complice, involontario, incosciente, di questa propaganda. (…) Non esiste un propagandista cattivo, che crea mezzi per possedere il cittadino innocente, esiste un cittadino che invoca propaganda dal profondo del suo essere e un propagandista che risponde al suo appello” Per Ellul, si sceglie sempre e comunque di essere propagandato: la propaganda non è più da vedersi come creazione esclusivamente eterodiretta e volontaristica, ma come la conseguenza della necessità di sentirsi parte di un gruppo, di farsi un’opinione e di prendere posizione.
Una svolta di paradigma, questa, che spoglia di vittimismo e passività il ruolo del destinatario, configurandolo più come un consumatore di propaganda (o contropropaganda), per incoraggiarlo invece a farsi carico in prima persona della propria libertà, a divenirne responsabile. Ma questa presa di responsabilità – ossia di libertà – può solo darsi individualmente, o al più – secondo Ellul – in piccoli gruppi ai margini del sistema che possano collaborare tra loro.
Sappiamo che il totalitarismo, di cui la propaganda è inaggirabile braccio, dopo aver smembrato e atomizzato il tessuto sociale ha bisogno di masse e di grandi gruppi per vivere: sin dagli studi sulla psicologia delle folle di Gustave Le Bon è ormai un assunto sociologico fondamentale il fatto che se colto nella massa l’uomo sia più influenzabile e plasmabile (pur credendosene potenziato, come dice Ellul: “L’uomo della massa è effettivamente un sottouomo, ma si crede un superuomo.”).
Se scopo della propaganda è la conformazione dell’individuo, allora sarà il caso di dedurne un’ovvietà forse un poco dimenticata e impopolare oggi, se strategie o retoriche gruppali quando non direttamente proto-partitiche hanno la meglio anche in chi contesta l’esistente: è ancora la libera individualità critica, l’irriducibile singolarità umana, la prima vittima e il primo nemico di qualsiasi dominio di massa.
È l’unicità, l’inclassificabilità, finanche l’imprevedibilità del singolo individuo a fornire in sé e per sé – oggi come ieri – la maggiore resistenza possibile al totalitarismo e alle sue sirene propagandistiche. Insieme, s’intende, alle amicizie e alle relazioni umane che sappia costruire spontaneamente al di fuori dei recinti della tecnica e delle propagande incrociate. Perché ciò che meno di tutto la propaganda tollera è l’indipendenza, di pensiero come d’azione, non potendosi che riconoscere impotente contro gli individui realmente singoli e isolati: chi si pone in disparte dalla vita collettiva e dal dominio della tecnica sfugge al processo di ricompattamento del corpo sociale operato dalle propagande, non ne subisce gli effetti. Trattasi di ricompattamento, appunto, perché il capitalismo tecnoscientifico aveva già preventivamente e progressivamente sradicato l’individuo dalle comunità a cui già apparteneva, famiglia, terra natale e religione in primis (partecipando a più gruppi che sfuggono al totalitarismo della società tecnica, secondo Ellul, e quando questi non si traducano a loro volta in forme oppressive e normative, si rischia pur sempre di trovare se stessi, nonché appoggi esterni per resistere), spogliandolo sempre più della sua integrità e sovranità (in un processo che ha portato a disidentificarlo, oggi, anche dal suo stesso corpo, dal suo stesso sesso biologico).
Il “dividuo” residuo e gregario, così spaccato e dissociato, può agevolmente ricollegarsi agli altri – virtualmente e illusoriamente – solo per mezzo della Tecnica, o dello Spettacolo a dir si voglia (eretto a solo collante sociale, nelle parole di Debord: “Lo spettacolo non è che il linguaggio comune di questa separazione. Ciò che collega gli spettatori non è che il rapporto irreversibile col centro stesso che mantiene il loro isolamento. Lo spettacolo riunisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato.”). Perciò la propaganda – o la pubblicità, suo sostanziale equivalente – ha tutto l’interesse di cogliere l’individuo nel gruppo e solo in ciò che ha in comune con gli altri, là dov’è meno vigile pur a fronte dell’apparente personalizzazione del messaggio, diretto in realtà all’intera massa o a sue frazioni (si tratta dell’effetto Forer, concetto-base del marketing moderno, in cui si dà l’impressione che un messaggio generale sia modellato su misura della singola persona a cui si rivolge). È in questo contesto che il propagandato “desidera essere influenzato, fa la sua scelta addirittura in base alla propaganda che vuole ricevere”. L’individuo può così annullarsi all’insegna dell’inerzia, di una passività cinica e indifferente (così da lasciare liberi i manovratori), oppure – e sorprendentemente – della militanza politica, pro o contro una determinata, specifica questione.
Anche in quest’ultimo caso si può diventare insofferenti della propria stessa indipendenza, ci si riduce ad essere impegnati o ingabbiati in una posizione ugualmente predeterminata (Ellul ammicca all’etimo cage, “gabbia”, da cui deriva il termine francese engagé, “impegnato”), si è interiormente impossessati da un potere sociale, colonizzati dall’informazione e della propaganda stessa (o da un suo contraltare fasullo).
“La propria indipendenza – scrive Ellul – diventa il luogo di aggressione di tutte le propagande.” Propagande, nuovamente al plurale, che in questi anni hanno ritrovato nuovi territori d’elezione negli stessi dispositivi tecnologici, rifiorendo tra siti di controinformazione più o meno equivoca, canali youtube di dissidenza customizzata, social e app di messaggistica alternativa variamente controllate. Come nel proliferare di gruppi Telegram nati nell’estate 2021 con pretese emancipative e autogestionali, improvvisati think tank online di avvocati medici insegnanti, gruppi effimeri e del tutto impotenti in cerca di opinion leader a cui aggrapparsi – surrogati tecnici, canali spesso tenuti in piedi solo grazie alla disponibilità dei mezzi e all’ansia del momento, inutili sedativi tecnologici rispetto all’evoluzione implacabile degli eventi, da dismettere non appena gli obblighi e le imposizioni più visibili sarebbero venuti meno. Rinforzato da divisioni funzionali e contrapposizioni presunte (nonché da comode sospensioni del giudizio pel sacro timor di polarizzare), il sistema è stato più veloce ed efficiente di tutti noi, ha smantellato entro un anno quella narrazione ricattatoria, ne ha minacciate altre, preparandone altre ancora. Utili a offuscare la visione d’insieme, il riconoscimento delle costanti ideali e reali – transumaniste, disumane, antiumane – che continuano a divellere tutto ciò che vive, natura, società, economia, politica e cultura, rinsaldando la schiavitù di massa in altre forme.
D’emergenza in emergenza, sedimentazioni pluridecennali di propagande e falsificazioni vengono allo scoperto, ma al contempo – nel bisogno di connettersi, nella paura di essere esclusi – il guinzaglio tecnico si va accorciando, e le propagande che ne derivano non smettono di inquinarci.

Obbedienza e indifferenza degli intellettuali
(come la propaganda conquista colti e semicolti)

Nelle ultime pagine di Propaganda, tra gli Annessi posti in appendice alla parte più sistematica del suo studio, Ellul analizza in breve il caso specifico della propaganda di Mao Tse-tung, soffermandosi in particolare sulla tecnica del lavaggio del cervello. Ricordando, a conferma di quanto già accennato, che senza le pressioni del gruppo la risposta individuale è imprevedibile e in quanto tale pericolosa per il sistema totalitario, Ellul sottolinea come per il propagandista – mero tecnico al servizio del potere – sia urgente eliminare innanzitutto i fattori individualizzanti dei dissidenti: nel caso cinese, ad esempio, mediante la ripetizione incessante di slogan per mesi e anni, insieme alla privazione o limitazione del sonno e del cibo, si provoca di fatto una colonizzazione interiore dell’individuo, così da indebolire sistematicamente le capacità mentali e rendergli impossibile sviluppare una vita intellettuale autonoma.
Se l’indipendenza di pensiero è il peggior spauracchio della propaganda d’ogni dove, ci si chiede cosa ne sia delle resistenze delle élite intellettuali nei contesti totalitari. Ebbene, le pagine che Ellul dedica a questo sono tra le più sorprendenti e illuminanti di tutto il suo studio, ravvisando come – all’esatto contrario di quanto si pensi comunemente – la propaganda sia più efficace soprattutto sulle persone più colte e informate. Non tutte, naturalmente, ma in linea di massima vale un principio apparentemente contraddittorio: più ci si informa, più si è suscettibili alla manipolazione. Sono semmai gli incolti e gli analfabeti a non essere recuperabili in tal senso; lo scoprirono già i nazisti, che si accorsero della totale inefficacia della loro propaganda sui contadini tedeschi più illetterati e isolati. Così nel blocco sovietico, dove l’imperativo dell’alfabetizzazione aveva lo scopo primario d’indottrinare le masse al materialismo storico e alla lotta di classe. Lo stesso valga, più in generale, per i poveri: come ricorda Ellul, chi non ha mezzi e risorse è più immune alla propaganda rispetto a chi ha un certo livello minimo di benessere. Ne erano ben consapevoli le dittature comuniste, che per insufflare nelle menti del popolo quanta più propaganda possibile approntarono postazioni radiofoniche pubbliche e cinema gratuito per tutti (lo stesso potrebbe dirsi oggi per tv e smartphone: possono mancare i servizi essenziali, ma una connessione wi-fi non si nega a nessuno).
Ma come possono, proprio i più colti, essere vittime della propaganda?
Una ragione fondamentale è che buona parte degli intellettuali tendono ad essere anche i più conformisti e i più obbedienti ai miti sottesi al nostro tempo (di nuovo: progresso e tecnica). Inoltre, notando solo gli aspetti visibili della propaganda più crassa, finiscono per bollarla affrettatamente come goffa e inefficace (oltre che, come si è detto in apertura, poco “scientifica”), e in questa stessa arroganza, nel loro complesso di superiorità intellettuale (“siccome è convinto della propria superiorità, l’intellettuale è molto più vulnerabile di altri all’impulso della propaganda”) non riconoscono la propaganda – spesso più profonda, sottile e determinante – che viene invece esercitata su di loro. A modellarne gradualmente il pensiero è di solito proprio la già citata e ancora troppo trascurata sub-propaganda, da intendersi come una durevole e persistente manipolazione culturale che, inavvertita, assedia di fatto anche il mondo delle lettere e delle arti, toccando, ad esempio, tanto il cinema popolare che d’autore (come ben noto ai pensatori della Scuola di Francoforte e allo stesso Debord), quanto insospettabili cenacoli letterari e filosofici (si rimanda agli spunti offerti dal controverso e pionieristico pamphlet Gli Adelphi della dissoluzione di Maurizio Blondet, Ares 1994, e – fuori dall’Italia – da La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti di Frances Stonor Saunders, Fazi 1999), così che “la propaganda stessa passi per cultura, alimento intellettuale e spirituale”. Per convincere colti e semicolti, è poi assai utile conferire alla propaganda una “patina di scientificità”.
Abbiamo saggiato l’efficacia di questo stesso principio nei mesi dell’isteria psicopandemica prima e poi della frenesia pseudovaccinista: lo stesso Ellul parla della straordinaria capacità di persuasione di una propaganda che poggi su informazioni fattuali e tecniche apparentemente razionali come cifre e statistiche, le quali pur senza essere comprese, vengono credute all’istante e – in una società che ha eletto scienza e tecnica a nuove categorie del sacro – recepite con religiosa devozione. “Informazioni, fatti, statistiche, sondaggi, spiegazioni, dimostrazioni e analisi, oggi eliminano il giudizio personale, la capacità di farsi un’opinione, con molta più certezza di quanto non faccia la propaganda più esaltata”.
L’ipnosi numerica provocata dagli ossessionanti conteggi nei mesi della dichiarata pandemia – prima di “vittime”, poi di tamponi e “positivi”, infine dei “vaccini”, da replicarsi per più dosi – ha finito per creare, a partire da fattori apparentemente logici e razionali, una situazione violentemente irrazionale, parallelamente allo strumentale profluvio di dati, norme e teorie contraddittorie che si susseguivano, utile solo ad amplificare shock, stordimento e confusione. Più sono i fatti che vengono comunicati, infatti, più sarà semplicistica l’immagine globale, con l’esito di conformare il giudizio personale e – ancora una volta – espropriare di sé gli individui, che, con la pretesa di essere “informati”, saranno invece impossessati dall’interno di un potere sociale che li fagocita.
In queste condizioni di sovraccarico informativo, aggiunge sempre con acutezza Ellul, la propaganda stessa fornisce un orientamento predeterminato, semplificato e falsato, che ha però tutti i vantaggi di “un’assicurazione para-religiosa”, dissuadendo dall’ analizzare e interrogarsi. Le conseguenze sono ovvie: che siano i cosiddetti esperti – i virologi mediatici o il CTS, i programmatori del WEF o i climatologi istituzionali – a pensare al posto nostro, che ci dispensino dal giudicare e decidere, che si annienti così la personale capacità di discernimento.
Lo spirito critico, quel piccolo dettaglio – tra tanti altri – che ci rende umani.
Così come è importante stabilire da liberi individui relazioni sociali e alleanze al di là e contro le tecnoscienze, pur consapevoli delle (auto)distruttive “formazioni di massa” che possono crearsi anche nei movimenti di opposizione (per ricollegarsi a un punto-chiave oggi illustrato dal citato Desmet), allo stesso modo colti e semicolti possono uscire dalla stretta della propaganda coltivando l’approfondimento personale e lo spirito critico, non limitandosi ad accumulare letture senza rielaborarle, o uniformandosi alle tendenze e alle parrocchie culturali più in voga, ma esercitando quotidianamente la propria autonomia di scelta e giudizio anche su quanto leggono e vedono.
Non è affatto semplice, travolti come siamo, da quello che Ellul definisce con genialità il “puntinismo” dell’informazione moderna, dove prevale il primato dell’attualità (“si è prodigiosamente sensibili alla realtà immediata e ci si dimentica del problema permanente”) e nella discontinuità della visione quotidiana mancano distanza critica e profondità: un’attualità scaccia l’altra e le informazioni cancellano le precedenti. Il flusso incessante esige così continuamente una nuova messa a punto, impossibile da operare, producendo l’immagine di un mondo pericolante e incerto, mosso da una visione storica sempre parziale e lacunosa (così da rimuovere ed occultare anche le cause dei fatti, come vediamo anche riguardo alla guerra in Ucraina). Come davanti a un quadro puntinista di Georges Seurat, Ellul consiglia perciò di prendere una certa distanza per poter vedere realmente, ovvero per leggere e interpretare correttamente gli eventi.
Sforzarsi, insomma, di guardare da più lontano, a costo di diffidare sistematicamente dell’informazione quotidiana (anche di quella di certa controinformazione – si è tentati di aggiungere – che rischia di replicare in altra forma la superficialità, la fretta, l’approssimazione, la quantificazione ansiogena e stordente di quella ufficiale). L’informazione non è ancora conoscenza, né pensiero o cultura. E quest’ultima non è accumulo di nozione, ma restituzione di senso, ricerca e sforzo veritativo – richiede tempo per approfondire e pensare. Esattamente il tempo che la tecnica ci toglie, per imporci la sua cultura: una “cultura” che – nella prospettiva di Ellul come di Debord – consiste precisamente nell’adattare l’uomo alla tecnica (esemplificativo, in tal senso, come si imponga sempre più anche agli esseri umani il termine e concetto di “resilienza”, derivato dallo studio dei metalli). In proposito, un’altra indicazione preziosa è invece contenuta nel suo citato libretto Storia della propaganda, che traccia la parabola della propaganda pre-moderna.
Da una parte, Ellul vi ribadisce lo stretto rapporto esistente tra istruzione e sviluppo della propaganda sin dall’antichità: in Grecia l’insieme di tecniche atte a orientare e guidare il comportamento note come psychagogia erano rivolte principalmente alle élite intellettuali, e a Roma la propaganda scritta restava di fatto un fenomeno letterario limitato alle classi superiori. Ma è ancora più interessante notare come e perché, in seguito al grande impulso dato alla propaganda dall’invenzione della stampa, gli intellettuali francesi del XVIII secolo si rifiutassero di collaborare con la stampa: nel tentativo illuminista di contribuire a dare stabilità e chiarezza all’opinione pubblica (ad esempio, con il monumentale e rivoluzionario progetto dell’Encyclopédie, diretto da Diderot), per evitare di lasciarla fluttuare tra le contraddittorie informazioni quotidiane ritenevano di gran lunga preferibile dedicarsi alla scrittura di libri (anche brevi, come libelli e pamphlet) e incoraggiare più alla lettura di questi che non dei giornali, così da attaccare l’ancien régime in profondità e con mezzi più durevoli: essi chiedevano sì maggiore libertà di stampa, ma per la priorità che quest’ultima dava a quantità e velocità della produzione (e quindi, anche, nella facilità di prestarsi maggiormente a inganni e manipolazioni) era considerata, a differenza di pubblicazioni più rade e ponderate, “pasto degli ignoranti” (Voltaire) o “vanità senza istruzione” (Rousseau).
Ci sarebbero molti altri aspetti indagati da Ellul sulle strategie comunicative della propaganda che sarebbe istruttivo accostare a fatti e pseudofatti del presente e del recente passato: il principio fallace secondo cui “chi denuncia menzogne, allora dice la verità”, alla base della categoria strumentale delle “fake news” e dei grotteschi fact-checker, che tutto controllano e ben poco o nulla confutano (limitandosi a prevenire il sospetto di falsificazione: “accusare le intenzioni dell’altro rivela a colpo sicuro quelle di chi lancia l’accusa”); lo stesso sfruttamento di dati e fatti reali per darne un’interpretazione del tutto distorta e falsa (come direbbe Debord, “nel mondo realmente rovesciato, il vero è diventato un momento del falso”); l’edificazione di ragnatele semantiche viziate e inquinanti, per diffondere o risignificare parole che di per sé avvalorino o squalifichino, come “vaccini”, “no vax”, “negazionisti” o “scie chimiche” (Ellul proseguirà la sua analisi sulla destrutturazione e manipolazione del linguaggio a fronte del trionfo dell’immagine con La parole humiliée del 1981, inedito in Italia e ideale continuazione degli studi sulla propaganda, vicino agli scritti su lingua e propaganda di George Orwell, oggi in Il potere e la parola, Piano B 2021)… Si tratta, complessivamente, di ragioni che solo in parte possono spiegare, ad esempio, l’opera di screditamento e derisione da parte del mondo mediatico e culturale nei confronti del filosofo Giorgio Agamben per le sue posizioni sulla dichiarata pandemia (con il vergognoso micromanifesto “Non solo Agamben” stilato e firmato da 100 accademici italiani, puro gesto di squadrismo intellettuale dello spessore morale e contenutistico di un post di Facebook), né possono spiegare completamente perché, a fronte di una risposta studentesca ancora più spenta ed effimera, siano potuti essere così pochi i professori universitari che nel 2021 hanno firmato contro il Green Pass, e ancor meno quelli che siano arrivati a lasciarsi sospendere piuttosto che vaccinarsi. È qualcosa che sfugge alla predeterminazione della società e dell’ambiente perché riporta ciascuno alla sua propria indipendenza e alla sua responsabilità, autentiche condizioni di libertà. Sono queste le voci di maestri che davvero contano fuor di cattedra, figure di intellettuali tanto più ammirevoli e rare, a conferma di quanto oggigiorno restino necessari e decisivi i liberi gesti di singoli individui, più che gli schieramenti compatti e i movimenti unificati.
In breve: se si vuole resistere alla propaganda (o contro-propaganda) che tanto comodamente rassicura in un mondo di fatti confusi e incerti per fornire “un’assicurazione para-religiosa”, allora non bisognerà smettere – se ci si ritiene dotati di intelligenza umana – di inter-legere, ovvero di “trascegliere”, di analizzare e interrogarsi. Ellul ci ricorda con il suo esempio che uno sguardo realmente critico è sempre e comunque un ampliamento della prospettiva, e non una riduzione a punti fissi e posture cristallizzate sul singolo dettaglio – che fanno invece il gioco di una macchina propagandistica ben più svelta, lungimirante e dinamica di noi, anche nel coglierci in fallo, nel variare il grado e la modalità di falsificazioni e abusi.
Non è un caso che oggi sia in voga il termine “complottista” proprio per squalificare visioni olistiche e integre, capaci di legare fatti apparentemente irrelati, di disseppellire cause rimosse ed effetti taciuti, riconoscendo le vere continuità e le reali emergenze (rimando anche all’accezione del termine come restituito e fatto proprio dal filologo Francesco Benozzo, professore sospeso dall’Università di Bologna per aver rifiutato il Green Pass, nel pamphlet Memorie di un filologo complottista, La Vela 2021). È tutto il contrario di farsi prendere dalla smania di decostruire tutto, come vorrebbe l’epoca della cancel culture e dell’identità di genere: si tratta invece di demistificare, decrittare, decifrare. Di sbugiardare, senza smettere di interrogarsi e approfondire.
Per la propaganda d’ogni dove, sono questi i veri crimini del nostro tempo. Così, diventa “complottista” chiunque cerchi una visione autonoma e chiarificata dei poteri realmente in gioco: proprio oggi, laddove tutte le tecnoscienze e le forme di dominio convergono e si uniscono tra loro, è quantomai funzionale alla sopravvivenza del potere la necessità di stigmatizzare e deridere chi si sforza di trovare le chiavi interpretative di questo tempo da solo, con l’atto semplice e fanciullesco dell’imparare a “unire i puntini” in autonomia, senza che ci siano mass media, tecnici ed esperti a farlo per te, e poi magari, anche, a interpretare, pensare e decidere al tuo posto.

“Spezzare la coscienza umana”
Teoria e pratica di un dominio schizofrenogeno

Ma la vulnerabilità della classe intellettuale rimanda, in Ellul, a un problema più radicale, ancora una volta riconducibile alla tecnica, che concerne la separazione sistematica di pensiero e azione: “Chi pensa, nella nostra società, non può più agire per se stesso: lo deve fare per interposta persona, e in molti casi non può nemmeno più. Chi agisce non può pensare all’azione prima di compierla, per mancanza di tempo o sovrapporsi di impegni, o perché il corpo sociale vuole che egli traduca in azione il pensiero altrui.” È un unico tipo di dominio quello che usurpa l’intellettuale della capacità di agire e l’operaio di quella di riflettere, “libero” di pensare ad altro nella ripetitività dei gesti sul lavoro, ma sempre più automatico e irriflessivo nelle azioni. Le loro non sono, in fondo, che due forme di automazione e di impotenza speculari.
Al cuore della riflessione di Ellul sulla propaganda, troviamo così il motivo costante della dissociazione e della contraddizione, indotte in più sensi e forme dal sistema tecnico. Si tratta di autentiche “torsioni psichiche” inflitte dalla propaganda, che portano a riconoscere i risultati della manipolazione come logici e naturali. Dissociazione della parola dalla realtà, ad esempio, o tra razionalità dei dati e irrazionalità della narrazione da essi costruita, come si è detto. Contraddizione tra le forme di sapere, così che i tecnici non comunichino tra loro, e il divide et impera puntinista seguiti anche sul piano delle conoscenze e delle informazioni.
Dissociazione della coscienza, divisa tra esperienza diretta e suo surrogato mediatico: a educare alla vita ci penserà la propaganda-Spettacolo, figlia di cotanta tecnica e matrigna artificiale di spettatori inermi. Contraddizione tra le notizie quotidiane, così che l’esibito scollamento tra visione individuale e quella globale porti i dominati a svalutare la prima, sentire e leggere sempre più contro la propria percezione; ciò porterà, in breve, a fidarsi sempre meno di se stessi, e aggrapparsi solo alla seconda, uniformandovisi per stanchezza e autosvalutazione indotta (come altrove, nel lavoro come nel tempo libero, vi sarà anche il conflitto tra la presunta disponibilità e le reali possibilità, che a sua volta contribuirà ad alienare e dissociare ulteriormente l’individuo).
Contraddittorio è, del resto, lo stesso movimento essenziale della propaganda, che impedisce di conoscere la realtà dando però la sensazione di aver capito tutto.
E l’effetto stesso della propaganda si rivela fondamentalmente ambiguo e paradossale, come esemplificato da Ellul, sensibilizzando e mitridatizzando a un tempo. Da una parte, infatti, sensibilizza agli impulsi, rendendo più ricettivi e reattivi, specie nell’azione; dall’altra per Ellul “mitridatizza”, ovvero immunizza al suo contenuto, procurando indifferenza alle specifiche del dato argomento, a livello del pensiero.
L’individuo diventa così insensibile a certi temi e questioni, perché internamente ne è già invaso e assuefatto, e al contempo è pronto ad obbedire e rispondere nell’immediato: ad esempio, non vorrà saperne dei dettagli e delle problematiche di come funzionano realmente i vaccini mRna, satollo o nauseato dallo stordimento mediatico in materia, ma volentieri accetterà irriflessivamente di farseli somministrare, già solo per scaricare questa forma di tensione interiore. Come sanno gli psicologi, non c’è continuità necessaria tra convinzione e azione, e proprio in questa faglia interviene la propaganda, per allargarla e aggravarla.
Tornando alla propaganda pseudovaccinale, ad esempio, già solo il fatto che vi siano stati operatori olistici e naturopati prestatisi all’iniezione dei sieri genici, al punto da bypassare o tradire le proprie stesse competenze e certezze in fatto medico, può forse dar conto della potenza di fuoco della propaganda in corso (possano averlo fatto per sincera adesione o contrastata rassegnazione, è indifferente: il meccanismo della propaganda è cieco davanti alle sfumature, entrambi gli effetti sono contemplati e ne confermano ugualmente la riuscita).
“Per essere efficace – scrive Ellul – la propaganda deve provocare un cortocircuito tra pensiero e decisione”. Il pensiero non comporta più conseguenze d’azione, secondo quella che Ellul definisce una sistematica e deliberata “tendenza a spezzare la coscienza umana”. Il primo è ridotto a esercizio superfluo, a contare è un riflesso che aggira l’operazione intellettuale. “Così la propaganda – aggiunge Ellul – lascia all’individuo tutta la sua zona di libertà di pensiero”, vincolandolo però a precise azioni politiche e sociali.
Chiaro che in questo contesto la stessa “libertà di pensiero” non abbia più alcun senso: certo, l’individuo può essere liberissimo di pensare, quel che importanta è che sia sottomesso nell’azione concreta e castrato nell’iniziativa personale, o al più ricondotto a una mera reazione.
Anche oggi l’utente medio di Internet vive di mere reazioni, tra youtube, app e social, svolgendosi gran parte della sua attività intellettuale online tra emoticon e commenti, secondo criteri gregari e derivati, sempre meno creativi e unici. Così le altrettanto astratte “libertà di espressione” e “libertà di scelta” possono venir tranquillamente tollerate: tanto, a vincere sarà sempre il banco, essendo la Tecnica stessa a definire il range e le modalità di quell’espressione e di quella scelta. Poi, però, negli atti concreti si sarà tenuti ad obbedire, e a continuare a farlo.
Come ricordato da Ellul, già Joseph Goebbels, il ministero della propaganda nazista, sapeva bene come si possa dominare l’uomo lacerandolo tra comportamento e morale, haltung e stimmung, (sulle strategie di Goebbels è imprescindibile lo studio di Gianluca Magi, Goebbels: 11 tattiche di manipolazione oscura, Piano B 2021). Prosegue Ellul: “Non è perché un individuo è incapace di formulare con chiarezza quali siano gli scopi di una guerra che non si comporterà da buon soldato, se è montato come si deve dalla propaganda – e non è perché non è in grado di spiegare perché è razzista che non sterminerà gli ebrei – e non è perché non sa formulare i dogmi della lotta di classe che una persona non sarà un eccellente incollatore di manifesti, o un militante devoto.”
Differenze con il funzionamento delle macchine? Nessuna.
Ecco, in estrema sintesi, lo scopo della propaganda moderna, ergo la meccanizzazione assoluta dell’uomo. La propaganda scientifica, compagna invisibile della tecnica, non può che produrre una frattura devastante interna all’essere umano, tra pensiero e azione, tra mente e corpo. Paralizzato il giudizio individuale, smembrata la società, l’uomo si riduce per mezzo della tecnica al fantasma solipsista e alienato di se stesso, come già ravvisava Ellul: “Assistiamo al costituirsi, sotto i nostri stessi occhi di un mondo fatto di celle mentali chiuse, nel quale ognuno parla a se stesso, ciascuno rimastica senza sosta, tra sé e sé, le proprie certezze e il torto che gli fanno gli altri, un mondo nel quale nessuno ascolta più l’altro.”
Viene da pensare a quanto ora ci troviamo a un livello particolarmente avanzato e raffinato di dominio tecnocratico, dove la propaganda può letteralmente tutto, se partita da quegli stessi presupposti messi a nudo da Ellul e oggi così evidenti, ulteriormente perfezionati negli ultimi sessant’anni.
Se la potenza e la capillarità della propaganda sono proporzionali al nostro rapporto con la tecnica, rispetto ai tempi del filosofo francese potremo solo avere una vaga idea dell’entità della devastazione psichica che sta producendo su di noi. Chiesto in altri termini: trovare in una grande catena libraria di un’importante città italiana tutto un reparto dedicato agli stessi testi degli autori qui citati e molti altri – Desmet, Magi, Orwell, Zuboff, Byung, Bernays, lo stesso Ellul – con tanto di consigli personali degli impiegati, come tuttora può accadere, sarà un segno di rinnovata consapevolezza o di estensione della schizofrenia su nuovi livelli?
Come al tempo del Covid potevi guardare un celebre comico televisivo che riusciva a far ridere ed applaudire con una gag sulla totale inutilità e inefficacia del Green Pass un teatro pieno di gente, entratavi con tanto di mascherina e obbligo di Green Pass – e due anni dopo, su quello stesso canale tv, hai potuto sentire un drammaturgo che parla di cloudseeding in prima serata, nel periodo delle alluvioni emiliane, e il giorno dopo rassicurare tutti che no, non si riferiva certo alle “scie chimiche”, e no, non ha mai detto che l’inseminazione delle nuvole c’entrasse con i disastri in Emilia, che insomma non c’è niente di peggio dei “complottismi” – tutto solo perché servisse a ribadire in diretta tv la nota retorica dell’uomo-termite del mondo, così che in prospettiva neomalthusiana ed escatologico-transumana si seguiti a democratizzare le responsabilità tecniche e tossiche di chi ci domina e a distrarci dalle mansioni reali che si preparano a imporci – quei minimi ma decisivi atti d’indifferenza o obbedienza da banali, ordinari ed efferati esecutori d’ordini che tutti noi – assecondando questo sistema e questa propaganda – possiamo diventare. Ovverossia l’obbedienza quotidiana al tempo del Green Pass, o dell’ID2020 che verrà.
E quello che ci verrà chiesto e richiederà una risposta determinante non sarà se per noi si tratti di provvedimenti giusti o sbagliati, ma semplicemente: obbedirai ancora? Obbedirai meglio?
Così, mentre si continuano a provocare e alimentare guerre che solo sulla carta sono oggetto di “ripudio”, un simile principio dis­sociativo aiuta a leggere meglio il doppio volto di un regime tecnosanitario che ammala e uccide, di un’i­deologia biologico-culturale reificante e schiavista che si spaccia per emancipativa e a favore delle minoranze mentre è tra le più stigmatizzanti, sessiste e omofobe che ci siano, di un nuovo sedicente ecologismo che aliena dalla natura ed esilia dal selvatico per affidarsi alla digitalizzazione coatta e al cibo sintetico – di un’ossessione del controllo, in breve, che sta por­tando alla più totale perdita di controllo e di significato.
Come il responsabile del lager nazista di Bergen-Bel­sen poteva giustificare il fatto di non essersi opposto allo sterminio con la scusa che non aveva il modo e il tempo di pensarci, per via di tutti i problemi pra­tici derivati da forni crematori troppo piccoli per tutti quei cadaveri, come ricorda Ellul in un’intervista del 1992, così anche uscieri e addetti al controllo del Green Pass potevano sembrare – un paio d’anni fa – più preoccupati di capire come attenersi al funzionamento dei nuovi dispositivi di controllo, che non dal dilemma se fosse giusto o meno affamare ed escludere dagli uffici pubblici come dai luoghi di lavoro chi non vi si sottometteva, secondo una modalità di esclusione che loro stessi gestivano attivamente. Sono questi i tratti della meccanizzazione dell’umano: la mentalità tecnica, come ricorda Ellul, implica anestetizzazione morale, primato dell’efficienza e drastica riduzione della prospettiva. Anche oggi è sempre meno importante per il sistema sapere cosa pensiamo o cosa sappiamo, bensì cosa facciamo – o cosa non facciamo.
Combattere la fatalità tecnologica è possibile, ci insegna Ellul, con molti dei suggerimenti accennati sessant’anni fa: autonomia di pensiero e d’azione, spirito critico e disobbedienza civile, integrità individuale e coerenza di mezzi e fini, amicizie e relazioni umane fuori dal cappio tecnologico. Con un accorgimento importante: verremmo sbaragliati all’istante e tradiremmo la nostra stessa causa di esseri umani se pensassimo di poter replicare in termini di potenza e di efficacia – magari ricorrendo a tecnologie a vario grado “autogestite” o “indipendenti” – di fronte a sistemi che fanno dell’efficacia il loro Dio, insomma riducendoci a macchine – foss’anche solo ideologiche.
Se la tecnica è uno strumento di potenza al servizio di una società che ha come unico obiettivo la poten­za stessa – e che, a differenza delle società preceden­ti, ha acquisito mezzi di potenza illimitata – in questo contesto, l’importanza di passare da criteri quantitati­vi a qualitativi s’impone anche sul tipo di azioni a cui ricorrere. Per spezzare la meccanicità in noi, e riconoscerci come gli umani che siamo. “Solo la non potenza – chiosava Ellul – può salvare il mondo.”

Dario Stefanoni,
Luglio 2023

Pubblicato nel giornale L’Urlo della Terra, numero 11, Luglio 2023

Xenotrapianti e altre diavolerie

Xenotrapianti e altre diavolerie

Dal dialogo tra Silvia Guerini e Jeff Hoffman di La Casa del Sole Tv

Xenotrapianti
Il primo xenotrapianto risale al 1963 con un trapianto di cuore di scimpanzé in un essere umano che morì dopo 90 minuti per il rigetto dell’organo. Negli anni 80 a una bambina di sole due settimane fu trapiantato un cuore di scimpanzé e morì dopo due ore con atroci sofferenze.
Da principio l’animale più usato era lo scimpanzé, ma molto costoso e non facilmente reperibile. I pazienti morivano dopo atroci sofferenze e durante il periodo della loro sopravvivenza erano tenuti in vita da apparecchiature che li rendevano simili a zombi. Si passò al maiale iniziando a umanizzarlo con geni umani, una vera e propria chimera maiale-uomo con DNA umano iniettato nell’ovulo di scrofe poi fecondate artificialmente.
Le sperimentazioni sono continuate per tutti gli anni 90 fino ad arrivare ad oggi con maiali modificati geneticamente e umanizzati con la tecnica di ingegneria genetica CRISPR/Cas9, una vera e propria chimera maiale-uomo con DNA umano.
La sperimentazione degli xenotrapianti oltre sugli animali si effettua anche su esseri umani nella così detta morte cerebrale. Nell’ottobre 2021 per la prima volta dei ricercatori della New York University impiantano un rene di maiale geneticamente modificato in una donna in stato di “morte cerebrale”. Nel 2022 dei ricercatori dell’Università dell’Alabama impiantano due reni di maiale geneticamente modificato sempre in un uomo in stato di “morte cerebrale”.
Nel 2022 abbiamo invece il primo paziente americano che ha ricevuto un cuore di maiale OGM. Notizia riportata con entusiasmo anche dal Word Economic Forum. Dopo alcuni mesi l’uomo è morto a causa di un virus suino. [Nel novembre del 2023 è morto anche il secondo paziente del centro medico dell’Università del Maryland a cui era stato trapiantato un cuore di maiale OGM].
Gli organi di maiali modificati geneticamente vengono forniti dalla compagnia biotecnologica e farmaceutica United Therapeutics Corp o dalla Revivicor, una sua affilliata.
Questa compagnia è la più importante a livello internazionale per gli xenotrapianti e ricordiamo che il CEO è Marthin Rottblatt, trans MtF che fa parte dell’elite di potere transumanista ed eugentista, un nome che ritorna spesso nei nostri discorsi.
Questa compagnia non fornisce semplicemente gli organi, ma promuove e finanzia la ricerca in questa direzione e tutto l’impianto di ricerca biotecnologica e nanotecnologica.
Xenotrapianti e trapianti sono simbolo di una vita artificiale, che per affermarsi sopprime le nostre difese naturali, inibisce il nostro sistema immunitario, che altrimenti la rigetterebbe.
Gli xenotrapianti così come i trapianti avranno sempre problemi immunologici, non si può correggere la risposta naturale di un organismo, si può solo limitarne le conseguenze.
Sono un insulto fisiologico tale da uccidere di per sé la persona che riceve l’organo.
Animali e umani diventano oggetto di sperimentazione e di bricolage genetico.
Corpi cavie laboratori considerati come meri pezzi di ricambio, ridotti a un corpo-macchina, ma non solo, trapianti e xenotrapianti rappresentano proprio l’anticipazione di un futuro corpo ibrido, biotecnologico, riprogettato, mero assemblaggio di parti con innesti estranei.
Un tecno-corpo in una tecno-vita riprogettata in laboratorio.
Inoltre senza la così detta “morte cerebrale” – che non è la morte clinica ed un’invenzione medico-legale finalizzata al procacciamento di organi – non esisterebbe la sperimentazione sulle persone in morte cerebrale, pensiamo anche alla proposta di “Donazione gestazionale di tutto il corpo” al fine di usare i corpi delle donne in “morte cerebrale” come contenitori per portare avanti la gravidanza e anche i corpi degli uomini adattandoli per l’occasione.
E non esisterebbe l’intera industria dei trapianti e il lucroso sistema sanitario che rende i trapiantati clienti a vita dei produttori dei farmaci antirigetto.
Dobbiamo ricordarci che prima di passare all’uomo gli xenotrapianti vengono sperimentati su altri animali di specie diverse, abbiamo quindi organi di maiale transgenico trapiantati su cani, scimmie, pecore, mucche. Un babbuino con il cuore di maiale era sopravvissuto per 19 ore, esperimento considerato come un successo. La storia degli xenotrapianti si fonda su orribili crudeltà su animali e a seguire anche su umani e si può parlare di un vero e proprio omicidio legalizzato. Il lato oscuro di tutto l’impero farmaceutico e biotecnologico.
Quello che non ci viene detto è che in seguito allo xenotrapianto c’è una diffusa migrazione di cellule dall’organo dell’animale a tutti i tessuti della persona con formazione di tessuti a mosaico, cioè con due popolazioni di cellule: umane e animali.
Una chimera post-trapianto come viene definita dagli stessi ricercatori, i quali affermano che per diminuire la possibilità del rigetto dell’organo e per aumentare la possibilità di ripresa del paziente bisogna aumentare proprio il suo grado di chimerismo.
Inoltre quando si trasferisce un organo da una specie a un’altra non si sposta solo un pacchetto di cellule, ma anche tutti i sistemi coevolutivi virali in equilibrio con quel tessuto di cellule e inclusi nel DNA. I maiali, come tutti i mammiferi, contengono nel proprio genoma i protovirus: sequenze di DNA potenzialmente in grado di produrre particelle virali infettive. Questi protovirus possono sviluppare malattie in altre specie, protovirus che si trasformano in retrovurus attivi e che possono anche mutare o combinarsi con retrovirus umani dando vita a nuove malattie.
Il caso della mucca pazza con mucche nutrite con farine animali dovrebbe farci pensare.
Poi per effettuare lo xenotrapianto e anche il trapianto va distrutto il sistema immunitario della persona che rimane indifesa nei confronti di tutti gli agenti patogeni e ovviamente indebolita e resa paziente a vita.
Attorno agli xenotrapianti gli interessi per le compagnie biotecnologiche sono di miliardi di dollari, ma come sempre in questi ambiti, non è solo una questione di profitto, ma un ulteriore rafforzamento del paradigma biotecnologico.

Animali transgenici
Dalla tecnica di ingegneria generica del DNA ricombinante al CRISPR/Cas9 gli animali transgenici li troviamo nei campi della ricerca medica, della zootecnia, della produzione di farmaci e ovviamente non può mancare la ricerca militare.
Nel campo della ricerca e della sperimentazione per studiare malattie umane, pensiamo alla famosa oncotopa della Dupont modificata geneticamente per studiare il cancro al seno.
Animali ingegnerizzati che diventano modello sperimentale.
Nel campo zootecnico, animali transgenici per aumentare la produzione di latte, la prolificità, le dimensioni corporee, per velocizzare la crescita, per sviluppare nuove caratteristiche e nuovi adattamenti alla prigionia dell’allevamento intensivo.
Mucche che resistono di più alla mastite, pecore che permettono una tosatura più veloce ad esempio.
Se si vuole ottenere un ceppo bovino che trasferirà l’ormone della crescita alla prole viene inoculato l’ormone della crescita ingegnerizzato nell’embrione che viene impiantato nell’utero della mucca, se invece di vuole far ingrassare gli animali prima di ucciderli al macello vengono fatte iniezioni giornaliere con il medesimo ormone.
Questo zoo degli orrori ha un legame anche con le multinazionali chimiche, considerando ad esempio che gli ormoni impiegati vengono fabbricati per via sintetica e genetica da queste compagnie come Monsanto.
Dalla seconda metà degli anni 80 la possibilità di modificare il genoma fa evolvere la zootecnia che è sempre stata un immenso laboratorio di sperimentazione e messa a punto di determinate tecnologie, come anche le tecniche di fecondazione in vitro applicate poi all’umano, in generale il parco animale offre possibilità pressochè illimitate ed è da qui che derivano i più importanti sviluppi nel campo della riproduzione, transgenesi, chimerizzazione, ibridazione, clonazione.
Con le tecniche di ingegneria genetica la stalla diventa a tutti gli effetti laboratorio e la ricerca sul parco animale prelude sempre al passaggio al parco umano.
Poi abbiamo il campo della farmaceutica biotecnologica con la produzione di proteine, ormoni, farmaci, vaccini, come ratti che producono l’ormone della crescita nel loro latte, capre che producono una sostanza per sciogliere i coaguli del sangue e così via.
Abbiamo una serie di pecore e capre umanizzate che producono latte da cui si ricavano farmaci che trasmettono i geni umani anche alla generazione successiva, pecore e capre venute alla luce con questa caratteristica ovviamente solo dopo una serie infinita di esperimenti e atrocità.
Arriviamo ai così detti nutraceutici, ovviamente qui non intendo un antiossidante naturalmente presente in un alimento, ma parlo di ingegneria genetica. Potremmo dire che dalla prima generazione di nutraceutici di piante OGM con ad esempio più vitamine, come il Riso arricchito con la vitamina A sdoganato con la retorica di far fronte alle carenze alimentari nei paesi del sud del mondo, passiamo alla seconda generazione con piante e animali OGM che producono biofarmaci, qui il farmaco diventa alimento. Forti gli investimenti in questa direzione anche dai soliti noti come la Fondazione Gates.
Nel confine tra civile e militare che sfuma sempre di più abbiamo le zanzare modificate geneticamente in una ricerca finanziata dal National Institute of Health per vaccinare gli esseri umani e in tempi di stermini genetici, come ben definiti dalla stessa DARPA, la tecnologia di ingegneria genetica Gene Drive, messa a punto con il Crispr/Cas9, diffonde una mutazione genetica in una popolazione per sterilizzarla ed estinguerla. Zanzare, ratti, ermellini, opossum, nei progetti Target Malaria in Africa, Predator-free in Nuova Zelanda fino al rilascio di miliardi di zanzare geneticamente modificate in California e in Florida. Progetti finanziati anche dalla Fondazione Gates e che vedono tra i ricercatori anche Andrea Crisanti alla guida di un team di ricerca internazionale sul Gene Drive.
“GE Insects” è l’acronimo di “Genetically Engineered Insects” “insetti geneticamente modificati”.
Il programma Insect Allies della DARPA prevede di utilizzare insetti per diffondere virus, per ora sono ancora al livello dell’alterazione dei cromosomi delle piante. Ma in tempi di guerra batteriologica possiamo ben immaginare gli sviluppi di tali progetti.
DARPA finanzia tutte le ricerche di punta nelle tecno-scienze, aveva finanziato delle ricerche per mettere a punto la tecnologia a mRNA, per delle nanoparticelle iniettabili al fine decifrare i segnali dei neuroni, per delle nuove tecnologie interfaccia cervello – computer ed è anche il principale finanziatore delle ricerche sul Gene Drive. Nel 2019 è stato pubblicato il rapporto “Cyborg Soldier 2050: Human-Machine Fusion and the Implications for the Future of the DoD” del Biotechnologies for Healt and Human Performance Council, ente responsabile dello sviluppo nel settore della biotecnologia militare del Dipartimento della Difesa statunitense.
Dalla “super mucca” al “super soldato” al “super uomo”, ma quello che non verrà detto è che questo “super uomo” sarà in realtà un paziente a vita, medicalizzato dalla nascita alla morte, avvolto da una rete di algoritmi che decreteranno quello che sarà meglio per lui.
Tutto questi ambiti di ricerca non sono nuovi, è dagli anni 80 che stanno lavorando in queste direzioni. Questo è molto importante da sottolineare perché fa comprendere che questa Grande Trasformazione e Riprogettazione dell’umanità e di tutto il vivente con la convergenza delle tecno-scienze se adesso arriva a manifestarsi con forza, in maniera plateale, dopo non nascondono neanche alcuni loro progetti, e se sono possibili passaggi prima inimmaginabili, questi erano impossibili solo a livello tecnico, ma da tempo erano immaginati dai loro fautori che si sono nel tempo dotati degli strumenti per realizzarli.
Quello che 20 anni fa denunciavamo ai più sembrava fantascienza, ma ora si sta concretizzando, prepariamoci quindi a quello che ancora deve arrivare, è necessario a opporsi all’intero paradigma genetico, artificiale, cibernetico senza aspettare di vedere realizzati altri sviluppi.

Disumanizzazione della società
Le conseguenze di tutto questo vanno proprio a intaccare un piano etico con conseguenze profonde.
Oggi in un mondo post-verità anche la stessa morte viene stravolta e risignificata, con la così detta morte cerebrale anche la morte diventa un’interpretazione.
Era semplice, un tempo, la morte, anche un bambino la poteva riconoscere. Si capiva che una
persona era morta non servivano protocolli e tecnici a decretarla.
Chiediamoci dove siamo arrivati oggi dopo che si è permessa la predazione degli organi, che è stato un fondamentale passaggio, una società che non ha più nemmeno sdegno difronte a un corpo vivo squartato e predato. Perché chiariamo l’espianto di organi si effettua da persona in coma sottoposta a ventilazione mediante intubazione, e non da un morto in arresto cardio-circolatorio-respiratorio, come tutti intendiamo. In questo ultimo caso gli organi sarebbero inutilizzabili.
La persona viene incisa dal bisturi mentre il suo cuore batte e il sangue circola. il corpo è roseo e tiepido, urina, può muovere le gambe e le braccia. Le donne incinte portano avanti la gravidanza.
Gli organi vengono predati quindi da una persona che ha perso la coscienza, dichiarata dopo 6 ore in “morte cerebrale”, le cui reazioni alla sofferenza prodotta dall’espianto sono impedite da farmaci paralizzanti o da anestetici. Addirittura protocolli diagnostici per dichiarare la morte cerebrale inducono un danno irreversibile su pazienti che potrebbero essere salvati.
Una società che non rispetta la morte non potrà nemmeno rispettare la vita.
E chiediamoci anche dove siamo arrivati oggi dopo che si è permessa la vivisezione sugli altri animali.
Oggi, dove tutto si sta accelerando, siamo difronte proprio alla cancellazione di punti fermi etici. Si arriva a promuovere il trapianto di utero per le gravidanze maschili e la cosa più terrificante non è la proposta in sé che viene da chi ha tutti gli interessi in questo, ma che non susciti nemmeno sdegno e un senso di appropriazione della dimensione della nascita.
David Baltimore, ricercatore di importanza mondiale che aveva messo a punto la tecnica del DNA ricombinante, che aveva organizzato la famosa conferenza di Asilomar negli anni 70 per, di fatto, una regolamentazione di quella tecnica, che abbiamo visto ancora di recente insieme a Jennifer Dodna, ricercatrice che aveva messo a punto la tecnica del CRISPR/Cas 9, insieme per regolamentare l’editing genetico – questo per far capire il personaggio – si era posto contrario alla possibilità di considerare gli sviluppi tecno-scientifici come un qualcosa di eticamente inaccettabile. Non era proprio ammessa questa inaccettabilità da un punto di vista etico. Questo perché nel loro mondo, nel paradigma del laboratorio, non possono esistere punti fermi etici, tutto deve evolversi seguendo la direzione dettata da quello che gli sviluppi tecno-scientifici rendono non solo possibile, ma anche semplicemente pensabile e immaginabile.
Per quanto riguarda la retorica per cui con trapianti, xenotrapianti, vivisezione si salverebbero delle vite chiediamoci questo cosa realmente significa e chiediamoci quale senso viene dato alla concezione di salute, di malattia, di morte, di corpo.
Connaturati al trapianto e allo xenotrapianto di organi, così come alla vivisezione e alla modificazione genetica, sono la manipolazione, la meccanizzazione e riprogettazione dei corpi tutti.
Facile per la retorica il mascherarle, edulcorarle, imbellettarle e deviare l’attenzione altrove rispetto al centro della questione. Facendo subentrare anche una concezione utilitaristica. Ma noi abbiamo un altro sguardo sul mondo, non seguiamo il criterio dell’utile, ma fissiamo una netta linea etica.
Cosa potrà mai esserci in comune tra un vitello in un utero artificiale, una pecora clonata, un ratto immobilizzato su un tavolo di laboratorio, un macaco con un microchip nel cranio, un torace sventrato per estrarre un cuore che ancora batte? Cosa potrà mai esserci in comune? Lo sgomento che suscitano. Ecco oggi siamo nella situazione tale che le persone non provano più nemmeno questo sgomento, figuriamoci poi opporsi a queste pratiche, a questi processi e alla visione di mondo che li sottende.
Cos’hanno in comune ingegneria genetica, trapianti d’organo, sperimentazione sugli animali e sugli umani? Il possesso, la predazione, la manipolazione, il criterio dell’utile, della funzionalità, dell’ottimizzazione e un’idea del vivere e del morire profondamente transumanista.
Così come con gli animali transgenici umanizzati e gli xenotrapianti si sfida la differenza tra specie, perché non esiste limite nell’avanzare transumanista. Curioso notare che nell’ultimo libro di Donna Haraway, “Ctulucene”, nel nuovo modello di società i bambini e le bambine vengano prodotti con uteri artificiali, modificati geneticamente con geni di altre specie e che nascano neutri, senza sesso biologico.
Cos’hanno in comune coloro che vi si oppongono a tutto questo? Un valore intrinseco dei corpi e dell’intero vivente. Un senso del limite. Un’accettazione della malattia e della morte come parte della vita. Un voler essere umani e non macchine funzionanti.
Dovremmo consumare, consumarci e farci consumare, rendere utili anche i nostri corpi e anche i pezzi dei nostri corpi, dovremmo implementarci e ottimizzarci. Ma l’intero vivente, la nascita e la morte devono essere considerati e devono rimanere indisponibili.

Resistenze al nanomondo, Gennaio 2024

Bruciare i libri, la nuova inquisizione trans queer

Bruciare i libri, ecco la nuova inquisizione trans queer per tutto ciò che non rientra nell’ideologia progressista biotecnologica transumana di cancellazione dei corpi, della natura, della vita, della realtà, per tutto ciò che non rientra in quel piagnisteo vittimistico che ogni giorno ci regala perle di miseria e desolazione umana, che trasforma ogni desiderio in diritto e ogni volontà soggettiva in realtà oggettiva. Dalla simbologia anarchica sugli adesivi non avremmo mai detto che i nuovi soldatini fluidi spennellati di verde e fucsia adorni di unicorni Gegi delegassero ad altri quello che non possono o non riescono a fare, e l’autodeterminazione? Nel mentre le conseguenze, quelle vere, quelle che permeano i corpi tutti prendono possesso dei corpi dei bambini e degli adolescenti invischiati nel contagio sociale della trans-identificazione e presi nella morsa della trans-industria e sui quei bambini strappati dalle madri per consegnarli a dei genitori committenti nella pratica dell’utero in affitto. Conseguenze sull’umanità tutta resa fluida, neutra, sterile, sradicata, cantiere permanente, bricolage genetico, prodotto da laboratorio pronta per essere dirottata nel transumano.
Ricordiamo a Marzo di quest’anno alla Fiera dell’editoria delle donne “Feminism 6”, tenutasi presso la Casa internazionale delle donne di Roma, l’annullamento della sessione “Sex work – Prostituzione” al fine di censurare il libro Sex work is not work, (leggi qui: https://www.finaargit.org/dallitalia-e-dal-mondo/censura-non-riuscirete-a-zittirci/), l’invio da parte dei soliti ignoti di mailbombing e i vari post su internet contro alcune autrici e contro questi libri definiti transfobici “Per l’abolizione della maternità surrogata” (ediz. Ortica), “Dal corpo neutro al cyborg postumano. Critica all’ideologia gender” (ediz. Asterios Editore) e “Sex work is not work” (ediz. Ortica), (leggi qui: https://www.resistenzealnanomondo.org/italia-mondo/contro-il-transumanesimo/, e qui: https://telegra.ph/Sui-nostri-corpi-decidiamo-noi-Fuori-le-TERF-Fuori-le-SWERF-03-03). La scelta dell’anonimato non è da poco, è da considerarsi strategica, si sentono già in clandestinità, perché tutti li cercano, ma non per censurarli o arrestarli, ma per assumerli e dargli voce, sostenere le loro battaglie che in tempi di dichiarate pandemie hanno addirittura avuto i primi posti. Il potere ha bisogno di questi queerini che a parte essere una minaccia per loro stessi non rappresentano un pericolo e anzi sono l’insperata versione grottesca di una ribellione priva di tensione antisistema, anticapitalista, antiautoritaria… diventando ingrediente speciale sintetico per nutrire ogni emergenza che si presenta all’orizzonte.
Sempre a Marzo a Firenze durante un nostro presidio davanti all’Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi di Firenze contro la medicalizzazione dei bambini e bambine con i bloccanti della pubertà abbiamo visto l’arrivo da più parti d’Italia di un gruppetto variopinto di anarco-queer e transfemministe/i, il loro scopo contestare l’iniziativa supportando le baronie universitarie della ricerca, pubblica e privata degli specialisti del Careggi, (leggi qui: https://www.resistenzealnanomondo.org/necrotecnologie/nessuna-e-nessuno-nasce-in-un-corpo-sbagliato-denunciamo-le-conseguenze-irreversibili-dei-bloccanti-della-puberta/).
Sapranno questi giovani attivisti e quelli meno giovani sorpresi dal segno dei tempi e quindi invecchiati male cosa succede nella realtà sociale del mondo? Si interrogano sulla grande trasformazione in corso? Ovviamente no perché per loro la realtà è da distruggere e i palazzi che ereditano disprezzando padri e madri sono campi di battaglia, come fossero case occupate, anche se a parte le tasse nessuno ha mai preteso niente da loro. Odiano il denaro elargito da quelle odiate famiglie e infatti ogni volta che si accingono agli sportelli a prendere il mensile è come una rapina in banca, ma armati di carta digitale.
A livello internazionale si moltiplicato episodi simili per chi non rientra nella Cappa progressista arcobaleno transumana. Da parte nostra ribadiamo l’indisponibilità dei corpi e del vivente e ricordiamo che la resistenza per chi ne è ancora alla ricerca è da trovare altrove.

Resistenze al nanomondo, Gennaio 2024

Fotografie scattate a Bologna presso la libreria Ubik in via Irnerio:

Inganno climatico e fanatismo (anti) ecologista. Dalla narrazione climatica all’ingegnerizzazione della vita

Ci viene detto che dobbiamo transitare verso un mondo migliore perché quello attuale non è sostenibile. Che dobbiamo essere guidati alla massima velocità verso l’era delle macchine e dell’Intelligenza Artificiale. Che dobbiamo lasciarci transitare verso il nuovo mondo auspicato da Klaus Schwab and Company, così da poter essere governati da un regime tecno-scientifico che metterà “in discussione la nostra concezione di essere umano”. Che dobbiamo transitare senza sosta, sferzati da un susseguirsi di emergenze infinite, fino ad approdare nel transumanesimo con un DNA “migliorato” e un microchip nel cervello, trascinando nel Mondo Nuovo la Natura intera.
Siamo entrati nell’era delle emergenze “convergenti”: si supportano reciprocamente nell’esigenza di plasmare il mondo secondo una precisa volontà, decifrabile nel programma dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e della Quarta Rivoluzione Industriale.
La transizione ecologica risponde all’urgenza di contenere il cosiddetto Riscaldamento globale causato dalla CO2, scatenando così una vera e propria carboniofobia: la CO2 diventa il nemico invisibile che mette in pericolo la vita terrestre, smuove la “sensibilità” dei “padroni universali” affinché si faccia l’impossibile per salvare “il pianeta in fiamme”. La realtà prodotta in vitro nei laboratori massmediatici di manipolazione di massa, a cui tutti devono aderire acriticamente, forgia una massa compatta e uniforme, resiliente agli imperativi calati dall’alto e pronta a fare la propria parte nella lotta alla “pericolosissima” anidride carbonica. Contemporaneamente, l’economia di guerra, principale responsabile dell’inquinamento ambientale e delle emissioni di CO2, vola: si svuotano i “vecchi” arsenali per riempirli con nuovi strumenti di morte a tecnologia avanzata, nella totale indifferenza della galassia “ecologista”. Il personaggio simbolo della militanza ecologista è Greta Thunberg, che dalla gavetta passata a presidiare il Parlamento svedese è arrivata ai salotti di Davos. Greta è il prodotto in vitro di Al Gore e degli altri pesi massimi della narrazione catastrofista, è “l’influencer” che sollecita i giovani ad invocare il programma “ecologista” messo a punto dai centri di potere finanziari, tecnologici e dall’ONU, per salvare il Pianeta “prima che sia troppo tardi”.
Ai seguaci di Greta si sono aggiunti Just Stop Oil (Regno Unito), Ultima Generazione (Italia) e tanti altri gruppi di eco-ansiosi. Sono i neo-attivisti 4.0, accessoriati con colla vernice e telecamere al seguito, per riprendere in tempo reale quello che sembra un set cinematografico più che una protesta. I neo-attivisti sono spregiudicati perché il “Tempo per salvare il Pianeta è finito”, e con esso anche le buone maniere. Imbrattano le opere d’arte nei musei, bloccano il traffico, si incollano alle pareti, dominano i salotti televisivi mainstream per promuovere le loro ansie climatiche.
Mettono in scena delle vere e proprie sceneggiate sponsorizzate dai loro padroni: i filantropi progressisti e simpatizzanti dell’ideologia transumanista. Fanno proprie le istanze portate avanti dall’elite mondiale e dai loro finanziatori. Si sentono “woke”, i risvegliati. Agiscono illudendosi di salvare il mondo a suon di slogan preconfezionati contro la CO2, il clima che cambia e l’estrazione dei combustibili fossili, peccato che “dormano” sull’impatto devastante della transizione digitale e sull’aumento esponenziale dell’inquinamento elettromagnetico. Sono “fluidi”, perfettamente adattabili al contenitore ideologico di chi li finanzia, e funzionali all’avanzare del Grande Reset e della piena realizzazione della Quarta Rivoluzione Industriale. Difendono tutte le istanze del potere dominante, dal consumo di insetti alla carne sintetica, dall’ideologia Lgbtq+ al depopolamento per salvare il Pianeta, diventando così gli utili idioti della transizione green e transessuata della società. I movimenti Friday for Future, Extintion Rebellion, Just Stop Oil, Ultima Generazione e via dicendo, non sono altro che la base di una piramide gerarchica al di sopra della quale risiede una nutrita cricca di politici, manager, fondazioni filantropiche, elite finanziarie e tecnocratiche, magnati del petrolio, del nucleare e delle energie “pulite”, organizzazioni governative e non governative; al di sotto della base piramidale, invece, la massa umana viene educata alla resilienza come nuovo atto di fede, come via di salvezza dalle crisi infinite, così che si adatti a non possedere nulla, a non avere privacy e nonostante tutto ad essere felice, secondo lo slogan del World Economic Forum, a nutrirsi di cibo industriale, di insetti e di carne e verdura sintetiche, a mandare i propri figli in scuole trasformate in hub tecnologici che sfornano automi digitali. Dalla manovalanza “eco fluida”, passando per le Ong ambientaliste, fino ad arrivare alle organizzazioni governative, vengono diffusi gli stessi identici messaggi catastrofisti, “conditi” con date “sparate a caso”, ma che danno forza a slogan palesemente sospesi tra il genere fantasy e quello fantascientifico.
L’obbiettivo è quello di instillare paura, di convincere la massa che si è di fronte ad un pericolo concreto ed imminente; l’orgia di slogan a bassa qualità di contenuti, diramati ovunque e in modo martellante e sistematico, hanno il preciso compito di assuefare la massa e di farla ballare al ritmo della stessa musica orchestrata da più direttori d’orchestra. “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”: è la citazione attribuita a Joseph Goebbels. L’insistenza con la quale si propaganda il catastrofismo climatico annienta il pensiero critico e distorce la percezione della realtà, al punto che qualsiasi evento viene ricondotto acriticamente alla questione climatica: i disastri da eventi estremi vengono imputati al clima piuttosto che al deforestamento, alla cementificazione, alla modificazione estrema dell’ambiente e alle operazioni di geoingegneria terrestre e atmosferica [1].
L’anidride carbonica diventa il nemico; ce lo ricordano in coro i fautori dell’ambientalismo catastrofista, col preciso intento di annichilire l’essere umano e di colpevolizzarlo, indicandolo quale fautore del cambiamento climatico, inducendolo così ad assecondare la distruzione e la riprogettazione della Natura e al contempo a credere che sia questo il modo di salvarla. Dal pericolo di alluvioni a quello della siccità, passando per l’innalzamento dei mari, la catastrofe è sempre dietro l’angolo: lo dice la Scienza, lo dice l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), lo ripetono i centri di potere governativi e non governativi ed infine lo strillano le manovalanze eco-fluide.
L’IPCC, voluto dall’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), dal WMO (Organizzazione meteorologica mondiale) e dal filantropo petroliere Maurice Strong, è il braccio armato scientifico dogmatico della narrazione climatica. I rapporti IPCC vengono citati ovunque e da chiunque parli di emergenza climatica: l’IPCC diventa a tutti gli effetti un marchio di garanzia teorica, perché nella pratica, i rapporti prodotti dagli “esperti” sono il risultato di modelli matematici computerizzati fallaci e parziali, basati su simulazioni del comportamento fisico e chimico dell’atmosfera, escludendo, anche se con eccezioni, gli scienziati del sole, delle nuvole, gli idrologi-oceanografi ed i biologi: studiosi che potrebbero contribuire all’analisi dei cambiamenti climatici, e che sono generalmente dubbiosi sui risultati dei modelli e sul fatto che siano le attività umane ad influenzare in modo rilevante il clima globale [2]. In più occasioni è stato accusato di produrre scenari completamente diversi dalle osservazioni reali [3]: questo significa che il riscaldamento climatico globale – che diventa “cambiamento” a piacimento- convince il mondo a vivere la realtà virtuale di una imminente catastrofe planetaria che però non si verifica e quindi si sposta in avanti la data. L’IPCC si è distinto per una serie di “errori” e di scandali che avrebbero dovuto minarne la credibilità. Si pensi, per esempio, all’utilizzo del grafico con “curva a mazza da hockey”, che ha fatto scomparire il periodo caldo medioevale, così come quello romano e quello dell’Olocene e pure la piccola era glaciale (1550-1850), grafico adottato nella stesura di diversi rapporti per dimostrare che quello attuale è il periodo più caldo di sempre.
Nel IV rapporto del 2007, l’IPCC ha previsto un drammatico ritiro dei ghiacciai Himalayani entro il 2035, e solo a seguito di una indagine è stato scoperto che quella data era stata presa a prestito da un rapporto del WWF e che studi più seri rimandavano il pericolo al 2350. E’ l’ideologia della “cancel culture” applicata alla storia del pianeta: la “cancel culture” così come si ripromette di manipolare e recidere la memoria storica che ha forgiato l’evoluzione della società umana, affinché non vi sia più nessuna comprensione e continuità con essa, allo stesso modo nega la storia della Terra e dei suoi eventi ciclici del passato, i cicli di riscaldamento e di raffreddamento del pianeta verificatisi indipendentemente dall’impatto umano. L’IPCC e l’industria climatica ibridano una scienza perversa con la politica l’economia e la finanza, al fine di apportare cambiamenti epocali di natura antropologica, ma anche politica economica e sociale. La macchina del fango travolge chi non si allinea alla narrazione emergenziale, mentre vengono omessi o minimizzati“gli errori” degli “esperti ufficiali”.
Soffocare il dissenso diventa indispensabile per far si che sopravviva una sola parte della storia, quella scritta dalla narrazione “ufficiale”, alla quale bisogna aderire acriticamente. La tesi del riscaldamento globale di origine antropica rimane blindata in una unica narrazione, dalla quale attingono esperti da salotto televisivo come i vari Mercalli e Tozzi, che possono parlare ad oltranza senza contraddittorio, perché coloro che sono critici rispetto al “catastrofismo climatico” sono stati esiliati nel mondo del negazionismo e del complottismo insieme ai no-vax e ai no-war.
I rapporti dell’IPCC enunciano scenari dati per certi, come se il pianeta non rispondesse più ad una sua natura organica, con i suoi ritmi inalienabili, “casuali” ed imprevedibili, bensì ad un insieme di calcoli, di congetture e di parametri inconfutabili.
Rosalie Bertell ci ricorda che la Terra è un organismo in armonia con l’Universo, “dialoga” con gli altri Pianeti, influenza ed è influenzato dal sole e dalla luna. “Oltre quattro miliardi di anni fa il pianeta Terra fu formato. Né troppo vicino, né troppo lontano dal nostro sole, in modo che la temperatura fosse quella giusta per la vita” [4]. Il clima che cambia indipendentemente dall’attività umana è un segnale di vitalità della Terra, sarebbe preoccupante il contrario. Invece, secondo l’IPCC, la Terra e il suo clima dovrebbero essere gestiti come un macchinario sul quale fare manutenzione a breve, medio e lungo termine. La natura terrestre con tutta la sua complessità e i suoi misteri viene declassata a sistema matematico computerizzato e in modo imperativo si afferma la necessità di contenere le temperature per “stabilizzare il clima”. Si tratta di obbiettivi sinistri che mascherano l’inquietante intenzione di governare il clima artificialmente e di ufficializzare la geoingegneria atmosferica.
Non è un caso che il rapporto IPCC pubblicato nel 2013 includesse gli studi del geoingegnere Alan Robock e che a febbraio 2023 l’UNEP pubblicasse un rapporto sulle tecnologie in grado di raffreddare il pianeta, stilato da ricercatori “indipendenti”, tra i quali spicca il nome di Ken Caldeira, il noto geoingegnere a libro paga di Bill Gates. La CO2 non è un inquinante: le molecole di CO2 di origine naturale e di origine antropica sono uguali e indistinguibili per l’atmosfera. L’anidride carbonica è indispensabile per la sopravvivenza della vita sulla terra, incrementa la fotosintesi e la crescita delle piante, questo spiega perché i periodi storici caratterizzati da un’elevata concentrazione di CO2 hanno coinciso con l’aumento della vegetazione.
Nell’immaginario collettivo si è radicata la convinzione che l’aria sia satura di CO2 di origine antropica, ma la realtà è ben diversa perché ad oggi, l’anidride carbonica emessa dall’uomo è una piccolissima parte rispetto a quella che proviene naturalmente dagli oceani e dalla terra ferma. E’ inverosimile che sia proprio quella piccola parte di emissioni antropogeniche a minacciare il pianeta. Con la scusa di combattere la CO2, il sistema dei crediti di carbonio, che finora riguardava la produzione industriale, si sta estendendo al singolo individuo. La macchina del controllo e della sorveglianza di massa, messa a punto con il green pass “venduto” ai più come strumento sanitario, si sta ripresentando (per il momento) a livello sperimentale, quale strumento per combattere il riscaldamento climatico.
Già nel 2006, David Miliband, l’allora Segretario di Stato inglese per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali dell’amministrazione Blair, aveva proposto l’introduzione di una “carta di credito del carbonio” destinata ad ogni cittadino britannico, da utilizzare, per esempio, quando si fa benzina, si prenota un aereo o si paga la bolletta energetica, ma i tempi non erano maturi e non se ne fece niente.
Poi, nel 2019, la start-up svedese Doconomy, in collaborazione con Mastercard e con il benestare dell’ONU e del WEF, crea la prima “carta di credito del carbonio”, che associa ai beni e ai servizi acquistati dal suo proprietario un determinato quantitativo di emissioni di CO2 e provvede a bloccarne i consumi, superata una certa soglia. “L’obiettivo è incoraggiare le persone a ridurre attivamente la propria impronta di carbonio e dimostrare l’impatto che piccoli cambiamenti possono avere sull’ambiente”. L’esperimento del tracciamento del consumo di CO2 è stato esteso ad altri Paesi.
Il grado di adesione a questi nuovi strumenti di controllo sono proporzionali al grado di assuefazione degli individui alle emergenze perpetue e alla “comodità” digitale. Con la scusa della riduzione della CO2, l’introduzione di un tale strumento comporta una svolta epocale negli stili di vita e l’indottrinamento forzato verso tutto ciò che sarà etichettato “eco-sostenibile”, indipendentemente che lo sia veramente. Insetti, carne e verdura sintetiche diventeranno scelte obbligate, da preferire ai cibi tradizionali e biologici, pena il blocco della carta.
L’Unione Europea ha stabilito l’obsolescenza forzata per auto e abitazioni che non saranno conformi agli standard “eco sostenibili” fissati per il 2035. Le abitazioni saranno sottoposte all’obbligo di “ecologizzazione” forzata: nel nome della lotta al riscaldamento climatico, le case diventano degli spazi domotici intelligenti,“incappottati” con il polistirolo per far loro assumere un’estetica in sintonia con i presupposti della città intelligente: le abitazioni ristrutturate diventano dei cubi grigi, asettici, pressoché identici gli uni agli altri, sintomo di una società eterodiretta verso il monogusto.
Si va verso il livellamento dell’umanità dal punto di vista sociale, politico ed economico. La lotta alle emissioni di CO2 diventa il pretesto per la piena realizzazione della smart city e per l’adattamento del cittadino/utente al suo interno. Con il fantomatico obiettivo “zero emissioni” si sta conducendo il gregge umano dentro un recinto digitalmente perfetto, misurato e razionalizzato. Nelle città intelligenti gli individui saranno gestiti dagli algoritmi e dall’IA, spiati e sorvegliati fuori e dentro i loro corpi da sensori sempre più invasivi, fino ad ibridarsi con essi nella piena realizzazione del corpo-macchina. La città intelligente sarà green, completamente elettrificata e razionalizzata nella gestione delle risorse, come nell’agricoltura di precisione e nell’Allevamento o Zootecnia 4.0.
Anziché salvare gli animali dall’industrializzazione dello sfruttamento, la mandria umana si sta lasciando gestire attraverso una nuova forma di sfruttamento tecnoscentifico e secondo un nuovo modello di zootecnia (post)umana.
Man mano che la tecnologia diventa sempre più invasiva, si sposta in avanti l’asticella dell’accettazione alla tracciabilità, in una sorta di assuefazione totale alla comodità digitale. E’ fondamentale riprendersi dallo stordimento tecnologico: fissare dei limiti invalicabili al potere della tecnica segnerà lo spartiacque tra quella parte di umanità che si oppone alla digitalizzazione dell’esistenza e quella parte che, invece, da questo potere si lascerà ingenuamente sedurre a tempo indeterminato.
Il WEF e la Commissione Europea stanno spingendo verso l’implementazione della realtà virtuale e aumentata, soprattutto per i più giovani. Già nel 2019 Jeremy Rifkin auspicava “una nuova generazione di nativi digitali che frequenta tramite Skype le lezioni di scuole globali, interagisce su Facebook e Instagram, gioca in mondi virtuali” [5].
Il sogno di Rifkin di relegare i giovani nel mondo virtuale per empatizzare con le specie minacciate sulla base “della comune tragica condizione su una terra in via di destabilizzazione” è la delirante visione di chi disprezza la natura umana fingendo di salvare il mondo. Secondo l’elite tecnocratica, il mondo virtuale dovrebbe essere accolto come un luogo sicuro dai pericoli del clima che cambia, il rifugio in un ecosistema artificiale per salvare gli ecosistemi naturali evitando di emettere CO2. L’essere umano, fin dall’infanzia, diventa materia prima da plasmare, viene allevato secondo la cultura della resilienza, deve essere pronto a varcare i confini del mondo reale e a sconfinare nel mondo virtuale, fino ad ibridarsi con esso. L’individuo che accede al mondo virtuale e simpatizza con esso assume le sembianze di un automa: perde gradatamente pezzi di umanità insieme ai pezzi di vita reale. La transizione ecologico/digitale fissa le scadenze entro le quali la massa deve cedere quote di libertà e di autonomia, deve cedere ai ricatti cadenzati su abitazioni e auto, rassegnarsi all’impoverimento coatto e al metaverso come unica via di “salvezza”.
La CO2 è il nemico e l’umanità è colpevole di rilasciarla in atmosfera.
Persuadere il mondo intero che la sostanza che l’umano espira e che le piante respirano sia responsabile della imminente “sesta estinzione” ha richiesto un notevole impegno e anni di lavoro “chirurgico”, portato avanti da elite private e pubbliche aderenti all’ideologia maltusiana e tecnocratica di gestire l’umanità.
Dagli anni ‘70 in poi, con il fondamentale contributo del Club di Roma fondato nel 1968 da una circoscritta casta di industriali, scienziati e aristocratici, l’ideologia del catastrofismo e l’accusa alla popolazione mondiale di essere responsabile del collasso climatico vengono tramandati dalle note COP (Conferenze delle Parti), dalla Carta della Terra e da incontri e accordi internazionali meno noti ma non meno influenti, con il preciso obbiettivo di rafforzare la governance globale elitaria e tecnocratica dei centri di potere e dei vari filantropi come i Rockefeller, Strong e Gates, da sempre impegnati nell’attuazione di politiche volte alla riduzione della popolazione e favorevoli al modello cinese di gestione dell’umanità.
Mentre si continua a demonizzare la CO2 quale responsabile del riscaldamento globale, si tace sull’avvelenamento dell’aria dell’acqua e del suolo di sostanze chimiche, tossiche cancerogene e radioattive, molte delle quali provenienti dal settore militare e poi prodotte anche per uso civile.
C’è una responsabilità umana nella depredazione, nella cementificazione, nel sistema industriale predatorio, nello sfruttamento degli animali e delle piante, e nell’inquinamento elettromagnetico.
Lo scorso 17 gennaio 2023 è andato in scena l’arresto cinematografico di Greta Thunberg durante le proteste in Germania contro lo sgombero di Luetzerath, il paese che sarà raso al suolo per ampliare la miniera di carbone del colosso energetico RWE, già responsabile negli anni passati dell’abbattimento della foresta primaria di Hambach e dello sgombero di diversi paesi limitrofi per aprire la miniera di lignite, il carbone fossile utilizzato per la produzione di elettricità. Cosa faranno gli eco/digitali quando si comincerà a disboscare, a sfregiare la Terra, a riversare nel terreno e nelle acque sostanze altamente inquinanti e ad utilizzare grandi quantità di acqua per l’estrazione del litio e di tutti gli altri elementi indispensabili alla transizione eco/digitale?
Al momento nessuna voce “ecologista” ha rotto il silenzio e si è opposta ad un tale ecocidio.
Le multinazionali minerarie, appoggiate da tutto il sistema politico, economico e finanziario dei paesi occidentali, stanno sondando tutte le aree del pianeta in odore del nuovo oro nero, abissi marini compresi. Con l’obbiettivo di setacciare la terra a caccia di cobalto, nichel, rame e litio, indispensabili per elettrificare il pianeta, gli immancabili filantropi Bill Gates, Jeff Bezos, Michael Bloomberg e Richard Branson, con la collaborazione delle società minerarie Rio Tinto e BHP, che figurano tra i più grandi devastatori della terra e ironicamente tra le prime 50 società con le maggiori emissioni al mondo, hanno fondato la società mineraria KoBoldMetals, intenzionata a rilevare tutte le riserve mondiali di questi metalli, attraverso l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale.
Ogni area del globo dovrà essere sacrificata sull’altare della transizione ecologico-digitale, sia in ambito civile che militare, con buona pace della galassia “ecologista”, distratta nella lotta all’anidride carbonica. Sono tanti, tantissimi gli elementi indispensabili per la costruzione degli aberranti parchi eolici, dei pannelli fotovoltaici, delle auto elettriche, dei device digitali, dei satelliti che quotidianamente vengono sparati nello spazio, e di armi sempre più letali.
La spinta verso la smaterializzazione e la virtualizzazione della realtà ha un impatto ecologico drammaticamente materiale, ma che viene prontamente occultato affinché l’ignoranza abbondi nella testa degli ecologisti 4.0.
Nessun grido d’allarme dai fondamentalisti della green economy: le maggiori associazioni ambientaliste e i guru del neoecologismo smart professano il silenzio o al massimo accennano dei moniti che si perdono tempestivamente nel marasma entusiastico del green new deal.
Mentre sulle passerelle internazionali i grandi della Terra sfilano riempiendosi la bocca di slogan artefatti, a porte chiuse decidono il destino dell’umanità e del pianeta. Il vero volto della “sostenibilità” eco/digitale è quello degli smartphone, dei tablet e di tutte le apparecchiature digitali che transitano dalle nostre mani e dalle nostre case alle discariche di tutto il mondo. Montagne di rifiuti tecnologici tossici e radioattivi spesso vengono destinati ai paesi più poveri, l’ultimo anello della transizione eco/digitale. L’ebete euforia dell’industria “ambientalista” per le pale eoliche si scontra con la realtà fatta dei materiali necessari per costruirle: dalle migliaia di tonnellate di calcestruzzo, alluminio rame e acciaio ai famigerati metalli rari. I giganteschi ecomostri eolici invadono la Natura, infastidiscono e uccidono la fauna, sfregiano i borghi storici e offendono l’arte e la bellezza: la rivoluzione green serve a difendere l’alta finanza, le grandi multinazionali e le banche d’affari. Secondo la neolingua eco-orwelliana, il nucleare civile e militare di ultima generazione diventeranno “sostenibili”. Mentre si dismettono le centrali di “vecchia generazione” e si contrae strategicamente la disponibilità di energia, i filantropi e le loro start up stanno finanziando progetti per il nucleare “buono” di ultima generazione. Si sta allenando l’opinione pubblica a prendere confidenza con la bontà del nucleare civile e militare di ultima generazione, che in un prossimo futuro potrebbe essere proposto con la scusa di contrastare l’emergenza climatica.
È bene non sottovalutare quanto l’ambizione tecnocratica abbia, fin dal passato, sempre sostenuto l’energia dell’atomo per trasformare il “sistema Terra”: nel 1906 il chimico Frederick Soddy sognava di sciogliere le calotte glaciali e fare fiorire i deserti, l’eugenista Julian Huxley, qualche mese dopo Hiroshima e Nagasaki, davanti al pubblico americano celebrò il potere dell’atomo e la necessità di costruire un governo mondiale per gestirlo, ed infine nel 1976 Edward Teller, padre della bomba H, propose di risolvere il problema della siccità californiana facendo ricorso a delle esplosioni nucleari in atmosfera.
Nonostante dalla fine degli anni ‘50, si sia cominciato a perturbare lo spazio facendo esplodere migliaia di bombe nucleari, che hanno danneggiato gravemente la ionosfera, le fasce di Van Allen e lo strato di ozono, è stata attribuita la responsabilità di tali danni all’abitudine umana di consumare prodotti contenenti CFC (clorofluorocarburi).
Ad oggi l’inganno continua: mentre si accusa l’umanità di emettere CO2, Musk, Bezos e la nuova generazione di eco-transumanisti lanciano migliaia di satelliti 5G che danneggiano lo strato di ozono, inquinano i cieli e irradiano la Terra. Inoltre ibridano la loro tecnologia civile con quella militare, così come in passato sono avanzate armi belliche elettromagnetiche (HAARP) spacciate per tecnologie civili.
La transizione ecologica, in realtà, è una rivoluzione tecnologica spietata che abolisce la Natura.
Il regime tecnoscientifico “costruisce” la Natura 4.0, la natura intelligente: la carne sintetica, il pomodoro viola, la foresta intelligente, le piante resistenti ai cambiamenti climatici, sono solo alcuni esempi di come si attua la manipolazione della vita, presa in carico dagli “scultori dell’evoluzione”, che dopo essersi fatti la gavetta nel modellare piccole fette di Natura nei laboratori di ricerca, ora sono pronti a trasformare la Natura intera.
L’ingegnerizzazione della Natura non risparmia nemmeno i cieli, perché con la scusa della lotta alla CO2 e al riscaldamento/cambiamento climatico si implementeranno le tecniche di manipolazione dell’atmosfera, della terra e degli oceani. La geoingegneria atmosferica è già in azione a livello locale e per un periodo di tempo limitato, ma l’obbiettivo sarà quello di arrivare al pieno controllo del clima globale, come parte del controllo totale della vita.
Il Pianeta intelligente sarà, in realtà, il Pianeta Ingegnerizzato così caro al geoingegnere Alan Robock e al resto della geocricca, avvolto da velature che sbiancano il cielo, smorzano la luce del sole e uniformano la temperatura terrestre.
La Conferenza sull’acqua tenuta dall’ONU a marzo 2023 ha ufficializzato la nuova “emergenza” idrica. Sarà l’ennesima strategia per accentrare la gestione e imporre razionamenti.
Ma allora, se l’anidride carbonica, la luce e l’acqua, che sono tre elementi fondamentali della vita, cadono anch’essi nelle mani dei padroni universali, cosa ne sarà di noi e della vita sulla Terra?

Cristiana Pivetti, www.cristianapivetti.org
Maggio 2023
Pubblicato in L’Urlo della Terra, numero 11, Luglio 2023

Note:
1.https://www.nogeoingegneria.com/news/lagenzia-meteorologica-spagnola-aemet-afferma-che-piu-di-50-paesi-sono-impegnati-in-attivita-di-modificazione-artificiale-del-tempo/
2.https://clintel.org/
3.https://clintel.org/
4.Rosalie Bertell, Pianeta Terra L’Ultima arma di guerra Asterios Editore, 2018, pag. 27.
5.Jeremy Rifkin, Green new deal, Oscar Mondadori, 2021, pag. 221.

Disegni di Cristiana Pivetti

Il club di Roma e l’avanzare della governance mondiale

IL CLUB DI ROMA E L’AVANZARE DELLA GOVERNANCE MONDIALE 

IL PASSATO                                                                                                              
Il Green New Deal (Nuovo Patto Verde) è stato preceduto dalla Green Revolution: la Rivoluzione Verde, innescata nel 1944 dalla Fondazione Rockefeller, quando finanziò l’agronomo Norman Borlaug affinché si sperimentasse sul suolo messicano la selezione di piante capaci di tollerare una “dieta” ricca di nitrati e, contemporaneamente, in grado di resistere alle malattie tipiche delle coltivazioni intensive. L’integrazione di azoto per “sfamare” le nuove piante sarebbe stato fornito industrialmente anche dalla IG Farben, il colosso industriale chimico tedesco (controllato dai Rothschild e dagli stessi Rockefeller) produttore sia di fertilizzanti sintetici, sia di esplosivi per il III Reich. Il Messico fece così da apripista all’agricoltura intensiva nei paesi del sud del mondo. Affinché i campi, diventati fittissimi di piante, mantenessero una intensa produttività, vennero inondati di pesticidi e di azoto di sintesi, alterando così la biodiversità delle campagne e inquinando l’aria, la terra e l’acqua.                             
Il progetto targato Rockefeller fece gli interessi delle grandi aziende agricole e dei produttori di fertilizzanti chimici e di pesticidi. L’estensione dell’agroindustria oltre i confini dei paesi occidentali era supportata dalla convinzione, messa a punto negli anni precedenti, che l’aumento della popolazione avrebbe potuto saccheggiare il pianeta e avrebbe messo a rischio le scorte alimentari. L’emergenza legata all’innesco della bomba demografica traeva forza da gruppi elitari e scientifici inglesi che influenzavano tutti i settori delle istituzioni con le loro idee malthusiane ed eugenetiche.                                                                       
Uno di questi era l’X Club, fondato nel 1864; raggruppava scienziati vicini alla Royal Society, favorevoli all’ideologia maltusiana e darwinista. Era loro obbiettivo far penetrare tali teorie negli ambienti politici e accademici, così come in seguito fece la Fabian Society, società filantropica inglese nata nel 1884 per volontà di alcuni dei letterati più influenti del tempo, ai quali aderirono esponenti del mondo della politica di destra e di sinistra, fautori dell’ideologia eugenista. La Società fabiana lavorava per l’instaurazione di una governance elitaria tecnocratica mondiale, capace di controllare la massa attraverso una politica di contenimento demografico e di “selezione” della specie umana. Mirava ad infiltrare le idee maltusiane, eugenetiche e tecnocratiche nel tessuto politico sociale e culturale dello Stato britannico, trasformandolo dal suo interno (per approfondimenti Davide Rossi La Fabian Society e la Pandemia Arianna Editrice 2021).                                                          
Qualche anno dopo nasceva l’Eugenics Education Society, con il preciso scopo di diffondere l’ideologia eugenetica con il conseguente miglioramento della razza nelle maggiori istituzioni accademiche. Successivamente ribattezzata British Eugenics Society, si impegnò nel favorire la figliazione delle classi agiate a discapito di quelle povere, proponendo l’inseminazione artificiale delle donne con lo sperma di uomini ritenuti mentalmente e fisicamente superiori. La British Eugenics Society non mirava esclusivamente alla selezione dell’essere umano: nelle intenzioni del suo Presidente, Julian Huxley, le tecniche di manipolazione e di ingegneria avrebbero dovuto estendesi all’intero sistema Terra (J.Huxley Ciò che oso pensare Edizioni GOG 2022).                                                   
Il timore di dover condividere i propri spazi di agiatezza e di potere con una popolazione umana sempre più ingombrante, spinse la Fondazione Rockefeller, insieme al filantropo eugenista Frederick Osborn, membro della British Eugenetic Society e al politico statunitense John Foster Dulles, a fondare nel 1952 il Population Council, un’organizzazione non governativa dedita alle ricerche in biomedicina, scienze sociali e salute pubblica, finalizzate al controllo delle nascite nei paesi in via di sviluppo. Nello stesso anno l’eugenista Margaret Sanger fondava la “Planned Parenthood Federation”, organizzazione non governativa globale per la salute sessuale e riproduttiva, definita dall’articolista di Renovatio21 una vera e propria “catena di cliniche abortiste”. l’Organizzazione, da quanto si evince dall’articolo menzionato, rispecchiava in pieno il desiderio della fondatrice di ridurre certe categorie di popolazione promuovendo il controllo delle nascite  (F.Borgonovo Ecco chi è la paladina degli abortisti. Una razzista amante del’eugenetica. La Verità 27 Giugno 2022)                                                                                                                                       
In quegli anni (1950) la fondazione Rockefeller istituiva il circolo elitario Aspen Institute e nel 1954 organizzava la prima conferenza del gruppo Bilderberg: banchieri, economisti, finanzieri, rappresentanti delle organizzazioni governative e non governative, politici e filantropi si riunivano a porte chiuse per decidere le sorti del mondo.            
L’ipotesi che la sovrappopolazione mondiale potesse rappresentare un serio pericolo venne ulteriormente suffragata, nel 1954, dai risultati ottenuti dagli studi condotti dall’oceanografo Roger Revelle, ex-militare della marina americana responsabile delle misurazioni geofisiche durante i test di armi nucleari negli atolli di Bikini (operazione Crossroads), il quale esaminò gli effetti dell’anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili sul clima con l’aiuto finanziario della Fondazione Rockefeller. Nel 1957 Revelle pubblicò, insieme ad un collega, un lavoro scientifico dal quale emergeva il problema dell’aumento della CO2 nell’atmosfera, l’insufficiente assorbimento della stessa ad opera degli oceani e il pericolo che si verificasse un surriscaldamento del pianeta dovuto all’effetto serra causato proprio dall’eccesso di CO2 di origine antropica (Revelle e Suess 1957). Le teorie di Revelle le ritroviamo in un Rapporto da lui redatto, rapporto che venne anche sottoposto all’attenzione del presidente americano Lyndon B. Johnson nel 1965. In tale Rapporto Revelle arriva persino a suggerire una possibile soluzione al problema a dir poco fantasiosa: “spargere palline da ping-pong fluttuanti sulla superficie degli oceani così da renderla più riflettente”. Soluzione fantasiosa, ma ben poca cosa se paragonata alle sofisticate e pericolose tecniche di modificazione del tempo meteorologico già allora in atto e alle inquietanti promesse dello stesso Johnson che nel 1962 dichiarava: “Dallo spazio riusciremo a controllare il clima sulla terra, a provocare alluvioni e carestie, a invertire la circolazione negli oceani e far crescere il livello dei mari, a cambiare la rotta della corrente del Golfo e rendere gelidi i climi temperati”. (https://www.youtube.com/watch?v=79voFUqcPq4)                                          
In ogni caso, le ricerche di Revelle, tese a sostenere che la CO2 di origine antropica poteva avere un effetto sul clima, furono fondamentali perché diedero un ulteriore impulso all’ideologia malthusiana di quel periodo. Con la pubblicazione del suo lavoro, Revelle forniva una base scientifica sia al forte movimento anti-natalista finanziato dalle grandi fondazioni americane, sia alle teorie riguardanti il“riscaldamento globale” di origine antropica. Lo stesso Revelle nel 1964 fondò il “Center for Population studies” dell’università di Harward, dove si conducevano ricerche che mettevano in correlazione il controllo demografico con i cambiamenti climatici. (M.Giaccio Il Climatismo: una nuova ideologia Edizioni 21mo SECOLO 2015).                                                   
X Club, Fabian Society, International Planned Parenthood Federation, Eugenics Society, Population Council, Aspen Institute e gruppo Bilderberg sono solo alcune delle entità che perseguivano scopi sociali e scientifici apparentemente diversi tra loro, ma collegati da un comune obbiettivo di gestire, anche biologicamente, la vita umana, attraverso il controllo sociale, il controllo delle nascite e il “miglioramento” della specie umana; le teorie di Roger Revelle diventarono un ulteriore pretesto utilizzato dalle elite filantropiche e tecnocratiche al fine di realizzare le loro agende di ingegneria sociale. 
Nel frattempo prendeva forma, per volontà dell’eugenista Julian Huxley, un nuovo modello di ambientalismo e, sempre per sua iniziativa, veniva fondato l’Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN), e poi il WWF (Fondo Mondiale per la Vita Selvatica), una delle maggiori organizzazioni non governative di protezione ambientale.                      
Il ruolo del WWF va ricercato nella biografia dei suoi fondatori: Julian Huxley, il Principe Filippo d’Edinburgo e il Principe Bernhard dei Paesi Bassi (ex-nazista ed ex-presidente del Gruppo Bilderberg). I tre personaggi avevano in comune un forte disprezzo per la specie umana, che secondo Huxley andava migliorata attraverso la selezione dei “migliori” esemplari, destinati a governare il mondo, oppure sterminata per risolvere il problema della sovrappopolazione, come dichiarava il Principe Filippo nel 1988: “Nel caso in cui mi reincarnassi, mi piacerebbe tornare sottoforma di un virus mortale, in modo da poter contribuire  in qualche modo a risolvere il problema della sovrappopolazione”(Deutche Presse Agentur).                                                            
Il Fondo fa propria l’ideologia maltusiana ed eugenista dei suoi fondatori, secondo i quali una parte dell’umanità sarebbe un pericolo per la sopravvivenza del pianeta e delle elite mondiali, e la persegue nel corso della sua attività,  basti ricordare le parole di Thomas Lovejoy, vice presidente del WWF USA quando nel 1984 affermava che “Il problema maggiore è costituito da quei maledetti settori nazionali di quei paesi in via di sviluppo. Credono di avere il diritto di sviluppare le loro risorse come pare loro opportuno. Vogliono diventare delle potenze”(Catastrofismo climatico La grande speculazione. Carità-Gandini 2021). L’interesse per la vita selvatica faceva da copertura ad un piano di contenimento della crescita demografica, che per il WWF rappresentava il problema ambientale numero uno. “La campagna in favore dei progetti di denatalità è cosi assidua e ostinata da far sorgere il dubbio che forse la propaganda in difesa dell’ambiente sia solo un pretesto per realizzare la crescita zero”. La “multinazionale” dell’ambiente è stata governata da manager, dirigenti di multinazionali, finanzieri, le cui attività avrebbero dovuto essere in netto contrasto con le finalità del Fondo. Alcuni dei loro dirigenti furono a capo dei gruppi multinazionali coinvolti in alcuni dei peggiori disastri ambientali della storia: Bophal, Exxon Valdez e Seveso.  (https://it.paperblog.com/wwf-una-storia-poco-nobile-118758/).                      
Il WWF e le altre “industrie dell’ambiente” sono schierate contro la “pericolosissima” CO2, sfornano rapporti allineati con quelli dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), veri e propri testi di propaganda del terrore. Rimangono sordi agli appelli lanciati da coloro che mostrano teorie diverse, di chi sostiene che nell’arco della storia, la Terra ha subito diverse volte anche variazioni di temperatura senza che ciò comportasse necessariamente conseguenze catastrofiche.
La cricca filantropico/elitaria portatrice dell’ideologia eugenetica e maltusiana si va strutturando con la fondazione di nuove associazioni, alcune delle quali apertamente rivolte a rimodellare la società mondiale utilizzando l’emergenza ambientale come leva: il Club di Roma incarna perfettamente l’avanguardia di un nuovo modello di oligarchia elitaria “ecologicamente radicale”.  Il Club di Roma è così chiamato perché la prima riunione si sarebbe tenuta proprio nella capitale italiana. Altre fonti, invece, concordano nell’identificare la villa di Bellagio di proprietà della famiglia Rockefeller come sito inaugurale del Club, e David Rockefeller quale principale finanziatore dell’ente filantropico/ambientalista insieme al suo intimo amico Gianni Agnelli, anch’esso finanziatore del Club attraverso la Fondazione Agnelli.                                                    
Tra i fondatori ricordiamo Aurelio Peccei e Alexander King. Aurelio Peccei, imprenditore italiano, ha ricoperto cariche di alto livello nelle maggiori imprese dei trasporti (dirigente Fiat e cofondatore di Alitalia), dell’informatica (Olivetti), delle grandi opere (Italconsult) e in ambito militare ha ricoperto la carica di Presidente del Comitato per la cooperazione economica atlantica (succursale NATO).  Alexander King, chimico britannico a capo del programma scientifico dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), membro dell’Agenzia europea per la produttività e “scopritore pentito” del DDT, nell’arco della sua lunga vita ha rivestito importanti ruoli di potere all’interno di ministeri, fondazioni, dipartimenti e università occidentali, compreso il ruolo di consulente NATO. Peccei e King diventarono i pionieri del movimento per lo sviluppo sostenibile: si muovevano all’interno dei centri del potere capitalista anglo-americano ma con uno sguardo rivolto al modello cinese e sovietico, quale futuro metodo di governo da applicare al mondo occidentale. Tra gli altri membri merita ricordare l’aristocratico Bertrand de Jouvenel, precursore del capitalismo verde e dell’ecologismo utilitaristico, e Max Kohnstamm, segretario privato della Regina dei Paesi Bassi, poi segretario della comunità europea e successivamente presidente della commissione Trilaterale, fondata nel 1973 insieme a Kissinger, Brzezinski, Agnelli e l’onnipresente David Rockefeller. Si unirono al Club anche il principe Bernhard dei Paesi Bassi e il principe Filippo di Edinburgo, entrambi favorevoli alla riduzione della popolazione mondiale (P. Pelletier Clima capitalismo verde e catastrofismo Edizioni elèuthera).
Maurice Strong, filantropo petroliere canadese amico di David Rockefeller, aderì nel 1970. Con l’appellativo di “protagonista nella globalizzazione del movimento ambientalista”, insieme al meteorologo Bert Bolin, giocherà un ruolo fondamentale nella questione climatica, oltre a diventare un indiscusso protagonista della narrazione catastrofista climatica. Ha ricoperto posizioni di spicco delle maggiori realtà finto/ambientaliste, dal 1001 Nature Trust al WWF, al FOE (Friends of the Earth). Strong diventa “l’architetto” della governance ambientale dell’ONU: nel 1972 sarà Primo presidente del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP), da lui stesso voluto, e poi presiederà la prima conferenza sull’ambiente di Stoccolma (1972), di chiara matrice catastrofista. Nel 1979 a Vienna si tiene, con il contributo dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM) e UNEP, la prima conferenza mondiale sul clima e sui pericoli derivanti dai cambiamenti climatici di origine antropica. La successiva conferenza di Villach (1985) amplifica la problematica del riscaldamento globale legato alla CO2. Il rapporto della commissione Brundtland (1987), della quale fanno parte Strong e Bolin, diventerà il megafono dell’elite per diffondere la problematica globale messa a punto a Villach, alla quale si aggiunge il concetto di “sviluppo sostenibile”. A supporto del rapporto Brundtland  viene creato l’IPCC (1988) e Bolin ne diventa presidente. L’IPCC fornirà il fondamentale sostegno alla tesi dell’emergenza climatica causata dalla CO2 antropica che accompagnerà le successive conferenze mondiali sul cambiamento climatico, con Maurice Strong quale protagonista indiscusso. Dal Summit della Terra di Rio de Janeiro (1992), presieduto dallo stesso Strong, prende forma l’ideologia del catastrofismo climatico e il suo impianto mediatico: si fissano le condizioni per coinvolgere i grandi gruppi multinazionali nel gestire la green economy e prende corpo la famosa Agenda 2021 dell’Onu. Dal Summit di Rio in poi si tenterà di convincere le popolazioni che la loro sopravvivenza dipenderà dalle decisioni che politici, filantropi, gruppi finanziari, gruppi bancari e grandi imprenditori prenderanno durante questi incontri. Il club di Roma perseguiva la strategia fabiana che prevedeva di colonizzare i centri di potere istituzionali già esistenti, tra i quali i principali Forum internazionali delle Nazioni unite e l’IPCC, presieduti rispettivamente da Maurice Strong e Bert Bolin. Inoltre contribuiva alla fondazione di nuovi centri elitari come il World Economic Forum (1971), laddove ritroviamo Strong quale membro del consiglio di fondazione.                                   
Il Club di Roma era il principale contenitore di personaggi di spicco del mondo elitario politico economico militare e tecnocratico che aveva a cuore la difesa del loro status dal pericolo della popolazione mondiale che continuava a crescere e sprecava le risorse del pianeta. Rispetto ad altre associazioni, il Club di Roma ha esercitato un forte impatto sull’opinione pubblica, inaugurando l’epoca dell’ambientalismo catastrofista, secondo il quale la specie umana (naturalmente non quella elitaria) sarebbe colpevole di comportamenti aberranti e cancerosi contro il pianeta.                             
L’ideologia anti-umana del club viene supportata scientificamente con la stesura del suo primo Rapporto, pubblicato nel 1972, dal titolo “I limiti della crescita”. Frutto di uno studio condotto da scienziati e statistici del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e finanziato dalla fondazione Volkswagen, il Rapporto aveva lo scopo di definire i pericoli relativi alla moltiplicazione del genere umano e all’impatto della sua attività materiale sul pianeta. (per approfondimenti: P.Pelletier Clima Capitalismo verde e Catastrofismo Edizioni Elèuthera 2021  I.Bifarini Blackout 2022).                    
Il Rapporto del 1972 supporta pienamente lo sviluppo tecnologico, a patto che non si  incoraggi la popolazione ad “avanzare indefinitamente, innalzando il tetto delle possibilità materiali” come è stato fino a quel momento. I progressi delle tecniche antifecondative rivestirebbero un ruolo fondamentale nel restaurare lo stato di equilibrio tra indice di natalità e di mortalità, favorendo il controllo demografico a sfavore della crescita “disordinata”. Inoltre, il documento profetizza la produzione di cibi sintetici capaci di ridurre la dipendenza dalla Terra, così come prefigura la spinta della società verso la produzione di servizi piuttosto che verso la produzione di beni materiali di consumo, così da ridurre l’inquinamento. Poichè l’umanità non dovrebbe continuare a proliferare, si insiste sull’obbiettivo di stabilizzare il livello della popolazione e del capitale industriale per evitare la “crisi finale”. Il rapporto ha inaugurato un moderno sistema di modellizzazione computerizzata per analizzare il legame tra demografia, libero mercato, tecnologia, risorse e inquinamento, rivelatosi poi parziale e fallace, analogamente a quello successivamente adottato dall’IPCC per prevedere futuri catastrofici. Attraverso l’utilizzo di modelli computerizzati, la Terra viene ridotta ad un insieme di variabili, di calcoli e di parametri, diventando così un vero e proprio embrione del mondo-macchina. Il Rapporto del 1972 solleva la problematica della CO2 proveniente dai combustibili fossili che “influenza seriamente il clima” e analizza un insieme di problematicità  interdipendenti (demografiche, strategiche, alimentari e così via), risolvibili, secondo quanto asserito dal rapporto stesso, esclusivamente attraverso una pianificazione globale.                                              
La profezia di una fine imminente che troviamo ne “I limiti della crescita” attraversa tutti i lavori pubblicati successivamente: “nella metodologia del Club, il mito della fine è finalizzato a mobilitare l’opinione pubblica in favore di un progetto di società”(P.Braillard l’impostura del Club di Roma Edizioni Dedalo 1983). L’alternativa al caos e alla catastrofe diventa la pianificazione internazionale e la gestione razionale del pianeta, traendo ispirazione dal modello delle società multinazionali. Si invoca una “solidarietà” tecnocratica mondiale “secondo cui la politica deve essere guidata da princìpi della massima efficienza e asservita ad una razionalità tecnica, sfuggendo all’ideologia e facendo ricorso ai diversi settori della scienza”(IDEM). Il pensiero che anima costantemente il Club di Roma è l’inadeguatezza dei singoli paesi ad affrontare crisi di ampio respiro e la “convinzione che l’ONU è oggi il solo strumento capace di assicurare il cambiamento verso un nuovo ordine mondiale” (IDEM). Nell’ottica degli appartenenti al Club, le Nazioni Unite avrebbero dovuto accentrare potere, per esempio attraverso il controllo delle risorse mondiali e dei sistemi economico, finanziario, sanitario, militare, energetico e “naturalmente” ambientale. Non è un caso se tra i membri del Club ritroviamo gli esponenti di tutti questi settori.

ILPRESENTE                                                                                                                            Il Club di Roma non si è estinto con la morte dei suoi fondatori perché l’ideologia neo-malthusiana, incarnata negli obbiettivi de “I limiti della crescita”, è stata tramandata fino ad oggi. L’ossessione del Club per l’instaurazione di una governance globale capace di affrontare le molteplici emergenze trova la sua piena espressione nella pubblicazione nel 2018 del “Piano di Emergenza Planetaria” in collaborazione con l’Istituto Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico. Il Piano stabilisce in 10 punti le linee guida per un futuro più sostenibile e resiliente. Si tratta dell’esplicita richiesta alle Nazioni Unite e ai governi di dichiarare una emergenza climatica planetaria.                                   
Lo spirito de “I Limiti della crescita riecheggia durante il corso della lettura. Il Rapporto, che non ha mai smesso di rappresentare un faro per la grande industria ambientalista, a cinquant’anni dalla sua nascita assume la veste di libro profetico, i cui scenari catastrofici si stanno drammaticamente materializzando, a meno che non si attui un radicale cambiamento della società e del sistema economico-finanziario. La narrazione catastrofista viene supportata dai continui riferimenti apocalittici dell’IPCC, l’ente che il Club ha contribuito a costruire: dal pericolo della CO2 e dell’aumento della temperatura globale oltre i 2 gradi all’estinzione delle specie animali, il mantra è sempre lo stesso, così come lo sono i colpevoli, ossia la massa umana produttrice di CO2 e del buco dell’ozono, massa umana che deve diventare resiliente alle transizioni volute dall’alto per evitare l’estinzione. Alcuni punti del Piano del 2018 anticipano le linee guide draconiane partorite recentemente dalla Commissione Europea: la proibizione della vendita di motori a combustione interna e la ristrutturazione degli edifici a zero emissioni entro il 2030, l’invito rivolto alle banche principali a sostenere le energie “pulite”, la piena adesione all’agenda 2030, il pieno sostegno all’utilizzo delle tecnologie digitali e il potenziamento dell’intelligenza artificiale per combattere le emissioni antropiche. Il Club di Roma sostiene la trasformazione digitale del Pianeta, poi, in continuità con “I limiti della crescita”, rilancia la necessità di contenere la popolazione demografica incentivando l’accesso ai contraccettivi e ai programmi di pianificazione familiare.                                                                   
Il “Piano di Emergenza Planetaria”, al quale aderiranno successivamente il WWF, il Climate4Nature e tante altre realtà della galassia “ecologista”, verrà inserito all’interno del documento “global risk report 2020” del World Economic Forum. D’altronde l’attuale co-presidente Sandrine Dixson-Decléve del Club è di casa a Davos, così come lo erano i suoi predecessori.    
Nell’agosto 2020, il “Piano di Emergenza Planetaria”viene integrato con la pubblicazione del “Piano di emergenza planetaria 2.0,” che include l’emergenza sanitaria da Covid-19, facendo così convergere la crisi climatica e della biodiversità con la salute umana. La cosiddetta interdipendenza delle emergenze  diventa l’occasione per rilanciare la necessità di ridisegnare i governi, i sistemi economici e finanziari a favore di una leadership globale. La riduzione dell’estrazione dei combustibili fossili, la riduzione delle emissioni di CO2, l’implementazione delle energie “pulite”, l‘implementazione dei fondi non governativi per il clima, l’utilizzo “sostenibile” del suolo e il potenziamento dell’agricoltura rigenerativa e smart sono alcuni dei punti toccati nel documento. Alla sinfonia catastrofista del clima che cambia, delle temperature che si alzano e dei fatidici 1,5 gradi oltre i quali l’IPCC paventa il collasso mondiale, si aggiungono la minaccia del covid e delle future zoonosi che affliggeranno l’umanità in assenza di un piano globale efficace. La recita della zoonosi e del salto di specie persiste anche se il copione puzza di stantio. Rasentando il ridicolo, Club di Roma, WEF, Greta Thunberg, Greenpeace, Ultima Generazione e il resto della eco-cricca insistono sulla tesi secondo la quale il virus avrebbe fatto il salto di specie dagli altri animali all’uomo, anziché direttamente dal biolaboratorio all’uomo. L’impianto menzognero della zoonosi serve a far convergere l’emergenza sanitaria con quella climatica e ad estendere i poteri dell’OMS sulla “salute globale”.                                                                             
Con il progetto “One Health”, sottoscritto a ottobre 2022, l’OMS si è accordata con UNEP, WOAH (Organizzazione mondiale per la salute animale) e FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura) per affrontare le minacce alla salute animale, umana e ambientale e fornire direttive internazionali in materia di epidemie zoonotiche. L’OMS utilizza la narrazione dell’emergenza climatica per imporre direttive globali in merito a qualsiasi rischio che abbia a che fare con la salute pubblica. Si tratta di un ulteriore passo verso il totalitarismo sanitario/climatico: il potere di violare i nostri corpi attraverso la somministrazione di farmaci biotecnologici e di negare le nostre libertà fondamentali attraverso l’obbligo dei certificati digitali per potere accedere ai servizi più elementari stanno diventando dei pericoli drammaticamente reali, per buona pace di chi ingenuamente ha creduto che l’emergenza covid fosse un brutto ricordo da archiviare.      
“Il sonno della ragione genera mostri”, e più si persiste nel sonnecchiare più i mostri si moltiplicano. L’OMS, il grande leviatano sanitario agisce nel nome dei suoi finanziatori: Bill Gates, GAVI Alliance, Wellcome Trust e le maggiori case del farmaco e del digitale, inoltre stringe collaborazioni con la fondazione Rockefeller nell’affrontare le prossime pandemie causate dai cambiamenti climatici. L’ibridazione dell’emergenza sanitaria con quella climatica serve ad imporre regole sempre più stringenti nel nome di un fantomatico bene collettivo. La governance tecnocratica che è alla base dell’ONU e le sue appendici mira alla gestione totale della popolazione e alla trasformazione degli individui in una massa entusiasta di diventare schiava del regime tecno-sanitario-digitale; per chi invece non si adegua e prova ad evadere dalla gabbia del ricatto, del controllo e della sorveglianza totale, scattano le misure censorie e la regressione allo stato di pericoloso nemico della salute e dell’ambiente, imputabile del reato di ecocidio. Il nuovo ordine climatico-sanitario globale è allineato nel fare risalire le varie problematiche mondiali, reali o virtuali, al riscaldamento globale e il martellamento mediatico senza tregua fidelizza l’opinione pubblica anche se la narrazione è scadente. 
L’attuale co-presidente del Club di Roma è Sandrine Dixson-Declève, una delle donne più influenti al mondo nel guidare l’economia green. Come i suoi predecessori, nell’arco della sua carriera ha ricoperto posizioni di prestigio all’interno dell’ONU e delle sue agenzie, della Commissione Europea, delle maggiori aziende chimiche petrolifere e automobilistiche, di contesti legati all’istruzione e alla ricerca. In continuità con i vecchi membri del Club, anche l’attuale co-presidente è inserita nei gangli del potere governativo e non governativo per contribuire insieme alla eco-cricca alla piena realizzazione del Green New Deal e della Quarta Rivoluzione Industriale. 
Oligarchi, manager, tecnocrati, magnati del petrolio, delle energie “pulite” e delle armi: sono questi i filantropi che piacciono tanto a Greta Thunberg e a quelli di Ultima generazione and Co. Sono gli eco-filantropi che fanno soldi facendo del bene. Non sono il contadino con i suoi saperi tramandati nel tempo per coltivare la terra senza sfruttarla, o l’ecologista che rifiuta il modello tecnocratico e il consumismo come stile di vita, l’artigiano o il bottegaio dietro l’angolo di casa. Niente di tutto questo. La direzione che deve prendere il mondo con tutto quello che ci sta dentro è decisa da entità che volano talmente in alto da non essere viste da chi sta in basso.                  
Nel maggio 2022, il Club fornisce la “bussola” che indica la direzione da intraprendere per il raggiungimento del Green deal europeo, con la pubblicazione del rapporto “International System Change Compass”, stilato con la collaborazione di SYSTEMIQ e Open Society European Policy Institute. Il documento fornisce una guida per i leaders europei nel ridefinire la leadership, la finanza, la governance, la sanità, la mobilità, la gestione delle risorse ecc…. affinchè si raggiunga la piena elettrificazione, decarbonizzazione, neutralità climatica e l’equità vaccinale per il mondo intero. Il Club di Roma ha conservato un ruolo da protagonista nel ridefinire l’assetto sociale politico ed economico dei popoli: le alleanze con  realtà così influenti come il WEF di Klaus Schwab e l’Open Society di George Soros ci offrono un’idea di quanto è compatto il Potere tecno/filantropico al di sopra di noi. E’ nel maggio 2023 che Ursula Von Der Leyen, Presidente della Commissione Europea, interviene alla conferenza Beyond Growth evocando il Club of Rome e compiacendosi di come il Green deal europeo segua “lo spirito” del Rapporto “I limiti della crescita”. In realtà il Club di Roma e l’intero panorama ambientalista sostenitore del Green new deal trasforma lo spirito della Natura in un feticcio. La Natura da salvare diventa un’entità astratta che si scontra con la materialità della sua devastazione insita nello “spirito” del Green new deal. La narrazione che ci viene somministrata quotidianamente in difesa della biodiversità e degli ecosistemi è infantile, banale, semplicistica come le migliori strategie pubblicitarie richiedono: è la costruzione di un mondo incantato che fluttua  in assenza della gravità necessaria per riportarci coi piedi per terra e per guardare con sguardo disincantato la realtà nuda e cruda.

IL FUTURO
Dietro l’apparente buon senso di raggiungere la fine dello sviluppo economico illimitato, dell’inquinamento e dello spreco delle risorse del pianeta si cela il disegno perverso di ridurre la popolazione demografica e i suoi consumi affinché le risorse del pianeta vengano totalmente messe a disposizione della grande trasformazione digitale ed elettrica del mondo ad opera dei grandi inquinatori del pianeta. Come ricordava Aurelio Peccei nel 1981, “un comportamento aberrante della nostra specie la rende gravemente colpevole davanti al tribunale della vita. Si tratta di una proliferazione esponenziale che non si può definire che cancerosa” (Cento pagine per l’avvenire, 1981). In realtà l’umanità non è colpevole di esistere e di procreare perché metterebbe in pericolo il pianeta, ma perché “il modello di vita prodotto dal capitalismo industriale deve essere salvaguardato a vantaggio di una minoranza, poiché qualsiasi tentativo di estendere questo modello all’intera umanità provocherebbe necessariamente il crollo del sistema”(Celso Furtado).                      
L’umano del futuro non possiederà nulla, bensì accederà a dei servizi alle condizioni di credere nelle emergenze perpetue e di aderire alle transizioni infinite, di credere nella bontà dell’intelligenza artificiale e della digitalizzazione coatta dell’esistenza. Il capitalismo diventa 4.0,  rimodellato sull’obbiettivo di rafforzare la governance globale elitaria e tecnocratica che difende la politica globalista e capitalista delle grandi multinazionali e delle start up ad alta tecnologizzazione, mentre la massa sarà gestita attraverso lo strumento delle emergenze calcolate, del razionamento e della sorveglianza. L’umanità ingombrante e caotica che popolava il vecchio mondo con il suo consumismo compulsivo cederà il posto al transumano che abiterà il nuovo mondo disciplinato dalla tecnologia.
Si va concretizzando il sogno dei filantropi Rockefeller, Maurice Strong, Aurelio Peccei e Alexander King di attuare una politica di riduzione della popolazione e di adottare il modello cinese per gestire l’umanità. Sotto l’incantesimo della paura per il clima che cambia e del senso di colpa per esserne la causa, si accettano le imposizioni calate dall’alto senza mettere in discussione eventuali altre finalità che non hanno nulla a che vedere con la salvaguardia della Natura o della riduzione di emissioni di anidride carbonica. Il pericolo della CO2, riproposto in modo ossessivo e in tutti i contesti possibili, ha simbolicamente inquinato i cervelli dei giovani e dei meno giovani, ha interdetto la capacità di riconoscere dove sta il bene e dove sta il male, dove sta la verità e dove alberga la menzogna. La menzogna alberga nella bocca di chi fino a ieri era protagonista nel distruggere la Natura nel nome del capital globalismo ed oggi continua a distruggerla nel nome del capitalismo inclusivo e della Quarta Rivoluzione Industriale. La menzogna alberga nelle bocche di chi promuove la pace nel mondo fomentando la guerra e la sua economia.
Colossi della finanza come Blackrock, JP Morgan, Goldman Sachs e Bank of America investono indifferentemente nel settore militare, farmaceutico e nella transizione eco/digitale. “Fare soldi facendo del bene”, è lo slogan con il quale si irretiscono i neo gruppi ecologisti e li si porta ad una sorta di idolatria verso Bill Gates, Jeff Bezos, Elon Musk, George Soros e tutti gli altri ecotransumanisti che finanziano la causa degli attivisti affinché il nuovo mondo da loro progettato si realizzi nel più breve tempo possibile. I neo-ecologisti diventano complici, spesso a loro insaputa, di un disegno anti umano e contro natura che solo menti rivolte al transumanesimo possono concepire. La cricca degli eco- filantropi di casa alle Nazioni Unite e a Davos, con i suoi lacchè politici, suonano il piffero per chi è disposto a saltare nel neomondo postumano. Trasudano arroganza. Il mal celato disprezzo per la popolazione, che dall’alto del loro status viene percepita ne più ne meno che una massa informe da ridurre all’umiliante operazione algebrica utilizzata da Bill Gates per spiegare il rapporto tra popolazione e CO2, non suscita avversione come sarebbe auspicabile, anzi, convince l’umanità ad odiare se stessa. Gli individui vengono convinti a percepirsi come dei parassiti, dei cancri, degli abusivi del pianeta “progettato per contenere 3 miliardi di persone” (Cingolani). L’individuo impaurito e colpevolizzato accetta passivamente gli ordini che calano dall’alto. Si lascerà inoculare ad oltranza altrimenti muore e fa morire i propri simili, si lascerà “decarbonizzare” altrimenti  muore e fa morire il pianeta. 
L’umanità viene educata ad odiare se stessa. L’umanità che odia se stessa non ha futuro perché si lascerà sostituire da “qualcosa di migliore”: la transumanità.                          
In continuità con l’agenda maltusiana, assistiamo ad una perversa propaganda anti-natalista, quale gesto di responsabilità per non sovraffollare ulteriormente la Terra. L’organizzazione francese “Démografie responsabile”, per esempio, incoraggia l’autolimitazione della natalità per favorire la stabilizzazione della popolazione umana e la sua riduzione a lungo termine, ricorrendo anche alla sterilizzazione chirurgica. Ancora più estrema è la posizione del “Movimento per l’estinzione umana volontaria” (VHEMT), che annovera tra i suoi seguaci quelli favorevoli alla sterilizzazione obbligatoria.       
Per salvare il pianeta bisogna depopolarlo e l’ideologia del progresso diventa il valido alleato al raggiungimento di tale obbiettivo: l’accesso facilitato alla farmacologia anticoncezionale e abortiva, la strenua difesa dell’aborto e i continui tentativi di estenderne i limiti temporali fino a sovrapporli all’infanticidio, il proliferare dell’ideologia gender, la tendenza del potere biomedicale a prendersi in carico la gestione della procreazione e la somministrazione di massa di vaccini, di farmaci e di sieri genici colpevoli di procurare l’infertilità, sono alcuni degli strumenti con i quali si estingue parte dell’umanità fingendo di emanciparla e di salvarla. Anche l’eutanasia diventa un diritto da rivendicare per tutti e per tutte, per il malato, per l’anziano, per il povero, per il disabile, per il giovane depresso e per l’angosciato cronico, senza lasciare indietro nessuno. L’accesso alla morte programmata deve diventare inclusiva per le categorie “inutili” e non funzionali all’ascesa dell’uomo nuovo con l’anima in silicio: il postumano.                                                                                                                          
Gli eco-transumanisti di oggi sono gli eredi dei tecnocrati che nel passato hanno preso il potere un po’ alla volta, inserendosi man mano nei gangli delle istituzioni trasformandole, in modo quasi impercettibile, dall’interno. Oggi si sono realizzate le condizioni ottimali per dare la “zampata” finale, secondo la strategia dei fabiani, e per instaurare un regime tecnoscientifico che trasforma gli esseri viventi e il sistema terrestre nel suo complesso. Il neo regime tecnoscientifico non ammette dissenso: è dolce per chi lo accetta in modo sonnambulesco, diventa spietato per chi prova a contrastarlo. Tutti i protagonisti del catastrofismo climatico sono colpevoli di fronte alla Natura di spendersi per una transizione eco-digitale che di ecologico non ha proprio nulla, sono colpevoli di fronte all’umanità di adoperarsi per l’attuazione di un programma anti-umano che si chiama Quarta Rivoluzione Industriale.                                                                                                                         
I lupi travestiti da agnelli dell’élite fabiana di ieri non sono altro che i transumanisti travestiti da filantropi di oggi.    

Riferimenti:
Davide Rossi, La Fabian Society e la Pandemia, Arianna Editrice. 2021.
Julian Huxley, Ciò che oso pensare, Edizioni GOG 2022.
Francesco Borgonovo, Ecco chi è la paladina degli abortisti. Una razzista amante dell’eugenetica in La Verità , 27 Giugno 2022.
https://www.youtube.com/watch?v=79voFUqcPq4
Catastrofismo climatico. La grande speculazione, Carità-Gandini 2021.
https://it.paperblog.com/wwf-una-storia-poco-nobile-118758/
Philippe Pelletier, Clima capitalismo verde e catastrofismo, Edizioni Elèuthera, 2021.
Ilaria Bifarini, Blackout. La transizione ecologica e la deriva dell’Occidente, 2022.
Philippe Braillard, L’impostura del Club di Roma, Edizioni Dedalo, 1983.


Cristiana Pivetti, Giugno 2023, www.cristianapivetti.org

Pubblicato su L’Urlo della Terra, numero 11, Luglio 2023
www.resistenzealnanomondo.org

Disegni di Cristiana Pivetti

Video del Convegno I figli della macchina

Silvia Guerini
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Renate Klein
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Il regno del mercato totale – Intervista a Dany-Robert Dufour

Il regno del mercato totale
Intervista a Dany-Robert Dufour da La Décroissance

Ritenete che il sesso sia una realtà biologica e che non si possa cambiare il proprio corpo a piacimento? Allora siete sicuramente dei reazionari e rischiate di essere banditi dal campo dei progressisti. Costoro, perfetti utili-idioti del capitale, non hanno capito che la richiesta che il mercato e la tecnologia, chiamate a soddisfare ogni desiderio individuale, si assumano una responsabilità sempre maggiore, fa il gioco di un «capitalismo libidinale», sempre più radicale.

È questo il messaggio del filosofo Dany-Robert Dufour nel suo nuovo libro “Le Phénomene trans” (Il fenomeno trans) – Editore Le Cherche Midi – 2023.

La Décroissance: ciò che lei nel suo libro nomina «il fenomeno trans» per lei non è altro che «una delle ulteriori opzioni nel catalogo liberale». Da vent’anni a questa parte, noi mandiamo alle stampe la rivista “La Décroissance” per ricordare che non può esserci una crescita infinita. L’ideologia trans è frutto della stessa matrice dell’ideologia della crescita: il regno dell’illimitato in tutti i settori?

Dany-Robert Dufour: sì, transessualismo (o transumanesimo) e crescita infinita fanno parte della stessa lotta. Infatti, queste ideologie ignorano il limite. Esse sono vittime della hybris, la dismisura. Eppure, lo sappiamo, di questo rischio eravamo stati avvertiti sin dall’inizio della nostra civilizzazione: i greci dicevano che colui che è vittima della hybris e infrange il limite va incontro alla nemesi, il castigo. Il castigo della crescita infinita sono gli squilibri ambientali che minacciano la vita sulla terra. Quanto ai castighi che si abbattono sull’attivismo trans, possiamo menzionare gli squilibri psichici, giuridici e sociali che scaturiscono dall’affermazione grottesca per cui un uomo può essere una donna (o viceversa).

La D.: Lo psicanalista Jean-Pierre Winter osserva che «tutto funziona come se la fantasia fosse la fonte della legge». Infatti, al di là dei singoli casi individuali, non è la società nel suo complesso che ondeggia nel regno della fantasia?

D.-R. D.: Sì, nel nostro caso, si tratta di una fantasia di onnipotenza. Infatti, gli attivisti trans affermano che si può scegliere il proprio sesso – quando nella realtà è impossibile. Tuttavia, questa scelta è oggi avallata dalla legge. Siamo passati nel giro di qualche anno dall’idea che un individuo potesse esibire dei tratti sociali dell’altro sesso (ciò è sempre esistito in ogni tempo) all’affermazione che esso potesse assumere l’altro sesso. Un grosso sbaglio. Infatti, non è per il semplice fatto che appaio come una persona dell’altro sesso che sono dell’altro sesso. A meno di sostituire l’apparenza all’essere. In questo caso, ci si ritrova nel pieno di una fantasia, una parola di origine greca che condivide la stessa radice di “fantasma”.

La D.: Questa rivista festeggia l’uscita del nostro duecentesimo numero, ma questa festa ha un retrogusto amaro poiché abbiamo l’impressione di assistere ad una disgregazione continua della situazione. Bisogna prendere la situazione per quello che è per non correre, anche noi, il rischio di vivere cullandoci nelle nostre fantasie?

D.-R. D.: Sì, con tutta evidenza assistiamo ad un peggioramento della situazione. È per questo che occorre rimanere vigili. Ne va della nostra integrità intellettuale che consiste proprio a non cadere nel regno della fantasia. Un po’ di latino, questa volta, per dire come «vigile» derivi da «vigilare», «vegliare», da cui la parola «vigilante», la vedetta, incaricata di osservare dall’alto il profilo dell’orizzonte e di fare dei segnali. È il nostro compito: scrutare e analizzare tutto ciò che ci viene incontro – anche se nulla garantisce che saremo ascoltati.

La D.: Allo stesso modo dell’ex Femen Marguerite Stern, richiamando la realtà, ossia al fatto che essere una donna è una realtà biologica, lei è stato invitato soprattutto dai media di destra, e allo stesso tempo messo da parte da quelli di sinistra. Come sfuggire a questa trappola?

D.-R. D.: Le ricordo che per molto tempo non sono stato invitato né dai media di sinistra (che mi consideravano un neo-reazionario) né da quelli di destra (che mi consideravano un rivoluzionario). Non sono solo in questa situazione. Con la stampa del mio ultimo libro “Le Phénomene trans” (Il fenomeno trans) le cose sono un po’ cambiate.

Infatti, la stampa di destra ha visto nel mio saggio un buono strumento per stuzzicare la sinistra. Ho accettato di rispondere agli inviti, ma mi sono imposto di non dissimulare le mie posizioni, in particolare mettendo in evidenza le responsabilità del Mercato nelle derive trans attuali. Il quotidiano Le Figaro ha colto nel segno perché ha pubblicato, nell’edizione di sabato 8 aprile scorso, la lunga intervista che mi ha fatto intitolandola: «La sinistra contro il movimento trans». Del resto, se questo la può rassicurare, il libro ha ricevuto una buona recensione anche nel giornale «L’Humanité».

A dire il vero, ci ritroviamo in una confusione tale che la stampa di sinistra difende, salvo rare eccezioni, un neoliberalismo culturale, ciò a cui si oppone la stampa di destra, che tuttavia difende allo stesso tempo un liberalismo economico. Jean-Claude Michéa ha descritto con precisione questa ripartizione dei compiti. In sintesi, viviamo tempi molto confusi: gli uomini sono donne e la sinistra è di destra… Certo, se la stampa autenticamente critica (come la vostra) fosse più sviluppata, non dovrei guardarmi intorno. Ma siccome questa stampa non ha, per definizione, i mezzi della stampa per così dire “ufficiale”, mi sembrava una buona strategia usufruire della stampa di destra per denunciare il neoliberalismo culturale della sinistra. Non sarebbe così se la sinistra facesse il suo mestiere. In realtà siamo lontani dall’obiettivo. Essa non ha capito che con il neoliberalismo e il regno del Mercato Totale (che giunge fino all’intimità) siamo passati, già da trent’anni, dal vecchio capitalismo patriarcale ad un nuovo capitalismo libidinale. Insomma, la sinistra non ha fatto il mestiere di vedetta di cui accennavo sopra per avvertire le persone assennate riguardo a ciò che stava per arrivare. Peggio ancora: questa sinistra si è fatta rifilare il suo attuale “software woke” dal neoliberismo culturale americano (i GAFAM della Silicon Valley, insieme a Hollywood, alla Disney e a Netflix…) senza nemmeno accorgersene!

La D.: Alcune parole come la «mascolinità tossica» o ancora «l’androcene» sono apparse in questi ultimi anni, additando il maschio come la causa primaria di tutte le crisi. Tuttavia, la funzione del padre, oggi così vituperata, è di separare il bambino dalla madre. Questa colpevolizzazione dell’uomo nella sua virilità, squalificandolo dal ruolo di figura di riferimento per i ragazzi di oggi, non è a sua volta una causa principale del «fenomeno trans» e un imperativo del capitalismo liberale?

D.-R. D.: Esatto. Lacan ha sottolineato, durante le sue giornate di studio sulle psicosi dell’età infantile, negli anni intorno al 1968, che il declino della funzione paterna avrebbe portato all’avvento degli «eterni bambini». L’eterno bambino è la persona bloccata in un’infanzia prolungata. Una creatura senza il senso del limite, abbandonata a se stessa, che in apparenza sembra gioire di un’onnipotenza, la quale, in realtà, la devasta. Una manna dal cielo per il Mercato che promette la soddisfazione delle pulsioni a questi eterni bambini, sempre bisognosi, grazie al consumo di prodotti della società di massa, di fantasticherie su misura offerte dall’industria culturale.

Attualmente, la cultura “woke”, proveniente dagli Stati Uniti, non ha fatto altro che aggravare la situazione. Il “woke” è in effetti quel nuovo eterno bambino che si caratterizza dal fatto di qualificarsi con uno status di vittima del «vecchio uomo bianco occidentale» (chiara raffigurazione del Padre). Uno status dopotutto confortevole poiché consiste in una volontà di onnipotenza con le fattezze di una legittima richiesta di risarcimento senza fine e di soddisfazione di ogni richiesta. «Sono vittima (del Padre), perciò tutto mi è dovuto». In tal modo questi rappresentanti della cultura “woke” si presentano con sembianze contraddittorie: se da un lato predicano la tolleranza compassionevole che si addice allo status di vittima, dall’altro non esitano a «cancellare» violentemente tutto ciò che si oppone alle loro idee; si occupano di politica, ma operano attraverso la modalità vittimistica della minoranza (sessuale, etnica… ) che fa leva sulla propria sofferenza per imporre le visioni morali proprie di tale minoranza; investono sulla cultura, ma lo fanno provocando un separatismo culturale – un Bianco non potrà mai criticare l’opera di un Nero, un attore etero non potrà mai interpretare il ruolo di un omosessuale, una donna non deve leggere il romanzo di un uomo; il passato dovrà essere rivisto e corretto in funzione dei loro valori «morali»…  Il risultato finale sono campagne di virtù che chiedono una revisione completa delle leggi e del linguaggio comune per poter includere i loro infiniti elenchi di «diritti particolari». Queste campagne fanno largo uso sulle reti cosiddette sociali che riuniscono, secondo la dinamica del mimetismo, coloro che esibiscono lo stesso tratto caratteristico: «sono vegano», «sono trans», «sono nero», «sono omosessuale», «sono donna», etc. Il grande sconfitto è l’universalismo (repubblicano) che pose dei valori comuni per i quali valeva la pena battersi come, ad esempio «libertà, uguaglianza, fraternità». E il grande vincitore, è la ghettizzazione democratica, con l’apparizione di gruppi identitari, ognuno dei quali accampato sulla propria pretesa di superiorità morale, in guerra permanente contro gli altri.

La D.: In conclusione, la risposta alla nostra crisi di civiltà si risolve forse semplicemente in questo proverbio: è meglio la privazione piuttosto che il vizio?

D.-R. D.: Sì, con la precisazione che non amo molto il termine «privazione». Mi permetta un esempio per spiegare il motivo. Se io, genitore, impedisco a mio figlio di passare delle ore con dei videogiochi idioti e compulsivi, non è per privarlo di qualcosa, ma, al contrario, affinché sia capace di desiderare, affinché abbia il tempo e gli strumenti per esercitare una volontà propria. Lo stesso vale a livello di civiltà: se è vero che occorre finirla col viziare gli individui attraverso la crescita continua, è per dare loro il tempo e gli strumenti per capire in quale mondo precisamente vogliono vivere.

Tradotto dal francese
Pubblicato su La Décroissance, numero 200, luglio 2023

Pdf dell’intervista in francese:

Il biolaboratorio mondo – Costantino Ragusa

“L’ingegneria genetica è una tecnologia tanto radicale quanto quella nucleare, non solo perché entrambe affrontano gli elementi costitutivi “estremi”della materia e della vita, disintegrando ciò che era ritenuto fino ad allora “insecabile”(l’atomo o la cellula), ma anche perché nell’uno e nell’altro caso non si tratta più di vere e proprie prove, dato che non c’è più l’insularità del campo di sperimentazione, e che il laboratorio diviene suscettibile di avere la stessa estensione del globo”.
Enciclopédie des nuisances

Recentemente in Italia, seppur ancora in contesti molto marginali, si è iniziato a discutere dei pericoli legati alle ricerche di ingegneria genetica e più in generale alle ricerche con agenti biologici, soprattutto dopo le recenti mobilitazioni a Pesaro contro l’apertura di un Istituto Zooprofilattico con classificazione di pericolosità biologica di livello 3.

Per forza di cose per comprendere quello che sta effettivamente avvenendo bisogna fare un passo indietro, anche abbastanza lungo, ma fondamentale per non sbagliare pensando che sia stato il clima di emergenza degli ultimi anni ad aver portato questi nuovi Biolaboratori, quando al contrario sono invece sempre i laboratori a creare le emergenze.

Intanto, per cominciare, le ricerche condotte in questi nuovi Biolaboratori non rappresentano certo una novità, sia per l’Italia, ma ancora di più per tanti altri paesi per il mondo.

Sono decenni che, segretamente, poi ufficialmente e poi di nuovo segretamente, vengono effettuate ricerche ed esperimenti senza sosta in questa direzione, ogni paese con le proprie caratteristiche e i propri diritti umani e animali da tenere in considerazione. Senza girarci tanto intorno, queste ricerche “civili” sono sempre state collegate con applicazioni militari, anche se erroneamente negli anni sono state notevolmente trascurate sia dal movimento ecologista sia da quello pacifista, almeno finché le tragiche vicende della guerra tra Iran e Iraq non le hanno riportate tristemente alla ribalta, mettendo in evidenza la dualità della ricerca scientifica. Eppure certe produzioni chimiche e biotecnologiche rappresentano a tutti gli effetti delle armi di sterminio di massa che vanno a integrare gli arsenali atomici.

Storicamente abbiamo episodi precisi che tracciano un nuovo modo di fare la guerra, con una cura sempre più micidiale nello strumento di morte usato. Nonostante la conferenza dell’Aja del 1899 vietasse l’uso di gas tossici, il comando tedesco fece riversare sulle truppe francesi il 22 Aprile del 1915 ad Ypres 168 tonnellate di cloro. Questa grande nube di cloro che si produsse grazie al vento favorevole sorprese e soffocò 15 000 francesi, uccidendone 5000. A sovrintendere l’attacco dal punto di vista scientifico c’era Fritz Haber, un chimico al quale nel 1918 fu conferito il premio Nobel per il suo fondamentale lavoro sulla sintesi dell’ammoniaca da idrogeno e azoto. Chissà se questo scienziato, a cui se ne aggiungeranno tanti nel tempo, anche lui abbia avuto incubi distopici come più volte ha raccontato Jennifer Douden, premio Nobel per aver ideato il CRISPR/Cas9.

Questi episodi da sempre impregnano la logica più segreta della guerra portando questa ad una incessante e febbrile corsa alla ricerca verso l’offesa e verso la difesa. La corsa all’arma chimica, una volta iniziata, divenne difficilmente arrestabile. La ricerca in ambito militare si impegnò nella produzione di nuovi aggressivi chimici, di munizioni adatte alla loro diffusione e di mezzi adeguati di protezione, che come vedremo con le biotecnologie darà il via ad una spirale senza fine, puntando tutto sulla formula vaccino come antidoto universale.

Verso la fine del 1915 il fosgene salì di importanza come prodotto industriale e sostituì il cloro per la sua maggiore maneggevolezza e soprattutto per la sua forte tossicità. Venne immediatamente adoperato nei campi di battaglia con l’utilizzo di ben 150.000 tonnellate che andarono a riempire speciali munizionamenti, responsabili dell’80% di morti da arma chimica.

Anche l’Italia conosce un impiego significativo di aggressivi chimici, come quello effettuato dagli austriaci nel 1916, un anno dopo quello di Ypres, tra San Michele e San Martino del Carso, dove una densa nube di cloro e fosgene liberata da 3000 bombole da 50kg penetrò nelle trincee cogliendo buona parte delle truppe nel sonno. Questo disastro fu sicuramente un successo dal punto di vista scientifico e militare perché ben 8000 soldati furono neutralizzati e la metà di questi persero la vita.

Nel 1917 venne per la prima volta utilizzata dai tedeschi l’iprite o gas mostarda (solfuro di etile biclorurato) e l’iniziativa fu ben presto imitata da tutti gli altri belligeranti, che puntarono su ricerche sempre più micidiali di prodotti di morte, con risultati tra l’altro sempre effimeri, visto che ogni progresso raggiunto da una parte veniva presto superato dall’altra, spingendo gli scienziati a darsi da fare nei laboratori per trovare nuove formule sempre più tossiche e assassine.

A tutto questo, almeno formalmente, si cercò di porre rimedio nel 1925, con la Conferenza di Ginevra che bandì l’uso dei gas asfissianti. Il protocollo – da cui gli Stati Uniti successivamente si sfilarono – fu sottoscritto da 32 paesi, ma l’assunzione di questo impegno non impedì all’Italia prima della seconda guerra mondiale di usare il suo gas mostarda contro gli etiopici.

Ovviamente le formalità dei protocolli non hanno fermato le ricerche seppur apparentemente confinate tra le mura dei laboratori. Ben presto si è arrivati ai primi gas neurotossici, scoperti nel 1936 da un chimico della Farben Industrie in Germania, mentre lavorava su nuovi erbicidi. Successivamente quella che sembrava una scoperta occasionale portò ad uno sviluppo di nuovi agenti tossici, che vennero prodotti a livello industriale e presero i nomi tristemente noti di Tabun, Sarin e Soman – tutte sostanze letali e in grado di agire in pochissimi minuti. Nonostante la Germania nazista avesse prodotto fino al 1945 17.000 tonnellate solo di Tabun questo non venne utilizzato, probabilmente per timore della risposta avversaria che poteva essere uguale o ben peggiore, considerato che i laboratori nel mondo erano tutti in piena attività a creare antidoti e quindi a sua volta nuove armi.

Il vero slancio a queste ricerche è stato dato dopo la guerra, in particolare dall’allora Unione Sovietica e dalla Gran Bretagna. Ma nessuno si è tirato indietro e qualche anno dopo il secondo conflitto mondiale scienziati svedesi e americani potevano annunciare con giubilo ai propri rispettivi governi che grazie alla sintesi di nuovi straordinari prodotti, i gas V, una nuova era di pace si stava aprendo. Nel frattempo, il colosso farmaceutico Merck gestiva i suoi affari con i prodotti farmaceutici e al contempo il programma di armi biologiche del Pentagono. I ricercatori della Merck si vantavano di poter produrre agenti di guerra biologica senza grandi spese e senza bisogno di particolare logistica. Ma soprattutto veniva ricordato il grande vantaggio dato dalle armi biologiche: queste potevano essere prodotte sotto le sembianze di una legittima ricerca medica.

La maggior parte degli storici fa risalire l’avvento del moderno “programma di biosicurezza” con gli attacchi all’antrace nel 2001, realizzati tra l’altro da scienziati interni al sistema biotecnologico di punta della ricerca. Ma già anni prima alcuni pianificatori del complesso militare-industriale e medico stavano già contestualizzando la biosicurezza come potente strategia volta a sfruttare potenziali pandemie o atti di bioterrorismo per fomentare un’enorme crescita di finanziamenti, e come strumento per compiere la metamorfosi non solo dell’America, ma del mondo intero. Dopo quegli attacchi all’antrace, “vaccini” divenne improvvisamente un eufemismo per armi biologiche, nonché un’ancora di salvezza per un’industria delle armi biologiche in alto mare.

Da quel momento tutto l’apparato militare del Pentagono con tutti i suoi pianificatori – come il ben noto DARPA che in Italia finanziava gli esperimenti sulle zanzare OGM a Crisanti – cominciò a far confluire fiumi di denaro e a far pressione con le sue lobby verso gli esperimenti sul “guadagno di funzione”. La ricerca “a duplice uso” era ormai pienamente lanciata.

Nel tempo tutti i vari possibili “incidenti” non sono da considerarsi come eventi casuali, ma sono insiti nella logica perversa che sta dietro la ricerca scientifica, al profitto e a precise ideologie scientiste che sostengono questi processi qualsiasi siano le possibili conseguenze, quando queste vengono ipotizzate. Se si sovrappone una cartina geografica dove sono presenti i laboratori chimici e di biotecnologia con livelli sicurezza 3,4 (almeno quelli noti) con una cartina degli incidenti degli ultimi anni, si vedrà come la geografia della morte non menta e faccia coincidere i centri di ricerca con i territori colpiti.

In questi settori parlare di incidenti è puro eufemismo. Ad esempio, la base navale Namru3 di livello 3 trasferitasi nel 2020 dall’Egitto a Sigonella in Sicilia dopo oltre 80 anni di attività non si porta dietro bei ricordi, considerato le cause legali aperte dallo Stato Egiziano che accusa i militari americani di aver fatto esperimenti incontrollati e di aver utilizzato la popolazione come cavia. Significativo è quello che pensano di fare qui in Italia se proprio ad inaugurare la stagione dei Biolaboratori sia stato proprio un centro con una simile storia.

Se nella diffusione delle bombe atomiche, di cui sappiamo avere anche in Italia un bel campionario, si è giustamente insistito molto sulla mistificazione insita nella distinzione tra bombe e reattori nucleari per produrre energia elettrica, dal momento che sempre il processo di produzione da vita al plutonio, elemento esplosivo base per realizzare ordigni atomici. Lo stesso processo lo si può ritrovare nelle armi chimiche batteriologiche, come ci hanno ricordato in modo drammatico le vicende di Bophal, ma era già emerso anche in casa nostra con Seveso e Avenza. Nel giornale l’Unità del 20 Dicembre 1984 si esprimevano dubbi che il gas sprigionato dalla Union Carbide “non fosse di metile, ma il ben più pericoloso fosgene, probabilmente destinato ad uso militare”. E se Assochimica si era affrettata a dichiarare che in Italia non vi erano produzioni di Isocianato di metile, dimenticava non solo che nel Dicembre del 1984 vi era stata una perdita di fosgene dall’impianto della Montedison di Brindisi, ma anche che il fosgene veniva prodotto alla Montedison di Porto Marghera e che l’Isocianato di metile era regolarmente in circolazione commerciale. Questo evidenzia come la “guerra sporca” da molto tempo è in fase di lavorazione, potremmo dire anzi, per maggiore chiarezza, che è parte integrante dei processi di armamento militare, dove gli obiettivi sono sempre gli stessi: avere armi sempre più efficaci dai bassi costi economici e dagli alti costi in vite umane.

Restando ancora nella chimica industriale il comparto militare con i suoi aggressivi nervini ha sempre preso dai cicli di produzione dei pesticidi, ben di poco si differenziano e solo negli stadi finali delle reazioni chimiche, prestandosi a semplici e rapide riconversioni degli uni negli altri e rendendo assai dubbia qualsiasi forma di controllo.

Parallelamente agli studi sull’arma chimica presero avvio quelli sull’arma biologica, si potrebbe dire che i gas nervini sono figli dei pesticidi come la guerra batteriologica è figlia della biotecnologia.

L’idea di usare armi biologiche risale all’esperienza di infezioni e di epidemie che hanno rappresentato un serio problema militare nel corso delle passate guerre. Con lo sviluppo della microbiologia, l’acquisizione di nuove conoscenze sulla fisiologia batterica e virale e la possibilità di effettuare colture di microrganismi su vasta scala, l’idea di usare la malattia come arma è diventata possibile.

Già fin dal 1936 la Germania aveva intrapreso importanti ricerche in questa direzione, nel 1940 installò un centro di ricerca a Porton, il Canada fondò in quegli anni il suo centro a Suffield e tra il 1930 e il 1940 il Giappone aveva dedicato importantissimi indirizzi di ricerca e sperimentazione verso la guerra biologica. Nel 1942 gli Stati Uniti costituirono il Servizio per la ricerca sulla guerra biologica, aprendo l’anno successivo quello che sarebbe diventato il centro più tristemente famoso della biologia bellica, Fort Detrick. Un rapporto stilato durante la seconda guerra mondiale descrive la ricerca sulle armi biologiche degli Stati Uniti come superiore di quella dei nazisti.

Dopo la seconda guerra mondiale le grandi potenze USA e URSS diffusero informazioni circa i miglioramenti apportati alle armi chimiche e biologiche, ma la “trasparenza” durò poco, successivamente tornarono a nascondere le proprie ricerche. Questo avvenne soprattutto dopo che l’opinione pubblica cominciò ad interessarsi di queste questioni, in particolare riportando precise denunce da parte della Russia nei confronti degli Stati Uniti accusati quest’ultimi non solo di effettuare esperimenti di guerra biologica, ma avvalendosi dei migliori scienziati nazisti e giapponesi, ben presto ricollocati a servire altri criminali che evidentemente come i nazisti consideravano gli esperimenti effettuati su esseri umani nei lager come un’occasione irripetibile per trarre il maggior vantaggio ovviamente ai fini della scienza.

Nel 1955 una rivista di Tokio il “Bungei Shunju ” riportò la testimonianza oculare di atroci esperimenti fatti dai giapponesi nel corso della seconda guerra mondiale, dove si calcola che morirono tra le 1500 e le 2000 persone trasformate in cavie, ma l’informazione più significativa fu che tutto quel personale scientifico e altamente preparato fu trasferito negli Stati Uniti. Tutto quel prezioso personale venne quindi riadattato per i laboratori del vincitore che non solo voleva fare altrettanto, ma farlo meglio. Quel prezioso sapere scientifico quindi non solo non andava disperso, ma andava salvaguardato e, come si è visto negli anni successivi, incrementato per preparare nuove e più ricombinanti armi biologiche.

Questi pezzi storici, dove evidentemente la vita umana valeva meno di zero se equiparata agli “interessi superiori” della scienza e oggi delle tecno scienze, sono utili per ricordare ai critici di oggi quando ancora una volta abbiamo visto calpestare la dignità e la vita stessa degli esseri umani con il Programma Covid che forse non era da augurare nuove Norimberga per i nuovi assassini in camice bianco e mimetica. Il potere è pronto a sacrificare qualcosa, ma soprattutto è pronto a salvaguardarsi e gli scienziati nazisti e non di ogni risma e credo hanno continuato a fare il loro lavoro indisturbati negli anni successivi non come cosa straordinaria e marginale, ma sempre nei settori di punta della ricerca in grado di cambiare il corso di una guerra. Quella stessa ricerca che oggi facendo tesoro di quella eredità ha potuto attuare tecnologie di ingegneria genetica su milioni di persone con un controllo zootecnico di massa.

Ben lontani dall’abbandonare l’utilizzo di armi biologiche anche durante la guerra di Corea, gli Stati Uniti vennero accusati di aver sganciato bombe batteriologiche nel territorio nord coreano, accuse poi confermate da ricerche specifiche effettuate sul campo. L’interesse per gli agenti biologici da parte degli Stati e soprattutto dei loro apparati militari ha molteplici spiegazioni, ma le ragioni vanno da ricercarsi soprattutto nella loro ampia possibilità di intervento e modalità di sviluppo. Tanti singoli agenti per uno spettro enorme di situazioni legate alla biologia umana, ma più in generale alla vita in generale. A seconda del microrganismo usato, alcuni vettori biologici possono interessare il sistema respiratorio, altri le mucose dell’occhio e del naso, altri ancora vengono assorbiti attraverso il cibo o qualsiasi sostanza contaminata. E non bisogna dimenticare che prima delle armi atomiche sganciate sul Giappone, la ricerca militare statunitense aveva valutato interventi massicci di armi batteriologiche per distruggere l’economia del paese.

L’impiego di microrganismi a scopo di arma biologica ha il vantaggio per i suoi produttori che questi hanno un’enorme facilità di riproduzione, rendendo semplice ed estremamente economica la realizzazione di una catena di infezioni partendo da un singolo individuo infetto. La diffusione del morbo sarà ancora più efficace se il contagio si diffonde per via aerea durante il periodo di incubazione della malattia, quando essa, non essendosi ancora presentata nella sua forma conclamata, non è né riconoscibile, né curabile. Alcuni batteri e virus inoltre presentano un’elevata resistenza nei confronti di condizioni ambientali avverse, soprattutto quelli che hanno la possibilità di formare spore che possono mantenersi infettive anche per alcuni anni.

Già negli anni ‘60 su riviste militari si poteva leggere come queste armi si prestassero ad essere “modulate” opportunamente e intercambiate o miscelate tra loro per ottenere il massimo rendimento.

Il generale delle forze armate americane Rotschild, che a metà degli anni ‘50 fu incaricato di dirigere le ricerche inerenti al programma di guerra chimico biologica, scriveva in Tomorrow Weapons che le armi biologiche potevano essere un ottimo deterrente per la Cina che, avendo una situazione geografica particolare con correnti d’aria che la battono in tutte le direzioni, avrebbe dovuto sentirsi disincentivata dall’iniziare una guerra, considerando che ciascuna di queste correnti avrebbe potuto essere infettata da germi.

Al tempo veniva considerato come un grande problema per le armi biologiche l’aspetto meteorologico, per l’ovvia ragione di sbagliare il colpo o di vederselo restituire con i propri agenti biologici. Oggi, grazie alle manipolazioni del clima e alla possibilità che hanno i militari di intervenire sui processi atmosferici, questi problemi non sussistono più, anzi, potremmo dire che questi sono ancora più micidiali e invitanti per un uso sistematico e selettivo.

Tra i requisiti delle armi biologiche bisogna ricordare che la difesa da queste non è per niente agevole, proprio perché spesso è complessa l’identificazione dell’agente responsabile e quindi di un antidoto adeguato. Quando esplose la fabbrica chimica di Bhopal i morti furono tantissimi anche perché la multinazionale non dette indicazioni precise sulle effettive sostanze prodotte nell’impianto, rendendo le possibili cure meri tentativi frutto di ipotesi. Ancora una volta un “incidente” permetteva di vedere in vivo e su vasta scala, sui corpi della poverissima popolazione indiana, gli effetti della guerra chimica.

Le biotecnologie al servizio della guerra cambiano completamente la situazione e per guerra non è da intendersi solo quella scatenata da un paese ad un altro, ma anche quella che la tecno-scienza sferra quotidianamente sui corpi. Della frontiera di cui non si parla mai è quella tra il laboratorio e il resto del mondo: la ragione è molto semplice, non esiste più. Nella vasta estensione di un ambiente artificiale che ormai ci circonda è in corso una grande sperimentazione volta a estirpare ciò che rimane di imprevedibile e incontrollabile non con scosse violente e traumi, ma con continue manipolazioni, volte a stravolgere la natura e tutto ciò che può rappresentare spontaneità e autonomia.

Anche con la dichiarata pandemia da Sars-Cov 2 l’attesa è stata lunga prima di intervenire, ma poi si è intervenuto in modo sbagliato, sapendo di sbagliare, apparentemente senza un senso logico. La biotecnologia attuale permette di intervenire sulla vita nascondendo anche il proprio operato, la formula dell’artifizio tecnologico è in mano esclusivamente ai suoi creatori e sviluppatori che potrebbero essere stati così originali o spregiudicati per le tecniche utilizzate da aver realizzato una novità. Come spesso accade nella ricerca scientifica, un risultato arrivato per caso mentre si cercava altro. Successivamente vengono date formule, nomi e si prepara la catalogazione, ma non si lavora su qualcosa di concreto, si imbriglia qualcosa che non si conosce nelle varie ricombinazioni e conseguenze ultime, soprattutto se il campo di intervento è la moderna biotecnologia. Nonostante questo vediamo classificare laboratori BSL1, 2, 3, 4, ecc… dando all’esterno un’impressione di sicurezza, non tanto della struttura, ma dei suoi emissari in camice bianco: il messaggio è sempre lo stesso, che costoro sanno in ogni caso quel che fanno, sia nello scoprire qualcosa di nuovo andando a frugare fin nei processi più intimi della vita, sia nel rimediare ad un disastro figlio della biotecnologia stessa.

La logica della preparazione della guerra biologica segue esattamente quella della cosiddetta guerra tradizionale, dove in campo viene messo un armamentario più “normale”, dove l’immaginario già tante volte si è posato e ha fantasticato. Se la ricerca militare è una continua innovazione tecnologica e strategica – per essere sempre più avanti verso nemici veri, immaginari o possibilmente futuri – sullo stesso piano viaggia quella ricerca militare interessata alla biologia degli organismi viventi che costantemente scandaglia l’innovazione degli sviluppi della biotecnologia per progredire. Così abbiamo da un lato più di mezzo mondo nel pieno di una dichiarata pandemia da Sars-Cov2 in cui si elogiano i vaccini come prodotti salvifici necessari per evitare una catastrofe sanitaria con numeri incalcolabili di morti, e dall’altro lato il Pentagono che definisce i vaccini come armi biologiche e di distruzione di massa. La spirale in questo senso non ha mai fine perché si lavorano nei laboratori con gli agenti più patogeni al mondo, non contenti della loro tossicità si producono ceppi ancora più virulenti, ufficialmente per proteggere gli stessi militari sul campo in teatri di guerra da minacce che vengono create costantemente e in continuo crescendo e aggiornamento. Così quello che resta alla fine è un intero sistema di armi biologiche, un organismo potenzialmente infetto, un siero genico contro di esso e il suo sistema di diffusione.

Le nuove tecnologie di ingegneria genetica contemplano una versatile forma di armamenti che possono essere usati per un’ampia varietà di scopi militari, dal terrorismo alle operazioni contro insurrezionali fino a guerre su larga scala per distruggere intere popolazioni.

Le buone intenzioni sbandierate dai governi nel tentativo di camuffare le possibilità dell’apparato farmacologico e biotecnologico fanno acqua da tutte le parti. A differenza delle tecnologie nucleari, l’ingegneria genetica può essere prodotta e sviluppata a buon mercato, richiedendo meno infrastrutture e abilità scientifiche e apre la possibilità a vasti impieghi, rendendo impossibile distinguo tra quello che può essere difesa o attacco. In tutto questo un ruolo fondamentale l’avranno quelli che sono chiamati vaccini, avendo forme di produzione molto vicine a quelle delle armi biologiche. Come abbiamo già visto con la chimica e i pesticidi, il passaggio è breve a fare altro da quanto dichiarato e possiamo essere certi che quell’ultimo tratto non solo è stato fatto, ma lo si vuole anche ufficializzare e normalizzare nell’indistinto della nuova neolingua e perdita di senso, facendo della tecnologia genetica una nuova arma del futuro da usare anche contro i popoli come abbiamo visto nella dichiarata pandemia.

Abbiamo intorno una pletora di gran scienziati, opinionisti, politici, ambientalisti, intellettuali di ogni sorta che si interrogano sul prossimo futuro, su dove potrà andare la scienza e se potrà mai superare delle soglie critiche. Lo stesso avveniva subito dopo la scissione dell’atomo che ci ha regalato le bombe atomiche. Adesso siamo in piena era biotecnologica, dove la legislazione europea ha autorizzato che gli esseri umani possono essere OGM con le terapie geniche prima di approvare gli OGM in agricoltura, rendendoci quindi di fatto una sottospecie sperimentale della zootecnia agricola.

Il lento ma inesorabile proliferare di nuovi biolaboratori (BSL3) anche in Italia ha sicuramente implicazioni molto diverse tra loro. Se da una parte è fuori di dubbio che questi centri si apprestano a fare da luoghi di stoccaggio e ricerca dopo la chiusura di tanti laboratori della stessa natura prima in Egitto con il Manru3 e adesso con quelli ucraini sotto la supervisione americana, quello che si vuole far passare è una nuova convivenza.

Gli ultimi anni hanno visto il nome di Wuhan associato al suo laboratorio (BSL4), sede di misteriosi e sicuramente pericolosi esperimenti, con informazioni concesse neanche troppo velatamente dai media occidentali. La vetrinizzazione della scienza ha portato a una ricerca biotecnologica che non è stata per niente sommersa o marginalizzata – pensando alle ricombinazioni pandemiche e ai nuovi sieri a mRNA che facevano notizia tra entusiasmi e pentimenti come quello di Robert Malone – e si è presentato il nuovo paradigma che parte proprio dalla biotecnologia, dal CRISPR/Cas9 e dalle tecnologie mRNA. Il messaggio è molto chiaro o forse è talmente chiaro che non è compreso dai più: queste saranno le nuove basi di partenza legate alle cosiddette Scienze della vita. Non è un caso che in Italia nei laboratori di Trieste e in quello che si vuole costruire a Pesaro si parla espressamente di ricerca sulle biotecnologie e sui vaccini. Questi centri puntano su una ricerca d’emergenza, diventata ovviamente la normalità, perché quello che si crea e che si mette a punto per una guerra non torna mai indietro, soprattutto quando nel suo cammino questa ricerca va a toccare nel profondo gli organismi viventi. Nella sua propaganda divulgativa la scienza continua ancora a parlare di ricerca sul cancro, malattie rare, malattie genetiche, ma tutto è sempre subordinato al nuovo paradigma che parte dalla biotecnologia e si applicherà con presunte terapie vaccinali che ormai sappiamo bene non hanno niente a che fare con quelle stesse malattie. Parlare di vaccino rimanda a qualcosa che previene, che immunizza da qualche malattia, magari grave e mortale anche se ormai ci siamo abituati pure a quella farsa del vaccino influenzale pensato per gli anziani, fascia di persone che sappiamo stare molto a cuore ai neo malthusiani.

Quello che si vuole far passare e far introiettare prima nel linguaggio comune, e poi come senso generale, è un nuovo modo di affrontare qualsiasi questione legata alla salute. Un nuovo ed unico paradigma darà la traccia al modo con cui si sta a questo mondo, ovviamente anche in sintonia con la nuova era verde e ambientalista. Una costante opera preventiva di ricerca che deve andare oltre a quelle che possono essere le minacce presenti, perché il nuovo paradigma guarda in avanti, con il particolare non da poco di stravolgere però il presente. Così la biotecnologia con le ricerche di guadagno di funzione aggrava agenti poco patogeni e banali virus rendendoli terribili e catastrofici; la geoingegneria si prepara all’emergenza climatica intervenendo sul clima per modificarlo; la biologia sintetica si appresta alle minacce ambientali e alla scarsità di cibo sviluppando alimenti artificiali sostenibili nei confronti degli altri animali tanto da far cantare la prossima liberazione animale agli animalisti. Questo è ovviamente solo l’inizio di quello che si prospetta all’orizzonte nel breve tratto. Faremo l’abitudine ai biolaboratori e si vuole che siano guardati con timore, ma allo stesso tempo con spirito di riconoscimento, perché l’emergenza è sempre dietro l’angolo. La particolarità delle ricerche ivi condotte è che queste non sono neutrali, ma sono pienamente in assetto con la grande Trasformazione, pensare che ci sia o ci possa essere un possibile argine o appiglio al loro procedere è semplicemente ridicolo o tragico. La ricerca è già tutta in quella direzione, il resto poco per volta viene marginalizzato fino a farlo sparire del tutto. Il modo è molto semplice, i grandi capitali messi a disposizione dagli organismi internazionali, dalla finanza e dai grandi filantropi sono disponibili unicamente per determinate direzioni e sappiamo che i tecno-scienziati sono avidi di finanziamenti, possibilità di pubblicare e magari potere decisionale e politico nelle varie accademie e istituzioni.

Quello che ci resta da fare è non far realizzare questi centri dove vengono proposti, ma questo non è assolutamente sufficiente, è necessario comprendere che la logica che vuole normalizzare quei particolari centri è la stessa che da tempo ci ha costretto ad un’esistenza in un biolaboratorio. Questa consapevolezza potrà farci comprendere il programma in corso e da questo trarne le giuste considerazioni su come organizzarsi e intervenire. Perché è ormai evidente che pestilenze, carestie e diffusione di nuove forme di malattie in tutto il mondo prima sconosciute potrebbero trasformarsi nell’atto finale del copione preparato dai vari potentati transnazionali e dei loro accoliti per questo secolo della biotecnologia.

Costantino Ragusa- Resistenze al nanomondo (www.resistenzealnanomondo.org),
Giugno 2023, Bergamo
Pubblicato nel giornale L’Urlo della Terra, n.°11, Luglio 2023